L'ultima (clamorosa) copertina dei Cahiers du Cinéma
Così l'eretica tv di Mad Men ha sedotto i tromboni dei cineclub francesi
A guardarla sembra finta, come le copertine del Male che annunciavano l'arresto di Ugo Tognazzi capo delle Brigate rosse. Là dove solitamente compaiono fotogrammi indecifrabili di incomprensibili film tailandesi vincitori di Palma d'oro (oppure attori emaciati come Vincent Gallo, in associazione di stampo cinefilo con Francis Ford Coppola che ha rinnegato il “Padrino”) ora c'è Betty Draper.
A guardarla sembra finta, come le copertine del Male che annunciavano l'arresto di Ugo Tognazzi capo delle Brigate rosse. Là dove solitamente compaiono fotogrammi indecifrabili di incomprensibili film tailandesi vincitori di Palma d'oro (oppure attori emaciati come Vincent Gallo, in associazione di stampo cinefilo con Francis Ford Coppola che ha rinnegato il “Padrino”) ora c'è Betty Draper. Bionda, bella, algida come le femmine che piacevano a Hitchcock, vestita con l'eleganza di Grace Kelly in “La finestra sul cortile” (camicia di seta stampata a farfalle, gonna a piegoline, doppio filo di perle, sigaretta) non aspettavamo di vederla sulla copertina dei Cahiers du Cinéma, numero 658.
Vero, era l'ultima rimasta: la banda nei Mad Men – pubblicitari, casalinghe già disperate, sinuose segretarie e cocktail martini nella New York anni Sessanta – ha conquistato Vogue e il Wall Street Journal, passando per Vanity Fair, GQ, Esquire, il New York Magazine. Ma bisogna pur sempre ricordare che i Cahiers fondati da André Bazin sono dal 1951 il fortino della cinefilia; che lanciarono la politica degli autori dipingendo i produttori come il male del mondo; che su quelle pagine hanno scritto Eric Rohmer, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard e François Truffaut; che nel '68 furono gestiti da un collettivo maoista; che ancora si distinguono per la prosa contorta e la passione per Roberto Rossellini.
Contrordine, cinefili. L'editoriale di Stéphane Delorme riconosce che la Pixar rappresenta una delle cose migliori capitate a Hollywood negli ultimi dieci anni. L'altra sono le serie tv come “Mad Men”, “In Treatment”, “The Wire” (ritratto di Baltimora scomposto per temi – spacciatori, poveri, politici, bambini, media – minuzioso come un documentario di Frederick Wiseman o una pagina di Marcel Proust), “Breaking Bad” (chimico malato di cancro che garantisce un futuro alla famiglia fabbricando e spacciando metanfetamine) e la nuovissima “Treme” ambientata a New Orleans. Idea condivisa da Peter Biskind, storico della Hollywood anni Settanta nel saggio “Easy Riders, Raging Bulls” (sottotitolo “Come la generazione sesso, droga e rock and roll salvò Hollywood”). Se dovesse scrivere un libro sul cinema americano degli anni Zero, dice, lo intitolerebbe “A proposito di HBO”.
Trenta pagine della rivista sono dedicate alle serie tv, con un'intervista a Matthew Weiner inventore dei pubblicitari di Madison Avenue (nella foto sfoggia un maglioncino a greche arancioni e verdi, di peggio c'è solo il tricot con l'alce indossato da Mark Darcy nel “Diario di Bridget Jones”) e una al suo produttore Scott Hornbacher. Ogni episodio viene girato in sette giorni – bisogna quindi trovare registi che non svengano all'idea di girare undici pagine di sceneggiatura da mattina a sera. Oltre a controllare tutti i dettagli, Matthew Weiner sta attento alle mosche. Molte scene e riunioni, all'agenzia di pubblicità, sono riprese dal basso in modo da inquadrare il soffitto. Su quei pannelli, nella prima stagione, Matthew Weiner piazzò una mosca. Era un modo per coinvolgere lo spettatore, evitando l'effetto cartolina o l'effetto nostalgia (il bianco e nero fu subito scartato per lo stesso motivo), e ricorda certe mosche ammirate in certi quadri antichi, roba da afferrare lo scacciamosche all'istante.
L'intervista a Hagaï Levi, il genio dietro “BeTipul” (l'originale israeliano di “In Treatment”), era prevedibile. Un po' meno la conversazione con Agnieszka Holland, ex collaboratrice di Andrey Wajda e di Krzysztof Kieslowski che ha diretto tre episodi di “The Wire” e il pilot di “Treme”. Juan José Campanella confessa di aver finito di scrivere il copione di “Il segreto dei suoi occhi” mentre dirigeva una puntata del “Dr. House” (lavora anche per “Law & Order”). Barbet Schroeder, reduce come regista da un episodio della terza stagione di “Mad Men” (la quarta è appena iniziata negli Stati Uniti) commenta: “E' come se mi avessero fatto guidare la Maserati del cinema”. Converrete con noi che non è esattamente linguaggio da cineclub.
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