Il lato troppo oscuro di Facebook e del suo fondatore voyeur
Se si è iscritti a Facebook, si può impedire ad altri utenti di accedere al proprio profilo, con una sola eccezione: Mark Zuckerberg, il suo creatore. Provandoci si ottiene un messaggio di “errore generale” che impedisce di proseguire, per evitare che si infranga la regola implicita del sistema voyeuristico: tutti possono farsi gli affari altrui, ma nessuno spii chi detta le regole.
Se si è iscritti a Facebook, si può impedire ad altri utenti di accedere al proprio profilo, con una sola eccezione: Mark Zuckerberg, il suo creatore. Provandoci si ottiene un messaggio di “errore generale” che impedisce di proseguire, per evitare che si infranga la regola implicita del sistema voyeuristico: tutti possono farsi gli affari altrui, ma nessuno spii chi detta le regole.
C'è chi l'ha presa con ironia, come il gruppo di utenti che a creato il sito blockzuck.com, in cui ci si prende gioco dell'apparente semplicità dei passaggi per rinunciare alle attenzioni di Zuckerberg: basta selezionare “blocca questa persona”, ma ops, non puoi. Altri stanno perdendo la pazienza: “Ai primi tempi di Facebook abbiamo concesso agli ingegneri di esaminare attentamente i nostri dati riservati nel loro tempo libero, ma ora è arrivato il momento che l'azienda superi la pubertà”, ha scritto TechCrunch, un blog molto popolare nel mondo dell'informatica.
Lo scorso gennaio, il venticinquenne Zuckerberg aveva scelto proprio un evento organizzato da TechCrunch, i Crunchie Awards, per celebrare il funerale della privacy: “La gente ora si trova a suo agio non solo a condividere le informazioni più svariate, ma a farlo in maniera più aperta e con sempre più persone. La norma sociale si è semplicemente evoluta col tempo”. Ma la riservatezza è una “norma sociale” obsoleta solo se riguarda gli altri. Anche perché “non puoi avere cinquecento milioni di amici senza farti nemmeno un nemico”, ricorda il sottotitolo del film che racconta la nascita di Facebook. Zuckerberg l'ha visto e non gli è piaciuto. Per capire il suo disappunto basta guardare l'anticipazione diffusa dalla Columbia Pictures: toni cupi e disagio adolescenziale, accompagnati dall'effetto straniante di un coro di ragazze belghe che canta “Creep”, “sfigato”, la canzone dei Radiohead. Mentre le voci femminili cantano l'inquietudine di chi deve rassegnarsi a non essere speciale, lo Zuckerberg del film, avvolto dalla penombra, confida a un'amica: “Devo fare qualcosa di grosso per ottenere l'attenzione dei club, perché sono esclusivi, divertenti e offrono una vita migliore”.
L'ansia, il risentimento, le aspirazioni tradite e poi affogate nei primi sorprendenti guadagni si combinano con le atmosfere tetre e inquietanti della regia di David Fincher – noto per il thriller “Seven” e per il surreale “Fight Club” – e alla penna di Aaron Sorkin – sceneggiatore di serie televisive come “West Wing” e “Studio 60”, che ha adattato il libro “Miliardari per caso. L'invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento”. Il film, “The social network”, sarà presentato in anteprima a New York il 24 settembre.
Zuckerberg ha detto soltanto che la storia è “molto romanzata”, abbottonandosi nell'immagine sorridente del bravo ragazzo baciato dalla fortuna, la cui massima trasgressione era stato scrivere sul proprio biglietto da visita, nel 2005, “Sono l'amministratore delegato, puttana”. L'eroismo non è il sale della storia di Facebook, nato “in camera al college nel 2004 con i miei amici Dustin Moskovitz e Chris Huges”, come ama ricordare Zuckerberg. In realtà ci aveva provato già due anni prima, ad Harvard, nei ritagli di tempo del secondo anno di Psicologia (“Credo che le persone siano la cosa più interessante che ci sia”, diceva). Si chiamava “Facemash” ed era una versione circoscritta all'università del sito HOTorNOT.com, in cui gli utenti erano invitati a votare le foto piccanti degli altri. Gli era bastato usare una manciata di foto dell'indirizzario di Harvard e in poche ore aveva già ricevuto più di ventiduemila voti. Il sito era stato immediatamente bloccato, ma ormai Zuckerberg aveva scoperto una lezione di cui avrebbe fatto tesoro: “La gente è molto più voyeurista di quanto avessi mai pensato”.
Nell'inverno del 2003 era stato invitato da altri studenti a collaborare alla rifinitura di un loro prototipo, Harvard Connection. Aveva accettato, omettendo di stare lavorando anche su una versione propria, con cui voleva anticipare l'intenzione dell'università di pubblicare su Internet il proprio “facebook”, un elenco con le fotografie degli iscritti, corredate da un paio di dati anagrafici. “Pensavo che sarebbe stato interessante potere accedere al profilo di tante persone diverse”, ha raccontato poi Zuckerberg. Devono averlo pensato in molti ad Harvard, la notte di mercoledì 4 febbraio 2004, quando nel giro di ventiquattro ore, ricorda Dustin Moskovitz, “avevamo tra i 1.200 e i 1.500 utenti registrati”.
Sapevano di avere battuto sul tempo tutti gli altri. Forse non si aspettavano di dovere affrontare una spietata battaglia legale. “Chi è il padrone di un'idea, se nessuno firma le carte?”, titolava il New York Times. La lista dei pretendenti vede al primo posto Aaron Greenspan, un compagno di classe di Zuckerberg che sostiene di avere avuto la stessa pensata con sei mesi d'anticipo. Dopo un anno di schermaglie legali, Greenspan aveva chiesto, sconfitto, di essere assunto da Facebook. Il gioviale Zuckerberg, che giura di non riconoscersi nel personaggio psicopatico e anaffettivo che lo rappresenta in “The social network”, aveva pensato bene di gelarlo con un “mi spiace, cerchiamo persone con più esperienza”.
Il partito anti Zuckerberg è uscito allo scoperto due anni fa, con il patrocinio di Rolling Stone, che ha inaugurato un genere di cui “The social network” è il capitolo più recente. Il cervellone buffo e sorridente ha iniziato a essere descritto come un disadattato che annegava in birra e Redbull le serate in camera con i suoi (pochi) amici. Uno che ha fatto successo vendendo come propria un'idea altrui. Ora, stando ai critici, il film aggiunge un po' di perversione, dipingendo Zuckerberg come un “inaffidabile maniaco sessuale” alle prese con “stuoli di groupie”. Chi l'ha conosciuto a Harvard – prima che lui lasciasse gli studi – ne parlava come uno “stronzo di prima categoria”. Che può leggere i vostri messaggi, seguire i vostri comportamenti e guardare le vostre foto – che resteranno nei suoi server anche quando cancellerete la vostra iscrizione. Ma non vi venga in mente di guardarlo negli occhi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano