Una mostra al Meeting di Rimini

Flannery nei territori del diavolo

Piero Vietti

Fra i tratti caratterizzanti la storia di Cl c'è fin dagli inizi la riscoperta di autori dimenticati o lasciati in disparte. Non fa eccezione il Meeting di quest'anno, dove una mostra dedicata a Flannery O'Connor sta facendo andare esaurite tutte le copie (recentemente stampate da diverse case editrici) della scrittrice americana alla libreria della fiera. Certo meno sconosciuta al pubblico di altri autori, l'opera di O'Connor sta tra quelle dei grandi americani del XX secolo, ma in Italia non ha mai trovato troppa fortuna.

    Fra i tratti caratterizzanti la storia di Cl c'è fin dagli inizi la riscoperta di autori dimenticati o lasciati in disparte. Non fa eccezione il Meeting di quest'anno, dove una mostra dedicata a Flannery O'Connor sta facendo andare esaurite tutte le copie (recentemente stampate da diverse case editrici) della scrittrice americana alla libreria della fiera. Certo meno sconosciuta al pubblico di altri autori, l'opera di O'Connor sta tra quelle dei grandi americani del XX secolo, ma in Italia non ha mai trovato troppa fortuna: “Ogni cinquanta persone che accompagnamo nella visita – ci dice Abby, ragazza di Washington tra i curatori della mostra – sono due o tre quelli che hanno letto qualcosa di suo”. Grande scrittrice incompresa dai suoi contemporanei, Flannery O'Connor nasce nel 1925 in Georgia. A sedici anni rimane orfana di padre, ucciso dalla malattia che colpirà anche lei, il lupus.

    Studia all'Università dell'Iowa, dove comincia a leggere tantissimo, come confida ai tanti amici di penna con cui si scambierà lettere fino alla fine. Legge di tutto, e comincia a scrivere racconti. “Io scrivo in questo modo perché e solo perché sono cattolica – diceva di sé Flannery – Se non lo fossi non avrei nessuna ragione per scrivere, nessuna ragione per sentirmi inorridita o per gioire di qualsiasi cosa”. La mostra ruota intorno all'idea dell'“infinita misura del limite” ed è un viaggio nel suo mondo, gli Stati Uniti del sud, nelle sue lettere e infine nei suoi racconti più belli.

    Dalla fattoria in cui va a vivere nel 1951 con la madre non si muove quasi mai. Insofferente ai salotti letterari, accetta però di andare a parlare ovunque la invitino, lavorando per giorni alle sue relazioni, in modo che esse raggiungano la perfezione. Non si sposerà mai né avrà figli, le sue giornate passano tra le faccende della fattoria e due ore al giorno in cui scrive senza fermarsi. Molte foto la ritraggono nel cortile della sua casa o appoggiata alla staccionata, negli ultimi anni con le stampelle. Da lì mantiene i contatti scrivendo molte lettere e ricevendo amici e persone sconosciute. Fa però un viaggio in Europa, nel 1958: va in pellegrinaggio a Lourdes, visita Roma e viene benedetta da Papa Pio XII. “La realtà non era una prigione per lei – ci spiega don Pietro Rossotti, giovane prete che studia a Washington e ha curato la mostra – Flannery viveva il suo limite come relazione continua con Dio”. Nei suoi racconti protagonista è la Grazia che irrompe a cambiare i personaggi descritti servendosi di situazioni contorte, strane: un tatuaggio sulla schiena, una gamba di legno, la statua di un negro, una pistola puntata in faccia. Tutto è spunto per dire che la realtà è buona.

    “Ho una malattia che si chiama lupus e prendo una medicina chiamata Acth – scrive ad amici nel 1953 – Ho abbastanza energia per scrivere, e poiché questa è la mia sola occupazione, strizzando l'occhio, accetto tutto come una benedizione”. La scrittura come vocazione, il suo lavoro come “rendere massima giustizia all'universo visibile”, per usare le parole di Conrad. E' però talmente vero che un approccio “vergine” ai suoi racconti può risultare ostico, che l'idea di questa mostra sia nata leggendo le sue lettere, che illuminano la sua opera. “Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe alcun senso”, scrive. Nei pannelli e nei video della mostra, che ruota intorno a una casa di legno con luci e specchi che rendono contemporaneamente l'idea di limitatezza e infinito (ideata da un giovane architetto che ha lavorato a New York, Fiorenza Matteoni), le sue lettere svelano un gigante della letteratura. “Scrivere racconti è difficile se non impossibile, perché scrivere è soprattutto l'arte dell'incarnazione”. Dopo un'operazione che fece accelerare la sua malattia, O'Connor spese gli ultimi mesi a finire i tre racconti più belli: “Rivelazione”, “Il giorno del Giudizio” e “La schiena di Parker”.

    Scrivere: questo era stata chiamata a fare, questo faceva anche di nascosto dai medici. Presentata ieri dallo sceneggiatore e amico di famiglia Michael Fitzgerald (nella cui casa Flannery visse prima di trasferirsi nella fattoria), la mostra accoglie i visitatori con la riproduzione di una grande ruota di pavone, animale che Flannery amava: “I pavoni fanno la ruota con la tranquillità con cui altri potrebbero accendere una sigaretta – scrisse – Improvvisamente, senza preavviso, aprono la coda e la fanno vibrare. E a quel punto, anche se è la milionesima volta che lo si vede, questo spettacolo colpisce gli occhi di chiunque”. Flannery amava i pavoni perché la loro ruota era simbolo del mistero impenetrabile del mondo: “Dove c'è un pavone c'è anche una mappa dell'universo”.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.