Chiusa sabato la trentesima edizione

L'Africa delle meraviglie del Meeting, dove cantano alpini neri e anche le sterili diventano madri

Piero Vietti

Più della visita quasi a sorpresa di Pier Luigi Bersani, più degli applausi ai ministri o a Marchionne, quello che segna ogni Meeting sono sempre le storie e i volti che hanno attraversato i giorni riminesi. quest'anno c'è stata soprattutto molta Africa nei padiglioni: tra i volontari non era difficile vedere ragazzi di colore parlare tra loro o con amici italiani in inglese o francese. Il Me eting è stato “battezzato” dalle testimonianze di quattro ragazzi ugandesi della zona di Kampala.

    Fabrice Hadjadj, filosofo francese, ha chiuso sabato pomeriggio il Meeting numero trentuno con la presentazione di un libro di Luigi Giussani, “L'io rinasce in un incontro”. E' la sintesi migliore di quel che succede, come ogni anno, in fiera a Rimini. Più della visita quasi a sorpresa di Pier Luigi Bersani, più degli applausi ai ministri o a Marchionne, quello che segna ogni Meeting sono sempre le storie e i volti che hanno attraversato i giorni riminesi. Hanno raccontato di sé preti in missione nei posti più sperduti del pianeta, un indiano canadese cattolico ha testimoniato la sua conversione nonostante gli abusi subiti da un prete a scuola, Margherita Coletta ha commosso spiegando come ha potuto perdonare gli assassini del marito, ucciso in un attentato a Nassiriyah, una responsabile dell'ong Avsi ha narrato come Haiti stia provando a rinascere, un cinese ha presentato la sua traduzione in mandarino del “Senso religioso” di Giussani.

    Ma quest'anno c'è stata soprattutto molta Africa nei padiglioni: tra i volontari non era difficile vedere ragazzi di colore parlare tra loro o con amici italiani in inglese o francese. Il Meeting è stato “battezzato” dalle testimonianze di quattro ragazzi ugandesi della zona di Kampala. A Kampala esiste da qualche anno un Meeting Point, sostenuto da Avsi, in cui si accolgono donne sieropositive e i loro bambini, dando alle prime un lavoro e ai secondi la possibilità di studiare. Accompagnati dalla direttrice del Meeting Point, l'infermiera Rose Busingye, i quattro africani hanno raccontato storie di miseria e violenza tristemente tipiche di quei luoghi. Il padre e la madre di George vengono bruciati vivi su un autobus diretto a Kampala dai ribelli ugandesi. Lui rimane solo con lo zio, il quale muore in un incidente poco tempo dopo. I genitori di Caesar vengono uccisi quando lui ha nove anni: va a vivere con il fratello che, senza lavoro, trova impiego in una cava di pietra.

    Il villaggio di Freddy viene attaccato quando lui ha quattro anni: in tanti vengono rapiti, molti uccisi sul posto. Lui si salva perché quella notte dormiva in una vicina missione cattolica. Quando il mattino torna a casa sua non trova più i suoi genitori. Decide di diventare un bambino soldato per vendicarsi di questo massacro, fortunatamente finisce a vivere con uno zio che però resta disoccupato in poco tempo. Freddy trova un lavoro, ma viene sfruttato e non vede un soldo. Deogracious resta orfano di padre a dodici anni, con la madre e i fratelli non ha niente per vivere perché i suoi parenti gli prendono tutto quello che hanno. Lui non può più andare a scuola, e come tanti incomincia a lavorare nelle cave di pietra. Quattro storie trovano tutte la loro soluzione grazie a un luogo comune, il Meeting Point di Kampala, uno stesso abbraccio, quello di Rose, e uno sguardo che li segna, quello di don Julian Carron, successore di Giussani alla guida di Cl, che nel 2007 va a visitare il centro e ne incontra i ragazzi e le donne. George, Caesar, Freddy e Deogracious avevano intanto ricominciato ad andare a scuola e, raccontano, trovano un posto dove vengono trattati “per il loro valore”, come dice Rose, che è più grande di tutte le miserie che li hanno investiti. Poi l'arrivo di Carron a Kampala, e il giorno dopo George va da Rose e le chiede il battesimo. Lo stesso fanno gli altri. “Di colpo mi sono reso conto che non ero battezzato”, dice Caesar. Per George l'immedesimazione con la storia che lo ha colpito è tale che chiede di essere battezzato con il nome di Luigi Giussani.

    Una caratteristica del Meeting Point, raccontano, è l'incontro con persone che pur soffrendo sono felici: “Cantano e ballano sempre”, dice uno di loro. Le donne sieropositive lavorano cantando in una cava da cui estraggono pietre per fare collane che, vendute, servono a mantenerle. La prima volta che le ha viste, Caesar ha pensato fossero stupide, ubriache o pazze. Al Meeting, Avsi ha ricostruito idealmente la stanza in cui a Kampala le ragazze di Rose fanno le collane: sei di loro erano a Rimini e le loro collane sono andate esaurite. Ma è il canto che segna questa storia: Rose ha insegnato ai ragazzi i canti degli alpini. A Kampala è nato il “battaglione Carron” e domenica scorsa la gente del Meeting si è stupita a vedere sul palco quattro ugandesi che intonavano una versione impeccabile della “Montanara”. Una delle mostre del Meeting, quella su Daniele Comboni, spiega come l'idea del prete missionario in Africa fosse che “l'Africa si salva con l'Africa”. Storie come quella del Meeting Point, in un periodo di neocolonialismo da parte di stati e multinazionali straniere, dimostrano come l'Africa può ripartire tenendo conto delle singole persone, dando loro gli strumenti per lo sviluppo, umano e sociale.

    Come è successo in Camerun, dove Mireille Yoga lavora nel Centro sociale Edimar, che accoglie ragazzi con storie drammatiche alle spalle, e negli anni è stata aiutata da tanti di Cl. Grazie a lei, molti destinati a morte certa oggi sono studenti. I ragazzi che ha raccolto dalla strada la chiamano tutti “mamma Mireille”. Lei non può avere figli. In un paese che vede come una maledizione la sterilità, Mireille racconta che suo marito, vedendola con i suoi ragazzi, un giorno le ha detto: “Per me tu vali più di dieci figli. Se mi chiedessero di scegliere di nuovo una moglie, beh, io ti sceglierei ancora una volta”.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.