Venezia comincia con tre film così così

Mariarosa Mancuso

Julian Schnabel riuscì a farci palpitare – noi cinici a tendenza ipocondriaca, con un debole per “Le invasioni barbariche” di Denys Arcand: una festa con canne, amici e champagne, poi staccatemi la spina – per la sorte di un giovanotto che muoveva solo la palpebra sinistra e con quella scrisse “Lo scafandro e la farfalla”. Non commuove con “Miral”. Colpa della musica, melensa come in una soap. Della fotografia sfumata alla David Hamilton.

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    MIRAL di Julian Schnabel, con Freida Pinto (Venezia 67)
    Julian Schnabel riuscì a farci palpitare – noi cinici a tendenza ipocondriaca, con un debole per “Le invasioni barbariche” di Denys Arcand: una festa con canne, amici e champagne, poi staccatemi la spina – per la sorte di un giovanotto che muoveva solo la palpebra sinistra e con quella scrisse “Lo scafandro e la farfalla”. Non commuove con “Miral”. Colpa della musica, melensa come in una soap. Della fotografia sfumata alla David Hamilton. Della sceneggiatura di Rula Jebreal, scritta con il senno di poi. Miral, all'idea di “due popoli due stati” commenta: “Perché noi palestinesi e gli ebrei non possiamo vivere d'amore e d'accordo in un solo stato, come a New York?”.

    NORWEGIAN WOOD di Tran Han Hung, con Rinko Kikuchi  (Venezia 67)
    “Tokyo Blues” era la prima traduzione (nel 1993) del romanzo che ora ritrova nel titolo la canzone dei Beatles. La prendiamo larga, avendo letto vari Murakami ma non questo, l'unico dove non appaiono fantasmi o piovono gatti (detto con l'ammirazione dovuta a uno scrittore che affascina anche quando piovono gatti). Una piccola indagine tra lettori più diligenti ha dato risultato unanime: gran bel romanzo. Il film è lentissimo: stagioni che passano, dialoghi esistenzial-ginecologici, mollettine per capelli, una ragazza secondo cui l'amore è “desiderare una torta di fragola, e quando ce l'hai davanti prendere a male parole chi te l'ha regalata”.

    SE HAI UNA MONTAGNA DI NEVE TIENILA ALL'OMBRA di Elisabetta Sgarbi (Controcampo italiano)
    Una regola del montaggio impone di tagliare le domande, se non sono originali (il resto è vanità dell'intervistatore). Quando la domanda è unica –  “Cosa significa secondo lei la parola cultura” – non c'è motivo per ripeterla allo sfinimento: contano le risposte. Di chi confonde cultura con agricoltura. Di chi dice che la colpa è della tv, mettendosi in posa. Di chi dice che gli italiani leggono poco, facendo felice il sondaggista. Quando ci si mette d'accordo prima – tu esci dal cancello, io passeggio con il microfono e fingo un incontro – bisognerebbe essere meno rigidi. P. S. Questa recensione fa da trailer a un lungometraggio sul documentario italiano colto. Ne circola già uno – altrettanto impunito, di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi – sul premio Strega.

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