Lo chiamavano bocca di rosa
E' opinione largamente condivisa che la diplomazia non sia una delle principali qualità di Mahmoud Ahmadinejad e chi lo ascolta sa che, nei suoi discorsi, la sorpresa è spesso dietro l'angolo. Ma il 2 agosto il presidente si è superato e la platea dapprima scossa da gridolini di stupore e imbarazzo si è infine sciolta in una risata sguaiata e liberatoria. Un'ilarità irresistibile determinata non tanto dal bersaglio dell'ironia di Ahmadinejad – il consueto Grande Satana – quanto dall'espressione scelta dal presidente per schernirlo.
E' opinione largamente condivisa che la diplomazia non sia una delle principali qualità di Mahmoud Ahmadinejad e chi lo ascolta sa che, nei suoi discorsi, la sorpresa è spesso dietro l'angolo. Ma il 2 agosto il presidente si è superato e la platea dapprima scossa da gridolini di stupore e imbarazzo si è infine sciolta in una risata sguaiata e liberatoria. Un'ilarità irresistibile determinata non tanto dal bersaglio dell'ironia di Ahmadinejad – il consueto Grande Satana – quanto dall'espressione scelta dal presidente per schernirlo.
“Lui (Barack Obama) non ha colto molte opportunità che gli si sono presentate – ha esordito il presidente – ora (riferendosi a Wikileaks, ndr) pubblicano documenti secondo i quali la loro disfatta in Iraq e in Afghanistan è da imputarsi all'Iran e non si accorgono che così facendo innalzano il nostro status”. Ma addossare la colpa a Teheran – ha proseguito il presidente – è una tattica che non paga più. A questo punto la platea è pronta per una nuova spericolata invettiva. Una frase perentoria e minacciosa che vaticini il tramonto della civiltà occidentale e rinsaldi lo spauracchio delle magnifiche sorti nucleari della Repubblica islamica. Dopo una pausa sapientemente calibrata, l'attesa si dimostra tutt'altro che vana, ma dalla bocca di Ahmadinejad escono parole che è eufemistico definire irrituali. “Mameh-ro lulu bord” – ha detto – se gli sporchi giochi dell'America non sortiscono più alcun effetto è perché, letteralmente, “l'uomo nero si è preso la tetta” , una frase con cui le mamme negano il seno ai bimbi durante lo svezzamento, un'espressione gergale, inusitata e volgare sulle labbra di una delle massime cariche dello stato.
Per capire lo sconcerto dell'uditorio di Ahmadinejad occorre tenere presente che tra il persiano forbito della letteratura e della filosofia e quello basso della strada si spalanca un abisso. Anche se la rivoluzione con la sua pretesa di spazzar via duemila anni di vestigia aristocratiche ha contribuito a livellare il linguaggio e il farsi odierno, rispetto a quello di trent'anni fa, è infarcito di espressioni che nell'ancien régime sarebbero state considerate sprezzantemente “dehati” (contadine), la cadenza di una parola e la scelta di una metafora piuttosto che di un'altra restano ancora un barometro della posizione sociale di chi le pronuncia. Del resto, in una cultura in cui gli eroi nazionali più riveriti non sono condottieri ma poeti, non c'è da stupirsi che anche i mullah non possano resistere alla tentazione di richiamare accanto ai passi del Corano i versi di Hafez, Rumi e Saadi. La retorica politica iraniana è circonvoluta, tradizionalmente infarcita di iperboli, rimandi sapienti alla storia e alla tradizione sciita. “Mameh-ro lulu bord”, una citazione che evoca plasticamente il seno in uno stato in cui le donne non possono scoprire nemmeno i capelli, è una frase che non può avere diritto di cittadinanza sulla bocca di un presidente della Repubblica islamica. Eppure Mahmoud Ahmadinejad non solo lo ha detto, ma ha rincarato la dose suggerendo agli Stati Uniti di “versare l'acqua dove c'è il bruciore”, un'espressione che allude “al sedere in fiamme” di chi si rode per l'umiliazione di una vergognosa sconfitta. Come era prevedibile la sortita del presidente ha fatto molto rumore. Una pagina di Facebook intitolata “vogliamo indietro la tetta portata via dall'uomo nero” ha attratto in pochi giorni più di 10 mila adesioni. I più conosciuti slogan rivoluzionari sono stati riveduti e corretti per introdurre la parola dello scandalo “mameh”. Una petizione canzonatoria che ha fatto il giro di tutte le scrivanie che contano ha reso noto che d'ora in poi la tv di stato manderà in onda gli interventi del presidente soltanto dopo la mezzanotte per essere certi che i bambini siano già a letto.
La volgarità di Ahmadinejad è naturalmente divenuta il tema del giorno tra i suoi nemici. A capeggiare le fila dei detrattori il plenipotenziario alla Giustizia Sadegh Larijani, fratello del presidente del Parlamento e membro di uno dei più influenti clan clericali. “Come cittadino mi aspetto che la lingua adottata dal presidente sia matura e misurata”, ha sentenziato Larijani, rivelando di avere spesso invitato il presidente a conformarsi a un eloquio più consono. Ma le rimostranze dei rivali di Ahmadinejad – personaggi che “lo spazzino degli iraniani” non perde occasione di descrivere come tracotanti Soloni – erano scontate, difficile credere che il presidente non avesse presagito una reazione. C'è una buona ragione se Ahmadinejad si è esposto a vincere il trofeo di protagonista indiscusso delle barzellette più surreali di questa estate persiana, anche perché, come sottolinea Abbas Milani, direttore dell'Iranian Studies Program di Stanford, Ahmadinejad è meno naïf di quanto appaia. “A volte – dice Milani – usa il linguaggio di un mullah di campagna, in altre circostanze, per esempio a colloquio con dei teologi, cambia radicalmente registro. Ahmadinejad è stato un astuto osservatore dello stile di Khomeini e ha compreso che la comunicazione è uno strumento molto molto potente”.
Nel video della campagna elettorale che nel 2005 lo presenta alla platea nazionale Ahmadinejad mostra i tratti del populismo scaltro che è croce e delizia della sua esperienza politica. Il futuro presidente è ritratto in una casa modesta con tappeti a buon mercato e pochi mobili di scarsa fattura. Alle immagini del parco ménage del candidato-pasdaran vengono contrapposte le istantanee della residenza fastosa dell'ex sindaco di Teheran Karbaschi, accusato di avere dilapidato centinaia di migliaia di dollari tra stucchi e specchiere del suo quartier generale. Dopo il trionfo elettorale Ahmadinejad si compiace di sottolineare la distanza che lo separa da Khatami. Lontananza estetica – di Khatami si ricorda la vezzosa predilezione per un abilissimo sarto di Qom, di Ahmadinejad il vestito dozzinale color cachi acquistato stando ai ben informati a Shams al Emareh – e lontananza geografica – Khatami riceveva nel palazzo di Sadabad, Ahmadinejad predilige l'anonimo compound sulla via Pasteur.
Ma il mito della frugalità di Ahmadinejad nasce lontano da Teheran, per carpire l'intenzione dietro le parole del presidente bisogna inoltrarsi nel deserto salato di Dasht e Kavir e lambirne il limite settentrionale fino al villaggio di Aradan dove il presidente nacque 53 anni fa. A parte i grandi cartelloni che onorano i 338 “martiri” del distretto morti nella guerra Iran-Iraq, Aradan non è cambiata molto da quando il padre di Ahmadinejad caricò la macchina per tentare la fortuna a Teheran con la moglie e quattro dei suoi sette figli (il quarto era proprio Mahmoud). La casa che diede i natali al presidente iraniano oggi è un rudere di fango e mattoni dove si tirano su i polli. Gli Ahmadinejad tornano di rado soltanto in occasione di cerimonie di famiglia, ma ad Aradan i parenti rimasti vanno fieri del legame con il presidente. “Il padre di Mahmoud era un uomo molto devoto – ha raccontato il cugino Ali Agha Sabaghian – nonostante fosse analfabeta ogni anno in occasione del Ramadan guidava delle classi coraniche”. Anche gli Ahmadinejad allora si chiamavano Sabaghian, un cognome che significa “maestri-tintori” di tappeti e kilim. Secondo i familiari la transizione da Sabaghian ad Ahmadinejad fu determinata proprio dal desiderio di un nome più rispondente al fervore religioso della famiglia: Ahmadinejad vuol dire “della genia di Ahmadi”. Ahmadi è un cognome popolare che a sua volte deriva da Hamd, ossia “la lode di Dio”. Cambiare cognome per chi si spostava da un villaggio alla capitale era anche un modo per nascondere la modestia delle origini. “Sono nato in una famiglia povera – ha scritto Ahmadinejad sul suo blog – in un villaggio sperduto, in un tempo in cui ricchezza era sinonimo di dignità e vivere in città l'acme della sofisticazione”. Ad Aradan nel 2005 quasi tutta la cittadina votò per il celebre conterraneo e la sua vittoria elettorale fu celebrata con un trionfo di luci e festoni colorati. Tuttavia come racconta Kasra Naji nel suo “Ahmadinejad. The secret history of Iran's radical leader” a un anno dal plebiscito i suoi poster erano già stati rimossi.
Ad Aradan si erano stancati di aspettare l'acqua potabile che Ahmadinejad aveva promesso durante la campagna elettorale. Sono le promesse non mantenute di tutte le altre Aradan di Iran, il tallone d'Achille che sta erodendo come un cancro il potere di Ahmadinejad. Dal 2005 al 2009 il presidente ha girato il paese in lungo e in largo. Nella maggior parte dei luoghi che ha visitato ha invitato il pubblico a rivolgersi a lui direttamente. Serve un nuova diga? Un palazzetto dello sport? Un'università? Una palestra con strutture separate per maschi e femmine? Una volta nel corso di una tappa ripresa dalla tv, il presidente ha chiesto al governatore locale quale fosse il budget della sua città. Alla risposta del funzionario, Ahmadinejad ha garantito: “Può considerare il suo bilancio raddoppiato da oggi stesso!”. Il giornalista del Financial Times Najmeh Bozorgmehr, dopo avere accompagnato Ahmadinejad per lunghi tratti delle sue peregrinazioni, ha calcolato che soltanto nella tappa della provincia di Fars il presidente aveva assicurato contributi per oltre tre miliardi di dollari. Nessun esponente della Repubblica islamica si era mai dimostrato più sensibile ai bisogni delle province iraniane, Ahmadinejad è stato esaltato come il vendicatore degli ultimi, il primo presidente impermeabile alle tentacolari seduzioni di Teheran. Gli ambasciatori di Khatami erano suadenti imbonitori di un Iran ripulito e presentabile, che citava Popper e Kant, i collaboratori di Ahmadinejad non si sforzano di piacere agli stranieri, ricevono i giornalisti calzando sandali di gomma e parlano del Mahdi anche quando certe prospettive esoteriche mettono il governo in cattiva luce. Alla prova dei fatti però gli uomini dimessi hanno deluso l'Iran rurale quanto quelli imbevuti di sofisticherie occidentali. Ombre di nepotismo e corruzione sono tornate ad addensarsi sui palazzi del potere di Teheran e lo scarto tra le aspettative e la realtà ha sbalzato l'uomo della provvidenza giù dal suo piedistallo. Per difendere la propria leadership ad Ahmadinejad non resta che tornare alle origini, percorrendo a ritroso la strada intrapresa da suo padre.
Essere meno Ahmadinejad e più Sabaghian. Meno mistico e più pratico. Incarnare l'ideale di un leader che parla come mangia e si fa beffe delle convenzioni quando le convenzioni non sono che rituali vuoti di senso. E così il campione del panislamismo militante, il presidente che alle Nazioni Unite si credeva illuminato dall'alone di luce del Mahdi, riscopre la libertà del virile bulletto di quartiere che, con la minaccia dei muscoli, intimidisce i prepotenti nei vicoli. E anche in alcuni iraniani piuttosto sofisticati alberga per un istante un briciolo di soddisfazione quando i politici di potenze straniere che hanno sempre trattato l'Iran come una pedina degli scacchi vengono apostrofati da Ahmadinejad come “bugiardi, quadrupedi e capre” . “Con lo stesso linguaggio criticato da Larijani – assicura il fedele Javanfekr – Ahmadinejad lotta da solo per i diritti degli iraniani”. Bisogna avere avuto a che fare con il tarof in Iran per percepire quanto possa essere affascinante l'idea di una vita dispensata dalla sua articolatissima etichetta. Il tarof è una babele di regole di buona educazione e ospitalità, un antico codice poetico che permette di evitare il rude scontro con la verità e al contempo un sottile gioco di potere, un esercizio di finta modestia e una manifestazione di orgoglio talmente esasperato da essere dissimulato in umiltà. L'Iran è un paese complicato in cui un tassista dopo averti portato a destinazione può insistere per cinque minuti che non vuole essere pagato, perché “ghabel nadare”, espressione che sta per “prego, vada ”, ma letteralmente significa anche “questo servizio non è degno di voi”. Ovviamente tu devi insistere e insistere, anche supplicare, finché il tassista con tono riluttante ti concede di pagare la corsa. In ogni famiglia iraniana si racconta di qualche forestiero poco versato nell'arte del tarof che finisce per uscire dal taxi senza pagare e dopo un'ora viene denunciato per furto alla polizia.
A colloquio con un altro potente membro del clan Larijani, il brillante Javad Ardeshir, la decana del New York Times Elaine Sciolino gli domandò come mai il Parlamento non avesse mai diffuso le conclusioni della sua indagine sulle Bonyad, le fondazioni che reggono buona parte dell'economia iraniana. “C'è una realtà nascosta, un'ipocrisia che mantiene la pace”, le rispose Larijani. “Questo significa proteggere la dignità dell'altro. Gli architetti non costruiscono case di vetro in Iran. Se non parli di tutto apertamente, è meglio. Riuscire a mantenere un segreto, anche se per farlo devi trarre in inganno, è considerato un segno di maturità. E' saggezza persiana. Non dobbiamo essere perfetti. Tutti mentono. Allora tanto vale essere dei buoni bugiardi”. Nessuno sa interpretare con più creatività l'arte del tarof del clero iraniano, ma si tratta di una reputazione che buona parte degli iraniani ritengono poco lusinghiera. L'Iran sta cambiando. Per i giovani il tarof è un'eredità scomoda, retaggio di una cultura patriarcale e autoritaria, per gli uomini d'affari un polveroso ingranaggio che rallenta l'economia. Chi arriva a Teheran da Los Angeles, la più iraniana delle città americane, si stupisce nel constatare che nella capitale ci si ribella ai modi antichi e che la dittatura del tarof è più potente in certe nostalgiche comunità della diaspora. Di converso lo show più amato e discusso su Voice of America è “Parazit”, un programma satirico in cui il conduttore Kambiz Hosseini – descritto come la risposta iraniana a Jon Stewart – fa domande impensabili per un iraniano di buona creanza. Pretende di sapere dal suo direttore se è un agente in sonno della Repubblica islamica, chiede ad Arsham Parsi, attivista iraniano per i diritti omosessuali, se è proprio il momento di insistere con le loro rivendicazioni, cerca di far confessare all'ex anchorwoman della Cnn Rudi Bakhtiar che in un'occasione è stata morbida verso Ahmadinejad nella speranza di poter continuare a viaggiare liberamente in Iran. “La chiamano satira. Spesso diciamo solo quello che ci detta il buonsenso, ma la verità spaventa meno quando si traveste da buffonata. Il massimo sarebbe trasmettere il nostro spettacolo in diretta da Teheran. Ma quello – dice Hosseini – sarebbe un altro Iran”. A Teheran il presidente può fare a meno del tarof, ma gli iraniani ancora no. Ci sono limiti alla sincerità che può tollerare il nuovo Ahmadinejad-Sabaghian.
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