I modernizzatori
L'intrepido John Shaw, penna di Time Magazine al tempo della Guerra fredda, entrò nell'ufficio di Brezhnev una mattina di luglio del '73. Nessun reporter americano aveva compiuto un'impresa simile prima di allora: quella stanza al terzo piano del palazzo del governo era il santuario del potere sovietico, come dicevano i grandi giornali dell'occidente. “E' più grande e meno elegante dello Studio ovale”, scrisse Shaw, che annotò con precisione tutto quel che vide sulla scrivania del segretario comunista.
L'intrepido John Shaw, penna di Time Magazine al tempo della Guerra fredda, entrò nell'ufficio di Brezhnev una mattina di luglio del '73. Nessun reporter americano aveva compiuto un'impresa simile prima di allora: quella stanza al terzo piano del palazzo del governo era il santuario del potere sovietico, come dicevano i grandi giornali dell'occidente. “E' più grande e meno elegante dello Studio ovale”, scrisse Shaw, che annotò con precisione tutto quel che vide sulla scrivania del segretario comunista. Raccolte di discorsi trascritti in inglese, quotidiani russi, sigarette Philip Morris Multifilter e una pulsantiera degna di 007. “Con quella posso interrompere i membri del Politburo quando voglio – disse Brezhnev con orgoglio – E' uno dei grandi misteri che aleggiano sul Cremlino”.
Lo stesso ufficio, oggi, è il quartier generale della modernizzazione, il processo di riforme studiato dal presidente russo, Dmitri Medvedev, e dal suo potente premier, Vladimir Putin. Il posto di comando è affidato al politico più giovane e più influente di Mosca, Arkady Dvorkovich, un esperto di economia che ha appena 38 anni ma è già il primo consigliere di Medvedev. Il Wall Street Journal dice che è la “stella del Cremlino” e gli accredita alcuni progetti decisivi per il futuro del paese. Come il corposo taglio della burocrazia, che dovrebbe perdere un quinto del personale nei prossimi cinque anni, e quello della polizia, con 300 mila licenziamenti in programma da tempo. “E' un piano a lungo termine, bisogna lavorare duro tutti i giorni per ottenere risultati – ha detto Dvorkovich di recente, in una intervista con gli inviati del Journal – I miracoli, come tutti sanno, non esistono”. Dvorkovich ha la passione degli scacchi, ha studiato alla Duke e si è fatto largo rapidamente al ministero dell'Economia. Nel 2003 faceva parte di una squadra messa insieme da Putin con l'obiettivo di attrarre gli investimenti stranieri. E' in quella stagione che il Cremlino ha deciso di abbassare le tasse sui salari e l'imposta sul valore aggiunto. Uno come lui, dicono gli analisti, avrebbe fatto fortuna in qualsiasi banca d'affari. La sua abilità e la fedeltà al paese gli hanno permesso di prendere l'ufficio di Brezhnev prima di compiere quarant'anni. Per il consigliere, la Russia non può fare affidamento soltanto sulle materie prime, che oggi occupano la voce più importante nel bilancio nazionale (sono il 68 per cento del prodotto interno lordo). Allo stesso modo, bisogna cambiare i meccanismi dell'Amministrazione pubblica. Transparency international ha messo la Russia in fondo alla propria classifica sulla corruzione del 2009, dietro a Kenya ed Ecuador: secondo l'organizzazione, la burocrazia ingoia ogni anno un terzo della ricchezza accumulata nel paese. “Loro prosperano grazie al vecchio sistema, ai trucchi di bilancio e all'economia basata sullo sfruttamento delle risorse – spiega Dvorkovich – Chi è al potere e controlla le risorse cerca oggi di difendersi da quelli che spingono per il cambiamento”. Come ogni scacchista che si rispetti – il padre era un giudice internazionale, lui ha assunto da pochi mesi il controllo della Federazione russa – Dvorkovich non svela la propria strategia ed evita di chiamare per nome i suoi avversari. Ma lo scontro tra i vecchi padroni delle risorse e gli uomini che vogliono il cambiamento è stato interpretato da molti analisti come la sfida di Medvedev alla dottrina del putinismo e ai suoi agguerriti estensori.
La modernizzazione non è una rivoluzione, è una parola da Ottocento che descrive un processo generale e lento basato sui successi di Putin nel periodo al Cremlino. Non potrebbe essere altrimenti: dal 2000 al 2008, l'anno della crisi globale, la Russia è cresciuta a una media del 7 per cento, il governo ha ripreso il controllo delle industrie strategiche, le imprese straniere sono tornate a investire sul paese e l'esercito ha ottenuto risultati positivi nella guerra contro i terroristi islamici del Caucaso. Medvedev ha presentato il piano di riforme lo scorso anno, durante un atteso discorso alla nazione. “Domandiamoci semplicemente, ma con serietà: possiamo continuare a trascinarci anche in futuro una struttura economica basata sulle materie prime, una corruzione cronica, il vecchio vizio di fare affidamento nella soluzione dei problemi, sullo stato, sul mondo esterno, su qualche onnipotente dottrina, su quello che volete, su chi volete, o soltanto su noi stessi? E una Russia gravata da questi fardelli avrebbe un proprio domani?”, disse allora il presidente. La colonna della riforma è la razionalizzazione dell'economia: se l'industria sarà più efficiente, il livello del benessere salirà e il sistema politico sarà più giusto. Medvedev non intende seguire alcun modello importato. “La cultura politica non si trasforma imitando le tradizioni delle società avanzate. Un efficace sistema giudiziario non si può copiare – ha spiegato – così come non si può copiare la libertà da un libretto, anche se fosse il libretto più intelligente al mondo”. La modernizzazione dipende dall'istinto russo e il grosso del lavoro spetta al governo, che già lavora a progetti grandiosi. Il più importante riguarda il distretto di Skolkovo, a pochi chilometri dalla capitale, dove sta nascendo una Silicon Valley.
Medvedev ha affidato il dossier al presidente di Renova, Viktor Vekselberg, che controlla un gruppo con interessi in tre continenti e investimenti che comprendono petrolio, alluminio, trasporti e prodotti finanziari. Vekselberg, 53 anni, ha già compiuto un'opera difficile nella propria carriera: riportare a Mosca nove uova Fabergé possiedute dalla famiglia Forbes di New York. Ora deve convincere Nokia, Cisco e Microsoft a trasferire le loro basi operative in Russia. “Venite, vivete qui, fate qualcosa di buono per voi stessi, per il nostro paese e per l'intera civiltà”, recita il suo slogan preferito. Skolkovo ospiterà centinaia di imprese, ma la priorità spetta a chi si occupa di energia alternativa, telecomunicazioni, internet technology, biotecnologia e nucleare, le cinque aree di sviluppo individuate da Medvedev per rilanciare l'economia russa. Poche settimane fa, il capo del Cremlino è stato a Washington e ha incontrato il collega americano, Barack Obama, e molti manager della Silicon Valley (quella vera): si è fatto fotografare con il numero uno di Apple, Steve Jobs, ha partecipato a riunioni con gli uomini di Motorola, di Boeing e di Google. Nello stesso periodo, Vekselberg, Dvorkovich e altri ufficiali del governo sono volati a Chicago e hanno preso parte a un seminario del Mit sulle strategie per attrarre i capitali stranieri. I lavori di Skolkovo cominceranno nel 2011, quando il governo avrà scelto un piano di sviluppo urbano per l'area. Le compagnie straniere dovrebbero arrivare un paio d'anni più tardi. A quel punto, dice Vekselberg, il ruolo della politica sarà esaurito. Molti commentatori pensano che le cose andranno diversamente, e questa opinione è particolarmente diffusa fra gli analisti russi.
Vekselberg, come Dvorkovich, ha un ruolo importante nella squadra di Medvedev ma non è un uomo nuovo. Entrava al Cremlino già ai tempi di Boris Eltsin, ha mantenuto buoni rapporti con Putin e oggi è considerato uno degli ultimi oligarchi russi. Un discorso simile vale per Anatoly Chubais e Vladislav Surkov, due strateghi molto conosciuti in occidente. Medvedev ha scelto Chubais per guidare Rusnano, la compagnia pubblica che porterà a Mosca le nanotecnologie. Per raggiungere l'obiettivo, il presidente gli ha affidato 30 miliardi di dollari e gli ha dato tempo sino al 2015. Chubais è un sostenitore di Medvedev e del libero mercato, ma non crede che la Russia sia pronta allo sviluppo senza il governo, come ha detto in alcune interviste pubblicate nel corso dell'estate. “Qui non si può creare l'innovazione senza un decreto”, ha spiegato. Questo è uno dei limiti che la modernizzazione ha deciso di non superare.
La storia di Surkov, 45 anni, figlio di una famiglia cecena, è ancora più significativa. Per anni l'hanno chiamato “eminenza grigia” e l'hanno descritto come l'ideologo di Putin: scriveva i suoi discorsi, organizzava le campagne elettorali del più grande partito del paese, Russia Unita, e stabiliva le priorità sull'agenda del capo. Nel 2009 ha abbandonato il premier ed è entrato a far parte del team di Medvedev, il che ha sorpreso molti osservatori. “Surkov è il principale artefice del sistema che dovrebbe essere modificato con la modernizzazione – spiega Nikolai Petrov del Carnegie Center di Mosca – Quando il processo ha avuto inizio, ha detto che il paese non aveva bisogno di cambiamenti radicali”. Forse ci ha ripensato. O forse, come sostengono altri, sa che la modernizzazione richiederà tempo ma non si fermerà, sia che Putin torni alla guida del paese con il voto del 2012, sia che Medvedev riesca a ottenere il secondo mandato. Dopotutto, alla vigilia delle elezioni del 2007, quelle che hanno portato Medvedev al Cremlino, Putin ha parlato di un progetto comune che durerà “sino al 2020”. Oggi Surkov è il responsabile della Commissione presidenziale che mantiene i contatti con la Casa Bianca. Ha anche un ruolo di primo piano nei rapporti con le associazioni di diritti umani. In un discorso recente al Parlamento, ha detto che la Russia è matura abbastanza per una fase di liberalizzazioni: è una svolta clamorosa, se si pensa che Surkov, nel 2006, ha ideato il principio della “democrazia sovrana”, che prevede un sistema politico basato sul governo di un solo partito. Quella teoria ha permesso a Putin di consolidare il proprio potere, attirando diverse critiche sia all'estero, sia in patria.
L'ultimo elemento nella squadra dei modernizzatori è Aleksandr Khloponin, un magnate del nickel che ha accettato un incarico pericoloso. Dalla scorsa primavera guida una nuova entità amministrativa, il Distretto federale del Caucaso del nord, che comprende le sette province più povere della Russia. E' un territorio vasto e segnato da una guerra lunga quindici anni, che finisce periodicamente sotto gli attacchi dei terroristi. Ieri, un'autobomba è esplosa nella città di Vladikavkaz, in Ossezia, provocando la morte di quindici persone. Medvedev ha ordinato un'inchiesta per trovare i responsabili dell'attacco e l'esercito ha alzato il livello di guardia negli altri centri della regione. Khloponin non è un militare, è un capitano d'industria giovane e brillante con una buona esperienza amministrativa: è stato governatore del Krasnoyarsk Krai, il territorio ricco di petrolio che ha i tassi di sviluppo migliori del paese. A lui, Putin e Medvedev hanno chiesto di trasformare il Caucaso da campo di battaglia a centro d'affari secondo un piano che prevede la lotta alle milizie islamiche e gli incentivi al commercio. Non è soltanto una questione di sicurezza, ma un passaggio culturale: al Cremlino ritengono che il degrado del Caucaso incarni la “demodernizzazione” l'insidia più grande per la stagione delle riforme.
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