L'internazionale
Il poeta Brodskij diceva che il tempo dell'esilio è finito da un pezzo. Abbandonare strade, familiari e compagni di bevute non è mai stato facile, ma oggi nessuno è costretto a perdere Roma per la Sarmazia, a salire su un aereo diretto in Cina dopo una vita in Bulgaria. La parola “esilio”, sosteneva Brodskij, può spiegare al massimo il momento dell'espulsione. Quel che viene dopo è troppo comodo e troppo autonomo per essere chiamato “esilio”.
Il poeta Brodskij diceva che il tempo dell'esilio è finito da un pezzo. Abbandonare strade, familiari e compagni di bevute non è mai stato facile, ma oggi nessuno è costretto a perdere Roma per la Sarmazia, a salire su un aereo diretto in Cina dopo una vita in Bulgaria. La parola “esilio”, sosteneva Brodskij, può spiegare al massimo il momento dell'espulsione. Quel che viene dopo – i discorsi all'Università di Yale, le feste con gli ex presidenti e gli articoli strapagati per le riviste francesi – è troppo comodo e troppo autonomo per essere chiamato “esilio”. Iosif Brodskij è uno di quei Nobel che hanno mantenuto l'equilibrio nonostante le lusinghe di un premio prestigioso. Lo costrinsero a lasciare Mosca quando Mosca era la capitale dell'Impero sovietico, lui trovò rifugio a New York, scrisse tanto e spese parte dei guadagni per aprire una sala da té, il Russian Samovar. Con lui c'erano il ballerino Mikhail Baryshnikov e un uomo d'affari intraprendente, Roman Kaplan. Il Samovar è diventato in fretta uno dei club più celebri della metropoli grazie alla vodka fatta in casa, ai party da telefilm e agli ospiti segreti in arrivo da ogni parte del pianeta. La sua fama è grande e ambigua: Alex Goldfarb, il reporter che ha raccolto le memorie di Aleksandr Litvinenko, l'ex agente del Kgb avvelenato a Londra nel 2006, ama dire che si tratta di un locale per spioni. Il particolare non scoraggia i clienti.
Ieri il Samovar ha ospitato la festa più chiacchierata della stagione. Il miliardario Mikhail Prokhorov ha invitato centinaia di amici al battesimo della sua nuova scommessa: si chiama Snob, è un mensile stampato su carta raffinata ed è rivolto ai nuovi ricchi della città. Che, in molti casi, arrivano come lui dall'Europa orientale. La redazione è a Dumbo, uno dei distretti chic della città, e può contare su un elenco corposo di scrittori strambi e giovani designer. Snob è un oggetto particolare. Costa otto dollari, si vende a New York ma è scritto in russo. Ne esistono altre due edizioni, una a Mosca, l'altra a Londra. Non è il gioco di un oligarca annoiato: Prokhorov ha già investito cento milioni di dollari sul progetto – molto più di quanto abbia mai fatto una casa editrice importante come Condé Nast per le sue testate – e prevede di coprire i costi in un paio d'anni. “Metteremo in pratica qualche iniziativa di marketing che non ha precedenti”, ha detto l'editore al momento dei brindisi, fra la curiosità e i dubbi degli ospiti. Prokhorov, 45 anni, è diventato ricco grazie all'industria delle materie prime. Secondo Forbes è uno degli uomini più ricchi di Russia, con un patrimonio vicino ai 15 miliardi di dollari. Ha diretto per anni Norilsk Nickel, un gigante del settore minerario, e ha ottenuto grande successo anche nel mondo della finanza – due anni fa, il suo gruppo ha preso il controllo di Reinassance, la prima banca di Mosca. In Italia è conosciuto per un caso senza fortuna: nel 2009 ha rischiato di essere il nuovo proprietario della Roma, ma la trattativa è fallita. In Francia ricordano le sue fotografie sulle prima pagine dei quotidiani. I gendarmi lo hanno arrestato a Courchevel, nel 2007, con l'accusa di sfruttamento della prostituzione dopo un'indagine a Courchevel. E' un villaggio sulle Alpi poco lontano dalla frontiera italiana, uno di quei luoghi che hanno fatto il mito degli oligarchi russi. A decine sono passati per i suoi hotel di lusso, tanto che il nome del paese ha preso la storpiatura Courchevelsky – ma sembra che i russi prediligano la versione “Kurshevelevo”. Prokhorov è finito nei guai dopo due settimane di sbronze e acquisti folli con quindici bionde. Il suo ufficio stampa ha cercato di sdrammatizzare: ha fatto sapere che il milionario è stato in cella soltanto qualche ora e ha ricordato che gli agenti francesi si sono scusati per il disturbo al momento del rilascio. Di quel soggiorno, gli albergatori ricordano i cocktail con vodka e Chateau Petrus del '72.
Snob è il secondo investimento di Prokhorov in America. Alcuni pensano che il primo sia ancora più folle: non è un giacimento di alluminio, come suggerisce il senso del business, ma una squadra di basket, i New Jersey Nets, acquistata lo scorso anno per duecento milioni di dollari. Nessun altro straniero possiede una franchigia nella Lega di pallacanestro più popolare al mondo. La sua mossa ha sollevato entusiasmo a Brighton Beach, il quartiere conosciuto con il nome di Little Odessa, dove vive buona parte della diaspora russa, ma anche qualche sospetto nei quartieri della finanza. “Qui abbiamo ristoranti buoni come quelli di Mosca, sono sicuro che mister Prokhorov non avrà problemi ad ambientarsi”, ha commentato il consigliere di distretto, Alec Brook Kranski, mostrando un po' di spirito naïf. Perché quelli che arrivano da Mosca non fanno più colazione nelle baracche di Nuova Odessa e non cercano stanze in affitto fra gli annunci appesi nelle strade di Brooklyn. Per questo, molti a Wall Street osservano le mosse del milionario con attenzione e si chiedono quale sarà il suo prossimo passo: se metti insieme una squadra di basket e un mensile per ricchi, significa che hai bisogno di popolarità per fare qualcosa di eclatante.
Michael Idov, un giornalista che frequenta il Samovar e scrive per il New York Magazine, dice che la diaspora russa è divisa in tre categorie. Un tempo c'era la generazione Brodskij, la grande onda di esuli e di emigrati che non perdeva mai l'occasione di ricordare i crimini e le piaghe del potere sovietico. Negli anni Novanta sono arrivati “quelli delle salsicce”, gli ebrei che hanno scelto l'America attratti da Dynasty e dal Quinto emendamento – secondo le carte dell'Immigrazione, in un solo anno, il 1992, gli Stati Uniti accolsero un esercito di sessantamila cittadini russi. Ora è l'epoca dei nuovi russi, gente che considera New York una specie di premio per avere ottenuto successo a Mosca o nelle terre lontane della Siberia. Fanno acquisti sulla Fifth Avenue, sognano di essere fermati per strada da un fotografo di Sartorialist, vivono fra Plaza, Time Warner Center e Central Park West. La loro vita, dice Idov, è un mix di extralusso e incesto in stile Appalachi. Naturalmente questo approccio non convince i vecchi reduci della lotta contro il comunismo, che considerano Prokhorov e compagni una massa di oligarchi viziati diventati ricchi sulla pelle del popolo.
I nuovi russi sono una parte fondamentale nella vita economica della città. Il mogul Lev Leviev possiede la quota di maggioranza nella società che controlla il New York Times Building. Vassily Anisimov ha prestato una parte delle sue proprietà alla New York University. Tamir Sapir, nato Sepiashvili nel cuore del Caucaso, ha cominciato vendendo videoregistratori e oggi ha un patrimonio che supera i due miliardi, suo figlio Alex ha soffiato un paio di grattacieli a Donald Trump, compreso quello di Soho. La casa di Valery Kogan, uno degli immobiliaristi più potenti di New York, è un castello con 26 stanze da bagno. Questa generazione di emigrati ha un debole per i terreni, ma non disdegna la finanza. Molti russi lavorano per Goldman Sachs, alcuni, come Ruvim Breydo, sono riusciti a fare fortuna grazie al mercato degli hedge fund. Altri hanno scelto il basso profilo: se ne senti parlare non è una buona notizia. E' il caso di Sergey Aleynikov, un fricchettone esperto di computer accusato di avere sottratto codici segreti a una banca potente. Ci sono anche quelli che si sono dedicati all'arte. Vladimir Potanin è nel board del museo Guggenheim, la cantante Regina Spektor è un idolo per milioni di fan e un emigré ucraino di nome Eugen Hütz ha fondato un gruppo rock molto originale, Gogol Bordello, che ha scelto come base il Lower East Side. Snob è fatto apposta per i nuovi russi, è il brand globale di una nuova categoria che passeggia per le strade di Mosca, di Londra e di New York e si chiede: “Che cosa può fare la Russia per il resto del mondo?”. Sulla copertina del primo numero americano, il milionario Prokhorov ha voluto Stepan Pachikov, il presidente di una società che inventa applicazioni per iPhone e BlackBerry. Il resto delle pagine è coperto da ritratti di giovani artisti, recensioni di ristoranti alla moda e racconti inediti di Nabokov. Prokhorov spera che Snob aiuti il suo investimento con i Nets e che i Nets contribuiscano al successo di Snob. Il direttore commerciale della rivista, Gregory Kegeles, dice che è arrivato il momento di dimostrare all'America che i russi capiscono quello che accade intorno e annuncia una nuova strategia per attirare i lettori. Niente abbonamenti in omaggio, niente offerte premio, ma inviti a concerti e feste private nei locali più prestigiosi di New York. E' questo il sistema migliore per costruire un'élite, per tenere insieme i nuovi russi e aumentare la loro influenza. Snob non avrà mai tanti lettori quanto il New Yorker, ma il progetto inquieta i direttori di numerose riviste della città.
Il progetto Snob non è nato nell'ufficio di Prokhorov ma in quello di Vladimir Yakovlev, l'ex direttore di Kommersant, il quotidiano economico più importante di Mosca. E' lui ad aver elaborato il concetto di “russo globale” durante una pausa sabbatica lunga dieci anni fatta di viaggi e pellegrinaggi. L'idea di aprire un giornale russo a New York non è una trovata senza precedenti. Molti imprenditori hanno cercato il successo nell'editoria e lo hanno fatto sia per soldi, sia per ragioni filosofiche. Negli anni Ottanta, lo scrittore Sergei Dovlatov ha raccontato la propria esperienze a Novyj Americanec, un fogliettone aperto a New York negli anni Ottanta, in un romanzo di successo, “Il giornale invisibile” (Sellerio, 2009). Secondo lo schema del giornalista Idov, Dovlatov apparteneva alla diaspora della stagione Brodskij. Non fuggì in America per evitare le persecuzioni del regime sovietico, ma per avere una nuova possibilità. Una volta arrivato a Brooklyn, scoprì di avere risolto soltanto una parte del problema. A Mosca doveva fare i conti con un compromesso doloroso, quello con le autorità del regime che erano incaricate di decidere il futuro dei suoi racconti. Anche la vita a New York aveva i suoi compromessi. “L'America è effettivamente un paese dalle possibilità illimitate – scriveva Dovlatov – Una di queste è il fallimento”. Per gli scrittori russi di quella generazione era impensabile che il successo della letteratura potesse dipendere dal mercato. “Parole come ‘debito' e ‘credito' ci fanno ribrezzo. Per noi è meglio fare il ladro che il commerciante”. Trent'anni più tardi, molte cose sono cambiate per le strade di New York. I giornali russi non si fanno più negli scantinati ma nei loft del quartiere più trendy e gli editori non sembrano ossessionati dalle vendite. Oggi, la figlia di Dovlatov frequenta i circoli dei nuovi russi come il Samovar e partecipa alle riunioni di Snob. Se Brodskij non pensava di essere un esiliato vero, forse questa non è una diaspora.
Il Foglio sportivo - in corpore sano