Nel nome del padre
Una mattina di sole, sul tardi, un principe scendeva le scale del suo palazzo. Roma, anni Cinquanta. Incrociò una donna, vestita da governante, che teneva per mano due bambini paffuti, sui cinque anni. “Che bei bambini, chi sono?”, chiese il principe incuriosito. “Sono i vostri figli, altezza”. L'epica dei padri è molto cambiata da allora, sono accadute cose impensabili.
Una mattina di sole, sul tardi, un principe scendeva le scale del suo palazzo. Roma, anni Cinquanta. Incrociò una donna, vestita da governante, che teneva per mano due bambini paffuti, sui cinque anni. “Che bei bambini, chi sono?”, chiese il principe incuriosito. “Sono i vostri figli, altezza”. L'epica dei padri è molto cambiata da allora, sono accadute cose impensabili (il premier inglese, David Cameron, ha preso un permesso per paternità, Phil Collins ha nuovamente annunciato che lascia la musica per crescere i figli – “lo so, la gente ora dirà: ma perché?”, per cui ci sentiamo di rassicurarlo: signor Collins, vada in pensione tranquillo, sarà dura ma ce la faremo) e ieri mattina un padre operoso ha portato da solo il proprio figlio di un anno a fare il richiamo del vaccino, dopo aver tentato una infruttuosa opposizione: “Siamo pazzi? Ma io sono un uomo!”.
L'essere un uomo non dispensa più dal cambiare pannolini, misurare febbriciattole (sarebbe meglio non usare, però, il termometro da giardino), preparare pappe secondo le rigide regole del pediatra e lasciarsele sputare sulla camicia. L'essere un uomo comprende, adesso, anche un certo charme aggiuntivo (percepito in realtà soprattutto da chi lo esercita) nel camminare carponi sulla spiaggia fingendo di essere un cane che insegue il bambinetto estasiato, o nell'insabbiarsi dalla testa ai piedi per scavare una buca che stimoli i sensi e la motorietà del piccolo. I padri si immergono felici (vedendosi offerta in cambio una piacevole aura di eroismo) nelle vicende scolastiche, pomeridiane e vacanziere dei figli, diventano confidenti di preadolescenti già inquiete, sono in grado di riconoscere fra loro le Winx e si immolano nella socializzazione con gli altri padri durante le feste degli amichetti, quelle in cui bisogna ricambiare gli inviti e non esiste più un sabato pomeriggio privo di festicciola con animatore anche a cento chilometri di tornanti da casa. I padri sono diventati i protagonisti della vita familiare, ma hanno ancora, sulle madri, il vantaggio della novità. Sono i nuovi valorosi.
“Il bello dell'essere padri è che lo standard qualitativo è sempre penosamente basso”. Inizia così l'ultimo romanzo di Michael Chabon, “Uomini si diventa” (Rizzoli), interamente dedicato alla vita con la moglie e i quattro figli (Chabon scrive anche storie per bambini, lavora in casa schiena contro schiena con la moglie scrittrice, che forse, esasperata da tanta virtù ha pubblicato un libro intitolato: “Cattiva madre”). Chabon va al supermercato con il figlio più piccolo in braccio, con l'altra mano svuota il carrello e una signora in coda gli dice: “Lei è proprio un bravo papà”. “Guardai mio figlio. Stava masticando il rivestimento di una fascetta di fil di ferro. Rischio di soffocamento assicurato, se prima il fil di ferro non gli avesse trafitto un labbro o la lingua. Il visino era tutto impiastricciato. Sporco, addirittura. Qualcuno sarebbe stato tentato di utilizzare la parola ‘croste'”. Ma un padre che compra gli omogeneizzati e ha un bambino nel carrello fa ancora (per poco) un certo effetto sorpresa. “Non ho idea di cosa debba fare una donna per spingere un perfetto sconosciuto a comunicarle, in un supermercato, che è proprio una brava mamma. Forse praticare una tracheotomia d'urgenza con una Bic sul figlio maggiore mentre allatta quello appena nato e compra una scorta per due settimane di merendine sane ma appetitose per l'intero cast del Re Leone”. Chabon non esagera, e anzi una madre che compra merendine anziché prepararle con uova biologiche merita il massimo biasimo possibile, nonostante la prontezza di riflessi dimostrata nella tracheotomia. Perché adesso non deve superare soltanto la concorrenza delle vere buone madri (che si muovono sempre in gruppetti minacciosi scambiandosi idee per i lavori a maglia e nuovi irresistibili modi per fare apprezzare le carote crude ai bambini, facendone delle piccole ma eleganti sculture), ma anche la competizione dei nuovi padri entusiasti. La visione della paternità occidentale non è quella fosca e sospettosa di Javier Marìas, “Il mondo è pieno di bastardi di cui non si sa che lo sono, i quali ereditano le fortune o la miseria di coloro che non li hanno generati. Nessun uomo ha mai saputo se è il padre dei propri figli, nonostante le somiglianze”, è più simile a un film di Gabriele Muccino, “Baciami ancora”, in cui ogni cliché paterno viene rispettato: il padre irresponsabile che per dieci anni si è disinteressato del figlio e adesso vuole riparare, il padre amorevole ma separato che ha una stanza per la bambina nella bella casa da single e non sopporta l'idea di un altro uomo a letto con sua moglie, l'aspirante padre di destra e pieno di valori (fedeltà, sicurezza, famiglia, certezze), che si riprende la moglie incinta (di un altro) e in sala parto piange di gioia. Sono tutti commossi dai figli, e tutti, anche i più egoisti, immaturi, disgraziati, sono pronti a lottare per averli e per essere gratificati dall'identità di padre.
Il calciatore (appartenente cioè all'unica categoria umana che ha deciso di ripopolare questo paese) Matteo Sereni ha lanciato un appello televisivo di quelli che spezzano il cuore. Domenica scorsa è stato il migliore in campo, parando tutti i gol parabili, e ha avuto in premio un microfono con il quale parlare ai suoi figli: “Dedico questa vittoria ai miei figli, che non vedo da molto tempo, e non per colpa mia”. Separato, bambini di cinque e nove anni, ci si immagina una ex moglie arrabbiata (magari gelosa di una nuova fidanzata), che si vendica impedendogli di incontrare i piccoli. Lei ha risposto che lui li può vedere quando vuole, e che anzi è andato solo quattro volte in sei mesi e si è perso un compleanno, ma tutti i padri separati e convinti di essere vittime di ex mogli tiranne si stringono intorno a Matteo Sereni e gridano la loro rabbia di genitori tenuti ai margini, ostacolati e ridotti a vedere i propri figli in poche ore controllate, senza la possibilità di portarli a pattinare all'improvviso, ma solo dopo un consulto fra avvocati. Nell'“Insostenibile leggerezza dell'essere”, di Milan Kundera, romanzo molto letto in Italia a metà degli anni Ottanta (d'estate, in alcune spiagge di aspiranti intellettuali, chi avesse sorvolato dall'alto avrebbe visto un'indistinta massa di copertine azzurro Adelphi), il protagonista, Tomás , divorziato e con un figlio maschio, è vittima della stessa ostilità materna che ha colpito Matteo Sereni: “Ogni volta che doveva andare a trovarlo, la madre accampava qualche scusa. Se avesse portato loro dei regali costosi, gli sarebbe stato certo più facile vederlo. Capì che per avere l'amore del figlio avrebbe dovuto pagare la madre, e in anticipo. Si immaginava un futuro di sforzi donchisciotteschi per inculcare nel figlio le proprie idee che, sotto ogni riguardo, erano l'opposto di quelle della madre. Il solo pensiero già lo spossava. Quando una domenica la madre gli annullò ancora una volta all'ultimo momento un incontro con il figlio, decise d'impulso che non l'avrebbe mai più visto. Perché, poi, avrebbe dovuto sentire per quel bambino, al quale nulla lo legava all'infuori di una notte imprudente, più affetto che per un altro? Avrebbe pagato ciò che doveva scrupolosamente, ma che non gli venissero a chiedere di lottare per avere diritto al figlio in nome di un qualche sentimento paterno!”. Disinteresse assoluto, nessun senso del legame di sangue, nessun rimpianto per il rapporto perduto, tanto che, quando il figlio ormai grande cerca un contatto fra adulti con il padre costretto dal regime comunista a non esercitare più il mestiere di chirurgo, ma a lavare le finestre degli uffici, Tomás ha un moto di fastidio: vedere sulla faccia di quel ragazzo la propria faccia, accorgersi che mentre parla storce il labbro superiore proprio come fa lui, non lo commuove ma gli fa rabbia. Erano anni in cui fare il padre non andava particolarmente di moda, e i figli non erano mai inclusi nella vita pubblica di un uomo, anche se Stephen King rivendica la prole come grande fonte di ispirazione letteraria: “Sono stato abbastanza fortunato da riuscire a vendere presto i miei libri, mi sono sposato presto e ho avuto dei figli presto. Naomi è nata nel 1971, Joe nel 1972 e Owen nel 1977 – sei anni di differenza fra il primo e l'ultimo. Ho avuto la possibilità di osservarli mentre molti dei miei coetanei andavano a ballare la musica dei KC and the Sunshine Band. Penso di aver avuto la meglio. Crescere i miei figli è stato sicuramente più gratificante della cultura pop degli anni Settanta. Quindi non conoscevo i KC and the Sunshine Band, ma conoscevo nel dettaglio i miei figli. Provavo la rabbia e la stanchezza. E sono cose che ho messo nei libri perché erano ciò che stavo vivendo in quel momento” (intervista alla Paris Review). In effetti spesso ai bambini dei suoi romanzi succedono cose orribili, e una volta, per provare se una scena poteva funzionare, Stephen King legò uno dei figli alle colonne del letto con delle sciarpe (per vedere se riusciva a liberarsi con una capriola).
“Mia moglie entrò e chiese, Ma che stai facendo? E io, sto facendo un esperimento, non farci caso”.
Il compiacimento della paternità arriva più tardi, il sentimento di eccezionalità dell'essere allo stesso tempo uomo e padre è una novità, è quello che ha fatto decidere a Sergio Cofferati, padre per la seconda volta a sessant'anni, di allontanarsi un po' dalla politica per crescere il suo bambino, mentre negli anni Settanta, con il primo figlio, fece il contrario, e adesso fatica a perdonarselo. Ma allora non ci si sentiva geniali e intrepidi per avere messo al mondo dei figli, mentre adesso a volte succede, e gli uomini riescono perfino a superare le donne in esternazione della propria straordinarietà (fin dall'ingresso in sala parto con camice, mascherina, videocamera e la grande impresa del taglio del cordone ombelicale, in seguito stordendo gli interlocutori durante cene tra adulti con i racconti delle imprese infantili, illustrando il proprio metodo educativo, la scuola inglese, le bambole Waldorf, il contatto con la natura, il nuoto a sei mesi, le arrampicate in montagna a sette e l'ascolto di Mozart almeno fin dal pre concepimento). E' una condizione talmente superiore e speciale, che Tiziano Scarpa, non ancora padre, ci ha scritto sopra un romanzo, “Le cose fondamentali” (Einaudi), in cui il protagonista, neo padre, va in ufficio con due pannolini attaccati insieme per provare la stessa sensazione del figlio appena nato che non riesce a trattenere nulla, e si sdraia per terra fissando un punto indefinito e lasciando uscire un filo di bava dalla bocca, per capire come ci si sente, in più scrive lunghe lettere al povero neonato innocente perché abbia la vita già svelata quando sarà grande. Comunque: “Tre uomini e una culla” è un film del 1985 e stupiva e divertiva per la situazione bizzarra: uomini gaudenti che si trovano all'improvviso a occuparsi di un neonato. Adesso non provocherebbe lo stesso sconvolgimento, adesso ci sono padri in grado di tenere lezioni sul modo migliore di sterilizzare un ciuccio. Cristiano Ronaldo (sempre mitologica categoria calciatori) ha avuto un figlio da una cameriera, dopo una notte di divertimento, e ha deciso di liquidare a milionate la madre e tenersi il bambino in affidamento esclusivo (nel “Valzer degli addii”, di Kundera, succede la stessa cosa e l'uomo ha solo un pensiero: salvezza, cioè aborto). La frontiera della modernità che ogni tanto riecheggia nelle dichiarazioni di attrici in pericolosa discesa verso la menopausa, “non c'è più bisogno di un uomo per fare un figlio”, potrebbe venire presto capovolta dalla rivincita (non solo letteraria) dei padri.
John Irving è ossessionato, nei romanzi, dal rapporto padre-figlio (non ha mai conosciuto il padre), e “Ultima notte a Twisted River”, in uscita per Rizzoli, racconta la fuga di un padre e un figlio attraverso l'America e il Canada; nel “La strada” di Cormac McCarthy, romanzo post apocalittico, i protagonisti sono un padre e un figlio senza nome che fuggono verso sud, a piedi, dopo una catastrofe, spingendo un carrello pieno di quel poco che è rimasto. “Una notte il bambino si svegliò da un sogno e non volle raccontarglielo. Non sei obbligato a dirmelo se non ti va, disse l'uomo. Non ti preoccupare. Ho paura. Va tutto bene. No, invece. Era solo un sogno. Ho tanta paura. Lo so. Il bambino distolse lo sguardo. L'uomo lo abbracciò. Ascoltami disse. Cosa. Quando sognerai un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sarai arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere. Io non te lo permetterò”. La salvezza dell'umanità passa attraverso quel legame.
C'è qualcosa di diverso nel rapporto con il padre, con un uomo, qualcosa che il protagonista di “Un ragazzo” di Nick Hornby (Guanda), cerca disperatamente, presentandosi ogni pomeriggio a casa di un quasi sconosciuto, che però capisce certe cose (ad esempio, di quali scarpe da ginnastica abbia bisogno per non essere picchiato tutti i giorni dai compagni di scuola) molto meglio della sua mamma fricchettona e vegetariana. E' qualcosa che ha a che fare con l'imparare a vivere, col diventare grandi. Mia figlia è convinta che suo padre sia l'uomo più forte del mondo: una volta in spiaggia ha visto un culturista (faceva impressione per quanto era lucido e gonfio) e ha detto che comunque era meno muscoloso del babbo (che è una delle persone meno muscolose d'Italia), pensa che sia il capo di tutte le città e il padrone di tutti i mari, la mamma invece è solo la mamma più bella del mondo. I padri, se riescono a resistere alla tentazione di diventare madri, partono da una posizione di vantaggio e rischiano meno odio adolescenziale anche quando minacciano la figlia di avventarsi sui suoi fidanzati con delle mazze ferrate e chiuderla in convento fino ai trentacinque anni. I padri possono permettersi di dimenticare le pile di ricambio del robot parlante, rifiutarsi di discutere di reggiseni con la figlia quindicenne, non sapere qual è il giorno della tuta da ginnastica a scuola: a loro, per qualche inspiegabile motivo, viene perdonato tutto. Si tratta di decidere che genere di padre diventare, ma secondo Michael Chabon non ci sono molte possibilità di sottrarsi agli stereotipi. La citazione che segue è esageratamente lunga, ma è molto consolante: “Presto o tardi, scoprirai che tipo di padre sei, e in quel momento, con assoluto orrore, capirai di che tipologia si tratta. Sarai il tipo di padre che finge, che grida, che riesce a valutare i propri figli soltanto paragonandoli fra loro, che si sottrae a ciò che provoca disagio e glissa su ciò che è doloroso, e gonfia allo stesso modo tanto i dolori quanto i successi. Sarai il padre che deride e inganna e si trastulla con i figli e li sottopone a ricche e sfaccettate manifestazioni di sarcasmo, quando – ovvero sempre – il sarcasmo è l'ultima cosa di cui hanno bisogno. Sarai il padre che millanta conoscenze che non possiede, e infligge informazioni con implacabile gratuità, e impartisce lezioni proprio nel momento in cui non possono essere assorbite, e che ha ragione, ha sempre avuto ragione e sempre la avrà, fino alla fine dei tempi, mai così tanto come subito dopo aver avuto torto. E quando il corpo di tua figlia comincerà a tradirla e all'orizzonte del suo cielo inizieranno a baluginare i lampi muti del sesso, ti schiarirai la gola e, accarezzandoti la barba, le dirai di andare a chiedere a sua madre. Sarà più forte di te: sei uno stereotipo ambulante”. Vale la pena di arrivare in fondo per rimettere finalmente i padri sullo stesso, fallibile, incerto, goffo, piano delle madri.
Il Foglio sportivo - in corpore sano