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Zingari nella vigna di Gad
Ho letto l'altro giorno un lungo editoriale di Gad Lerner su Repubblica in merito alla questione dei rom. Nulla che mi sembrasse nuovo o sorprendente: correttezza politica, principi di libertà di movimento per i cittadini europei, messa in guardia sulla minaccia ai diritti (si comincia con i rom e poi si passa ad altri), e dunque evocazione dello sterminio nazista.
Leggi Nomadi? Una melodrammatica rappresentazione del moto, ma non si muovono affatto di Umberto Silva - Leggi Il vostro immenso senso di colpa è filosofico, scambiate il rom idealizzato per l'uomo che è di Luigi Amicone
Ho letto l'altro giorno un lungo editoriale di Gad Lerner su Repubblica in merito alla questione dei rom. Nulla che mi sembrasse nuovo o sorprendente: correttezza politica, principi di libertà di movimento per i cittadini europei, messa in guardia sulla minaccia ai diritti (si comincia con i rom e poi si passa ad altri), e dunque evocazione dello sterminio nazista. Tranne un'affermazione, quando Lerner definisce come la più volgare delle invettive quella che invita i benpensanti a ospitarli loro, i rom indesiderati. Ora io non ho mai trovato volgare quell'invettiva, tutt'altro. Mi sembra, e forse addirittura involontariamente, un richiamo alla coerenza tra parole e azione. Io so bene che oggi essere di sinistra è del tutto gratuito, costa assai poco e anzi tende a rendere molto (quanto all'essere di destra, non ne so molto, ma mi sono fatto l'idea che cominci a rendere anch'esso, e sia piuttosto dolce per chi a lungo è stato discriminato).
Quand'ero ragazzo era quasi una colpa essere figli di genitori ricchi (per quel che mi riguarda ero incolpevole, figlio di poliziotto e cresciuto in casa popolare) ed era una colpa assolta da donazioni e da una specie di ripartizione della ricchezza nella vita quotidiana. Quand'ero ragazzo lo stile di vita era misurato come un esame inquisitorio, che comprendeva cose banali come l'abbigliamento, ma anche cose piuttosto private come il rapporto con le donne, e uno si sentiva obbligato a essere, come gli riusciva, l'annuncio di un uomo nuovo.
Non ho provato invidia quando il liberi tutti ha relegato la vita dei singoli a una sfera del tutto privata e ininfluente, per cui uno predica quel che vuole, e vive come vuole. Anzi, rido sotto i baffi quando sento sermoni da persone che ho conosciuto in quel tempo lontano, e non amavano alzarsi all'alba per volantinare, e hanno scoperto in un'agiata vecchiaia l'ardore che gli mancò allora, quando costava. Però mi è rimasta attaccata l'idea rozza e semplice che non puoi dire una cosa e farne un'altra: per questo diffido della politica in generale, per niente affascinato dalle furbizie, dalle manovre, dalla necessaria doppiezza che essa richiede. E per questo, in assenza di libri mastri ideologici, sono piuttosto fermo nell'imparare le lezioni dalla realtà, e non dalle declamazioni. Per questo non mi sorprendono pacifisti aggressivi, ricchi generosi a parole, fancazzisti che esaltano il lavoro.
E così ho sempre pensato che parlare di libera immigrazione, salvo poi lavarsene le mani, fosse un inganno, parlare dei poveri del mondo coperti di anelli fosse un mestiere, proclamare giustizia con animo torvo fosse un insulto. Dunque non posso non pensare, quanto ai rom, se sarei felice di avere un campo rom davanti a casa. Credo di avere una storia personale e familiare che allontana il sospetto di pregiudizi: mio padre collaborò a salvare centinaia di ebrei, durante il Secondo conflitto mondiale. Un bambino ebreo venne nascosto a casa dei miei (adesso è un sereno anziano a Tel Aviv) e un'altra casa, ma la stessa famiglia, ospitò anni fa un bambino musulmano profugo da Sarajevo. Neanche pregiudizi sul nomadismo: tra le mie carte conservo un foglio di via a me intestato dall'Olanda, e il certificato che racconta due settimane di detenzione nelle carceri tedesche per vagabondaggio. E sono sospettoso anche nei miei confronti, quando mi chiedo se il fatto di aver avuto ladri zingari in casa non mi condizioni (vero che, non so se per deludente bottino, lasciarono la casa sfregiata come per un insulto) facendo di me quell'americano che passa da democratico a repubblicano dopo che gli hanno rubato il portafoglio.
Dirò di più: ho frequentato gli zingari di Sarajevo – avevano una “brigata” combattente, che si chiamava Prliava brigada, la brigata sporca – gli zingari di Pancevo, virtuosi degli ottoni, e quando è capitato anche zingari italiani, incuriosito dalla loro solida trasmissione di valori: non c'è mai un ragazzino zingaro che scappa per fare il bancario, per quanto conosca un professore universitario zingaro. Per farla breve: io non li rimpatrierei, ma sospetto chi parla di un'integrazione che sarebbe omologazione. Non riesco ad affezionarmi all'idea di frontiere invalicabili, ma rispetto chi teme i furti e sopporta male la richiesta di elemosina da bambini educati all'accattonaggio. Mi piace l'idea degli zingari fosse pure ladri, ma anche calderai, mercanti di cavalli, suonatori provetti, ma so che appartiene al passato. Il presente è mobile, incerto. E non consente lezioni facili. Anzi giustifica quel richiamo alla realtà: perché non a casa tua? Immaginatevi un campo nomadi tra i vigneti del mio vecchio Gad, e comunità di immigrati nelle Curie, e cassintegrati assunti nei giganti delle cooperative, la correttezza politica che si fa prassi, la vecchia rivoluzione che non attende il giudizio universale ma comincia ora, diventa testimonianza, non predica.
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