Nomadi? Una melodrammatica rappresentazione del moto, ma non si muovono affatto
Zingari. I nazisti li odiavano perché si muovevano troppo, spregiando quella terra madre che per gli adoratori di Hitler era la dea più benigna, fattrice d'identità e destino. Agli occhi di uomini tanto devotamente radicati al territorio, quei vagabondi erano innanzitutto un insulto all'idea stessa di patria, ingrati da sterminare poiché costituivano un pessimo esempio per l'Hitlerjugend. In realtà gli zingari non si muovono affatto.
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Il vostro immenso senso di colpa è filosofico, scambiate il rom idealizzato per l'uomo che è di Luigi Amicone
Zingari. I nazisti li odiavano perché si muovevano troppo, spregiando quella terra madre che per gli adoratori di Hitler era la dea più benigna, fattrice d'identità e destino. Agli occhi di uomini tanto devotamente radicati al territorio, quei vagabondi erano innanzitutto un insulto all'idea stessa di patria, ingrati da sterminare poiché costituivano un pessimo esempio per l'Hitlerjugend. In realtà gli zingari non si muovono affatto, del moto fanno solo una melodrammatica rappresentazione restando ben fermi in se stessi, nello squallido primitivismo di cui si compiacciono. I topi che mordono i piedini dei bimbi fanno parte anch'essi della natura, vanno accettati. Questo è il prezzo della libertà di poter godere quando più se ne ha voglia del sole che sorge come della pioggia che cade, affrancati da ogni convenzione, orario e regola. “Niente diamo, niente chiediamo – ma è il motto dell'avaro! - siamo uomini liberi, totalmente liberi”. Come anche i barboni gli zingari – dal greco “atziganoi”, intoccabili – si atteggiano a puristi: niente appare loro più purificatore di quello sporco materico, visibile e tangibile, che li preserva dall'atto, sempre impuro; dalla vita, misteriosa e ambigua; dalla parola dal sapore strano; dall'oscuro desiderio. Che mai niente tocchi loro in sorte, se non quella di erranti ch'essi stessi propiziano.
Nel mondo naturale gran parte ha il parassitismo. Invece di mettere a frutto l'incontro con Altro, gli zingari lo degradano a miraggio da sfruttare con meticoloso accanimento; una guerriglia fastidiosa contro l'occasione di una reale erranza, in una trasformazione che conduca alla vera gioia, quella che scaturisce da una riuscita. Eccoli qua, uccellini sporchi di fango che vivacchiano, rubacchiano, talvolta lavoricchiano; occhi sfuggenti che ci spiano mentre viviamo, rubiamo e lavoriamo. Non solo. Ogni tanto pensiamo anche a loro, agli zingari. Al cinema li mitizziamo, simpaticoni e artisti, ma quando li incontriamo per strada o in tivù, è più facile che ci scappino epiteti non particolarmente affettuosi. Mitizzazione e insulto sono due modi per dare sollievo all'angoscia provocataci dal rifiuto di pensarli davvero, in tutta la loro tragicità ben più cupa di quella ebraica, che di Dio e della parola mai si è privata.
A Siviglia anni fa una zingara mi lesse sulla mano il futuro e non udii quel che mi diceva. Pensavo al suo, e guardandole il volto malinconico dietro l'ostentata pittura, capii che, al di là di ogni romanticheria, costei futuro non aveva. Solo un'eterna fatica di Sisifo, ché niente c'è di più faticoso del vivere di niente e alla giornata. Aspirante borderline, amante del margine e del fatiscente, lo zingaro abita l'altrove, cercando di dimenticarsi. Cosa non può, non vuole ricordare? In quale sconfessata vergogna e penitenza si costringe a campare? Si appella a un peccato originale commesso ai suoi danni? Fantasticano gli zingari di una civiltà che un tempo li derubò e di cui ora si vendicano derubandola, e i conti non vanno mai in pareggio perché la civiltà è sempre più forte? Forse, ma è una fantasia che non diventa parola, resta una musica di sottofondo, giusto per passare il tempo. Passato, passare, sembrano sempre di passaggio gli zingari, anche quando stanno da cent'anni in un posto. Non vogliono sapere niente della propria storia, neppure per ricordarla attorno al fuoco; potrebbero essere tentati dal desiderio di costruirne un'altra. Dicono che la famiglia sia il fulcro della vita degli zingari e che essa, radice mobile, sostituisca la terra ferma. Ma non sento le voci dei bimbi che escono dalle scuole, non sento le voci delle mamme che li aiutano a fare i compiti e dei papà che li interrogano; di quale famiglia si sta cianciando? “Scuola dell'obbligo”, un modo di dire così brutto ma proprio per la sua violenza così bello, colmo di speranza!
Da quando Cristo ce ne fece dono vige il tempo; ammazzarlo è ammazzare Dio. Dio non muore, le cose cambiano anche quando cerchiamo di pietrificarle, e quel che una volta aveva un valore oggi può essere robaccia. Dobbiamo fare finta di niente e sorbirci di tutto? Multiculturalismo è una parola coniata per coprire ogni infamia e coglioneria, è l'erede libertino del comunismo, dove l'infibulazione diventa un valore e un imbecille trova posto sullo stesso scaffale di Kafka. La cultura non è multi né unica, è qualcosa che nessuno possiede, è la cura con cui si fanno le cose. Rispetta le altrui usanze e tradizioni! Nemmeno per sogno. Il rispetto è l'altra faccia dello stupro; i rispettabili e rispettosi dottor Jekyll ben sappiamo chi nascondono. Meglio individuare la logica dell'altrui discorso e intervenire con audacia. Cacciare gli zingari non è granché, implica farci complici del loro rifiuto, affratellarci nell'ostilità, condannarci agli spettri che vanno e vengono, senza sosta. Un buon cristiano, un uomo accorto, non uccide e non caccia nessuno, né sottrae i figli ai padri per la buona coscienza di Maria Teresa d'Austria, poiché nei campi nomadi non esistono padri, lì sono tutti figli, anche e soprattutto i folkloristici vegliardi. Figli che da sempre fanno gli orfani, rifiutando quel Padre che ha mille nomi, tanti quante le occasioni di crescere. Quale terrore dell'origine spinge i figli a sconfessarlo, accontentandosi di vivere delle sue briciole? Il primitivismo vegeta nel timore d'incontrare qualcosa di originario, di autentico, preferendo accamparsi in uno stantio anacronismo: Cronos è il primo nome del Padre che si tentò di cancellare.
La Cacciata, sempre lì torniamo. Per gli ebrei inaugura il mito, instaura il percorso che farà incontrare una Legge che non ha bisogno di sacrifici umani né di idolatria, ma che consegnerà la tradizione alla scrittura. Dal dolore per la Cacciata gli ebrei traggono inesauribili risorse. Gli zingari, invece, non riescono ad ammettere ch'essa possa inaugurare la nascita; pensarla risulta talmente intollerabile che si costringono a negarla, sacrificano il mito e si consegnano al ritualismo. La sconfessione della Cacciata li condanna a incessantemente rinnovarla con tutta la sua goduriosa lamentazione; ci sarà pure un Dante che scriverà della “bufera infernal, che mai non resta”, o un Wagner che celebrerà l'Olandese volante. Per conto loro gli zingari si accontentano di fregiarsi degli sfregi con cui tentano di umiliare il Padre: “Guardami Padre, con me i tuoi artifici sono vani. Tutta la tua sapienza e intelligenza, tutta la tua civiltà nulla può. Persino l'amore mi fa un baffo, io sono irrimediabile!”. Il piacere della vendetta pare vincere su ogni altro. Ma non sempre, non sempre, sforzarci di credere che sia così, che tutto sia perduto e impossibile con gli zingari, è solo il segno che a nostra volta siamo ansiosi di mostrare a Dio il Suo fallimento, giusto per poterci liberare di Lui per farne di ogni.
Un vero cristiano, un miscredente generoso e audace, un ebreo come Freud che non si spaventava davanti a niente, non cacciano gli zingari, che già per conto loro si cacciano nei guai, fieri indossando una vanesia disidentità che erigono a identità suprema. Attenzione: assecondare il masochismo dei nomadi è solo allenare il nostro sadismo; toglierceli di torno è toglierci il sonno e il sogno; se pensiamo di eliminare il perturbante, ci toccherà spaventarci ogni volta che ci guardiamo allo specchio. La vera ricchezza di un paese non si misura in pil ma nell'intelligenza con cui accoglie gli stranieri più problematici e favorisce… la loro integrazione? La loro crescita umana, la responsabilità, il responsum che ciascuno è tenuto a dare alla domanda che sempre si pone: essere o non essere? Solo la decisione di esistere conta, senza di essa il nulla resta nulla e il sud resta il sud anche, e soprattutto, se gli regaliamo cento miliardi di svanziche.
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