Tutti pazzi per Tremonti
Qualche giorno fa, a proposito di Giulio Tremonti, il nostro Vincino ha utilizzato un'immagine perfetta: una rotonda invasa da uno spaventoso numero di macchine guidate da un'infinità di politici strombazzanti tutti impegnati a girare attorno a un'imponente statua di bronzo per portare doni in omaggio alla divinità e tentare disperatamente di conquistare i suoi favori.
Qualche giorno fa, a proposito di Giulio Tremonti, il nostro Vincino ha utilizzato un'immagine perfetta: una rotonda invasa da uno spaventoso numero di macchine guidate da un'infinità di politici strombazzanti tutti impegnati a girare attorno a un'imponente statua di bronzo per portare doni in omaggio alla divinità e tentare disperatamente di conquistare i suoi favori. L'immagine in questione la si spiega osservando con attenzione alcuni dettagli comparsi sulle pagine dei giornali in questi giorni un po' particolari. In questi giorni in cui si discute in modo così vivace di tutti i possibili futuri scenari della maggioranza, in cui le opposizioni cercano di elaborare fantasiose formule algebriche per tentare di far fuori il presidente del Consiglio e in cui i parlamentari trafficano in Transatlantico con infiniti bigliettini contenenti liste di presunti onorevoli pronti a tradire questo o quell'altro leader di partito. Perché, sì, in mezzo al disordine dell'attuale panorama politico italiano – tra casiniani che diventano finiani, finiani che si trasformano in berlusconiani e veltroniani che improvvisamente si scoprono bersaniani – l'unica cosa certa è che al centro (e al riparo) di tutti i giochi c'è sempre lui, potente e discreto. Governo tecnico, elezioni politiche anticipate, alla fine spunta sempre quel nome lì: Giulio Tremonti.
Ecco: il punto è che in tutto il chiacchiericcio estivo, di cui è stato un po' vittima e un po' protagonista il ministro dell'Economia, c'è un aspetto in questi mesi trascurato e che invece merita di essere attentamente riportato. Perché se capita sempre più spesso, chessò, di ritrovarsi di fronte a un Pier Luigi Bersani che dice di essere disponibile ad appoggiare un governo guidato da Tremonti, a una Rosy Bindi che dice di non essere contraria a sponsorizzare un esecutivo guidato da Tremonti e a una Anna Finocchiaro che afferma di essere pronta a lavorare a un governissimo guidato da Tremonti; se nel Partito democratico sono in molti a credere che sia Tremonti l'unico politico con cui poter testare a livello nazionale l'esperimento di grande coalizione tentato in Sicilia da Raffaele Lombardo; e se, insomma, a una buona parte della sinistra di questi tempi sembra non dispiacere poi così tanto il ganzo Giulio ci sarà pure una ragione che va al di là del puro tatticismo politico. Ovvio: il fatto che da un po' di tempo a questa parte il ministro abbia iniziato a evocare con notevole disinvoltura culturale gli insegnamenti di Enrico Berlinguer sull'austerità ha contribuito a stuzzicare la curiosità di parecchi esponenti del centrosinistra. Ma questo passaggio dalla diffidenza totale all'interesse quantomeno culturale di alcuni importanti ambienti dei progressisti italiani nasconde una storia fatta di dettagli e sottigliezze. Una storia in cui entrano Massimo D'Alema, Giovanni Bazoli supoercapo di Intesa San Paolo, in parte l'uscente Alessandro Profumo ma soprattutto Romano Prodi. Ecco: iniziamo proprio da D'Alema. E' infatti l'attuale presidente del Copasir (Comitato parlamentare sui servizi) ad aver più volte confessato ai suoi più stretti collaboratori di non sentirsi lontano dalle idee di politica economica di Tremonti: ed è anche per questo che nel corso degli anni D'Alema ha costruito un rapporto più che cordiale con il ministro dell'Economia.
“Se una volta per tutte – racconta al Foglio Nicola Rossi, deputato del Partito democratico già vicino a Massimo D'Alema e oggi firmatario del documento veltroniano e fioroniano detto “dei 75”– ci togliessimo le fette di salame dagli occhi dovremmo avere il coraggio di ammettere che Tremonti non solo a volte dice cose che potrebbero tranquillamente essere considerate di sinistra ma che le sue scelte di carattere squisitamente economico (penso al legame fra la crisi attuale e la globalizzazione, alle giuste critiche sulle degenerazioni della finanza derivata e alle necessarie considerazioni sul necessario intervento dello stato di fronte agli eccessi del mercatismo) in alcuni casi andrebbero persino elogiate. Per esempio – continua Rossi – io credo che vada riconosciuto in modo sincero che in questi due anni complicati Tremonti ha gestito con saggezza le nostre finanze pubbliche. E sono inoltre convinto che molte delle battaglie combattute dal ministro sono battaglie che sono state, lo dico con un sorriso, scippate alla sinistra. Penso per esempio al richiamo severo pronunciato contro quegli spendaccioni di enti locali meridionali. Penso anche all'uso scriteriato che certe regioni hanno fatto dei fondi comunitari. Bene: erano tutte battaglie che avremmo dovuto intestarci noi e che invece ha combattuto Tremonti. Mi chiedo davvero come sia stato possibile farcele sottrarre così”.
Prima ancora però di aver sedotto una parte dell'universo dalemiano il tremontismo ha agito con successo anche su un altro tessuto pregiato del mondo del centrosinistra: quello delle élite finanziarie e culturali. Attraverso l'Aspen, per esempio, il ministro ha avuto la possibilità di costruire un rapporto sincero con il numero due del Partito democratico (e numero due di Tremonti all'Aspen) Enrico Letta. Ma è anche su altri terreni che il potere di seduzione di Tremonti ha raccolto risultati importanti. Due terreni fino a poco tempo fa considerati inaccessibili per Tremonti e che invece oggi sembrano essere diventati favorevoli per il ministro: il mondo della finanza cattolica e soprattutto il mondo legato a Romano Prodi. E fra tutti, è proprio il rapporto con il fondatore del Partito democratico quello più interessante. “Tremonti – spiega un ex collaboratore del ministro dell'Economia, che chiede di non essere citato per nome – è riuscito a creare attorno a sé una sovrastruttura intellettuale talmente sofisticata da essere apace di dialogare con facilità anche con esponenti di realtà politiche con storie diverse. Con il professore però è difficile non notare un legame particolare. Prodi considera Tremonti quanto di meglio il centrodestra abbia prodotto negli ultimi vent'anni e da parte sua Tremonti pensa di Prodi più o meno, a parti rovesciate, la stessa cosa”.
Si dirà: possibile che uno degli uomini più stimati dal presidente del Consiglio giochi quasi di sponda con un politico simbolicamente dannato nella propaganda del Cav.? Sembrerebbe di sì. Chi conosce bene l'ex numero uno dell'Iri e il ministro dell'Economia racconta che il dialogo tra Prodi e Tremonti è incominciato negli ultimi mesi trascorsi dal professore bolognese alla presidenza della Commissione europea. A quei tempi, Prodi e Tremonti ebbero occasione di confrontarsi sui principali dossier legati alla politica economica dell'Unione europea. Ma anche molto prima l'inventore dell'Ulivo fu così intrigato dal professore di Pavia da aver dato, durante la trionfale campagna elettorale con cui nel 1996 sconfisse alle elezioni la coalizione di Silvio Berlusconi, un incarico preciso a un suo emissario: verificare se Tremonti fosse disponibile a entrare un domani nel suo governo come ministro delle Finanze. Tremonti, originariamente eletto in Parlamento all'interno delle liste del Patto Segni ma da due anni saldamente nei ranghi del governo e del partito di Berlusconi, ricevette la proposta dal professore, chiese ai suoi collaboratori di ringraziare Prodi e gentilmente, poi, gli disse di no.
Da quel giorno a oggi molte cose sono naturalmente cambiate, e ovviamente i deu si sono aspramente combattuti, ma la stima tra Prodi e Tremonti, e il fascino discreto esercitato da quest'ultimo nel mondo del centrosinistra italiano, non sono mai sostanzialmente mutati. E ogni tanto alcuni segnali dell'intesa tra i due si ritrovano sparpagliati qua e là in giro per i giornali. Lo scorso 23 maggio, per esempio, l'ex presidente del Consiglio ha elogiato pubblicamente il ministro dell'Economia commentando con toni tutt'altro che negativi la manovra correttiva studiata dal governo; ricordando che “i peggiori ministri sono sempre stati quelli che hanno cercato la popolarità ad ogni costo” e inserendo di fatto Tremonti nella posizione di chi non può essere certo considerato “come uno di quelli che cercano a tutti i costi la popolarità”. E dunque bravo Giulio. Appena un anno prima Tremonti e Prodi avevano già amichevolmente amoreggiato, sempre sul Messaggero, attorno a un altro argomento di politica economica. Era il 16 febbraio e sul giornale di Roberto Napoletano spuntò questa lettera di Tremonti: “Romano Prodi pubblica sul suo giornale articoli sempre di grande interesse, questo è di grandissimo interesse e, se posso aggiungere, è anche un articolo che esprime la cifra della grande politica. Una cifra che somma due addendi essenziali. La visione e la cultura istituzionale: la capacità di mettere insieme materiali apparentemente eterogenei e giuridici, facendone sintesi politica”.
Recentemente, questo filo sottile che sembra legare in modo deciso la politica economica di Prodi con quella di Tremonti è stato messo in evidenza anche da uno degli uomini che è stato protagonista dell'ultimo, sfortunato governo prodiano: quel Tommaso Padoa-Schioppa, ex ministro dell'Economia, che lo scorso tre settembre (sul Sole 24 Ore) ha scelto di usare le seguenti parole per definire l'opera del suo successore: “Nell'agire di Tremonti vedo una continuità con la politica del governo Prodi. La vedo e la condivido. Tremonti è stato sin dall'inizio consapevole del fatto che l'Italia non aveva margini di manovra. E questo è un fatto positivo”. Il continuo ping pong tra tremontiani e prodiani è fatto anche di altri capitoli interessanti: e qui i protagonisti sono Vicenzo Visco e ancora Romano Prodi. E' stato il primo a dire che l'ultima Finanziaria di Tremonti “dà ragione politicamente alla linea che era del governo Prodi”; ed è stato il secondo ad ammettere che “nella manovra di Tremonti c'è un'idea di continuità con quello che ha fatto il nostro governo. E quindi io la chiamo ‘Visconti”. Non è poi così sorprendente che chi ha recentemente incontrato Tremonti, nel suo ufficio al primo piano di via XX Settembre, dica di aver notato che sulla scrivania del ministro, accanto a un saggio di Colbert, sia gelosamente conservata una copia dell'ultimo libro di Prodi con dedica personale dell'ex presidente del Consiglio.
“Tremonti – dice al Foglio Carlo Cerami, numero uno della sede milanese della Fondazione ItalianiEuropei (fondazione di cui D'Alema è presidente), e membro del consiglio d'amministrazione della Cariplo – si è posto sulla traiettoria del mutamento sociale e culturale epocale in atto, senza ingombranti bagagli ideologici del Novecento. Dimostra di conoscere il paese (il nord, il sud compresi) e i suoi provvedimenti, anche quando emergenziali, colgono nel segno: non producono tensioni e reazioni, se non marginali e impopolari (la spesa improduttiva). Ha capito la ricaduta economica virtuosa dell'infrastrutturazione, anche sociale, del paese. Dimostra di conoscere le regole del gioco a livello internazionale, a cominciare dall'Europa”.
In effetti, uno degli aspetti del tremontismo che oggi più affascina – e allo stesso tempo preoccupa – i democratici italiani riguarda un altro aspetto interessante: la recentissima conversione europea di cui è stato protagonista il ministro dell'Economia. Il senso di questa conversione, intesa soprattutto come una improvvisa e quasi ossessiva attenzione a tutti i rilievi, le indicazioni e i suggerimenti provenienti da Bruxelles, prova a spiegarcela il senatore del Pd Giorgio Tonini.
“Sì, il centrosinistra è stato a lungo l'espressione felice di una delle tecnocrazie più illuminate d'Europa. Chi era che diceva che i conti dovevano sempre tornare? Noi. Chi è che diceva che il bilancio non doveva sforare? Noi. Chi è che diceva che con l'euro non si doveva scherzare? Noi. Bene: spiace ammetterlo ma quel bagaglio culturale lo stiamo a poco a poco lasciando in eredità proprio a Tremonti. Non credo sia un mistero: mi sembra chiaro che il ministro dell'Economia stia cercando di accreditarsi come unico leader capace di dialogare davvero con i mondi che contano. Quasi come fosse il simbolo di una nuova tecnocrazia illuminata. O una sorta di commissario speciale del Bundestag che si preoccupa di portare più rigore in Italia. Diciamolo chiaramente: la novità politica degli ultimi anni è che Tremonti ci sta insidiando l'elemento europeo che era stato il cuore pulsante dell'Ulivo e del miglior prodismo”.
Ma nella sgaloppata tremontiana nelle praterie del mondo della sinistra italiana un passaggio decisivo è considerato anche il dialogo costruito dal ministro con il numero uno di Banca Intesa, Giovanni Bazoli. Un dialogo rafforzato dall'“approccio positivo” (sono parole di Bazoli) con cui il ministro ha gestito la crisi economica nel nostro paese e dall'“uso apprezzabile” di uno strumento come i Tremonti Bond: uno strumento questo di cui Intesa non si è servita ma che, secondo Bazoli, è stato utile a ridare in tempi rapidi fiducia ai mercati italiani. Una delle ragioni per cui poi Bazoli non ha mai fatto mistero di nutrire una certa benevolenza nei confronti di Tremonti riguarda l'atteggiamento avuto dal ministro in una serie di delicate partite giocate dal banchiere bresciano. E, in particolare, la sintonia tra Bazoli e Tremonti è stata notata pochi mesi fa, quando il cda della Cassa depositi e prestiti (d'intesa con il ministro del Tesoro, che della Cdp possiede il 70 per cento del pacchetto azionario) ha scelto come amministratore delegato un bazoliano doc come Giovanni Gorno Tempini: buon amico di Bazoli, bresciano come Bazoli nonché ex direttore generale di una importante finanziaria lombarda (la Mittel) il cui presidente è naturalmente Bazoli. In quell'occasione, Bazoli ebbe l'occasione di complimentarsi personalmente con Tremonti per la composizione del nuovo organigramma della Cassa depositi e il ministro dell'Economia ricambiò i complimenti del banchiere bresciano giusto pochi giorni dopo: quando il consiglio di gestione di Intesa scelse come direttore generale Marco Morelli e quando Tremonti decise di benedire pubblicamente la nomina bazoliana. E fu proprio in quelle ore che il numero uno di Intesa scelse queste parole per certificare la sua simpatia verso il ministro. “I rapporti tra la nostra banca e Giulio Tremonti – ammise Bazoli – sono di grande collaborazione”.
I cronisti più pettegoli notano poi che a indicare la progressiva vicinanza tra il mondo di Bazoli e quello di Tremonti vi è anche un altro particolare. Piccolo ma significativo. Alla fine del 2009, infatti, si è conclusa un'importante trattativa al termine della quale due famosi studi legali italiani hanno scelto di unire le forze per “valorizzare la complementarità delle rispettive specializzazioni”. Due studi che Bazoli e Tremonti conoscono molto bene. Il primo si chiama Vitali Romagnoli Piccardi, ed è lo studio tributario fondato da Giulio Tremonti, guidato oggi dal commercialista Enrico Vitali (quest'ultimo da poco nominato dallo stesso Tremonti coordinatore della strategica commissione Esteri-Tesoro per i fondi sovrani). Il secondo si chiama invece Pavesi Gitti Verzoni: è lo studio che ha curato gli interessi di IntesaSanpaolo nella vicenda Alitalia e il suo partner principale è il bresciano Gregorio Gitti, consociuto ai lettori del Corriere: consigliere di amministrazione di Hopa, fondatore del Pd nonché marito di Francesca Bazoli, figlia di Giovanni Bazoli. All'interno del panorama finanziario lombardo, un ruolo di mediazione importante lo sta giocando anche uno dei pochi democristiani d'Italia a non dispiacere per niente a Umberto Bossi. Parliamo di Giuseppe Guzzetti, presidente della Cariplo (la più grande tra le fondazioni bancarie italiane che raccoglie sotto il suo tetto tutte le casse di risparmio delle province lombarde) e considerato oggi, assieme a Bazoli, il punto di riferimento del vecchio mondo della finanza cattolica lombarda. E in Guzzetti (che è anche a capo dell'Associazione delle fondazioni e delle casse di risparmio italiane: l'Acri) Tremonti ha da tempo individuato un ruolo di prezioso stabilizzatore del sistema bancario italiano. Un ruolo che da un lato ha permesso al numero uno di Cariplo di introdurre il ministro Tremonti all'interno di quel mondo della finanza ambrosiana che fino a qualche anno fa considerava il ministro del Tesoro “un semplice commercialista al servizio del presidente del Consiglio” e che invece oggi vede nel ministro dell'Economia il miglior garante esistente della stabilità del sistema bancario italiano. Dall'altro ha reso possibile la nascita di uno stretto legame tra Tesoro e fondazioni: un legame che ha messo alcune fondazioni nelle condizioni di garantire a Tremonti una solida partecipazione (pari al 30 per cento del pacchetto azionario) nel nuovo grande polmone del credito italiano: la Cassa depositi e prestiti.
Ma tra tutti quei banchieri cresciuti in ambienti progressisti che hanno costruito nel tempo un rapporto di fiducia con Tremonti, oltre a Giovanni Bazoli, a Giuseppe Guzzetti e oltre all'ex amministratore delegato Alessandro Profumo (in questi giorni difeso generosamente dal ministro dell'Economia), vi è anche il numero uno del Monte dei Paschi di Siena: Giuseppe Mussari.
Per anni, Mps è stata una solida realtà finanziaria legata a doppio giro con il mondo della sinistra italiana. Dal punto di vista formale, una buona parte del board della banca senese è nominato da una fondazione i cui i vertici vengono ciclicamente scelti da amministratori locali (comune, provincia) che da sempre qui indossano le casacche del centrosinistra. Ma nonostante Mussari si sia formato all'interno di un percorso certamente più contiguo al mondo del centrosinistra che a quello del centrodestra, sarebbe un errore credere che il capo di Mps sia un manager appiattito sulle posizioni del Partito democratico. Tutt'altro. Risulta piuttosto che il numero uno di Mps – unica grande banca italiana, insieme con la banca popolare di Milano, ad aver scelto di utilizzare all'inizio dell'anno i famosi Tremonti bond – a differenza dei suoi predecessori non ha imbarazzo a riconoscere che il trasversalismo politico è parte del mestiere di un banchiere serio. Al punto che lo stesso Mussari ha riconosciuto più volte di aver costruito con Tremonti (anche grazie al ruolo di mediatore rivestito dal vicepresidente della sua banca, Francesco Gaetano Caltagirone) un rapporto di grande fiducia. Un rapporto che, tra le altre cose, ha contribuito a rafforzare la recente candidatura di Mussari alla guida dell'Associazione dei bancari italiani (nomina non osteggiata da Bazoli nonostante fino a pochi mesi fa a capo dell'Abi vi fosse proprio un bazoliano doc come Corrado Faissola). Solo coincidenze? Piccoli e irrilevanti dettagli? Sembrerebbe di no. Spiega ancora Nicola Rossi: “Il fatto che Mussari, Bazoli, Prodi, Guzzetti e tutti gli altri apprezzino sempre di più le idee del ministro dell'Economia deve far riflettere il Pd. Da decenni, si sa, esiste nel nostro paese uno spazio preciso in cui una parte importante della grande finanza italiana ha sempre cercato di avere come interlocutore privilegiato settori del centrosinistra. Il punto è che oggi dalle nostre parti non c'è più nessuno che sappia ricoprire quel ruolo e allo stesso tempo non c'è più nessuno che sappia parlare al paese di economia come fa Tremonti. Per questo, quando mi chiedono se sia così grave ammettere che a una buona parte del centrosinistra Giulio Tremonti piace, a me viene in mente una risposta semplice semplice: no, assolutamente no”.
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