Successione alla nordcoreana

Lanfranco Pace

Di lui si sa poco. E ancora meno si vede. Ha ventisei anni, forse ventisette, un nome senza volto, solo una foto in bianco e nero di quando era  bambino. Secondo un settimanale svizzero ha frequentato sotto falso nome fino al 1998 l'International School of Bern a Gümligen dove ha imparato inglese, francese e tedesco. I compagni di classe lo ricordano come un ragazzo timido, introverso, discreto sciatore. Il direttore dice che era modesto e molto amichevole con i figli dei diplomatici americani.

    Di lui si sa poco. E ancora meno si vede. Ha ventisei anni, forse ventisette, un nome senza volto, solo una foto in bianco e nero di quando era  bambino. Secondo un settimanale svizzero ha frequentato sotto falso nome fino al 1998 l'International School of Bern a Gümligen dove ha imparato inglese, francese e tedesco. I compagni di classe lo ricordano come un ragazzo timido, introverso, discreto sciatore. Il direttore dice che era modesto e molto amichevole con i figli dei diplomatici americani. I servizi del paese vicino e nemico, invece, dicono che sia alto uno e settantacinque, che pesi una novantina di chili e che non abbia mai passato la frontiera, altro che studi in Svizzera. Quello che è certo è che dal 2000 ha frequentato l'accademia militare fondata dal nonno. Un giapponese che è stato per anni cuoco a palazzo dice che è tale e quale al padre, stesso fisico, stesso carattere, stessa predisposizione al diabete, stesso amore per il lusso e per il potere. Non si sa se anche lui sia un fan di Mino Reitano, ma ama la musica pop, il basket americano e Michael Jordan. E' il figlio della terza moglie del padre e il più giovane dei tre maschi. Ma da quando il padre si è convinto che il secondogenito è una “femminuccia” e il primogenito un fesso per essersi fatto beccare con un passaporto falso all'aeroporto di Tokyo dove voleva visitare il parco Disneyland, ha solo lui nel cuore. E' lui il prediletto. Il predestinato.

    Lui è Kim Jong-un. Il padre è Kim Jong-il, “caro leader” della Repubblica popolare democratica di Corea e “uomo dotato di una straordinaria arte del comando, dirigente di straordinaria competenza politica, eminente comandante supremo”.  Il padre del padre è Kim Il Sung, “amato leader” che quella Repubblica fondò nel 1948 e della stessa è presidente per l'eternità: alla sua morte, sedici anni fa, fu deciso che nessuno sarebbe mai stato così degno da prenderne il posto. La carica e il titolo furono ritirati. Come si fa con il numero della maglia di un grande calciatore.
    Da qualche mese Kim Jong-un è un po' meno sconosciuto. Lo si vede su manifesti e pannelli murali dove viene indicato come “il giovane generale”. Nelle scuole i bambini cominciano a cantare canzoni che celebrano le spiccate attitudini del “brillante compagno”. Si dice che il padre stia preparando la successione da almeno un anno. Il “caro leader” non è in buona salute, il diabete, un infarto, forse anche un ictus, secondo altri addirittura un cancro al pancreas avrebbero minato il suo fisico da quasi settantenne e c'è chi dice che ormai sia un ostaggio nelle mani dei generali, che siano loro a dettare le condizioni. In ogni caso ha una certa fretta. Un anno fa mette il figlio alla testa della polizia segreta, poi il 28 maggio chiede alle missioni diplomatiche all'estero di giurargli piena fedeltà. Terzo atto, alla  fine di agosto sale in gran segreto sul suo treno personale e passa la Grande Muraglia. C'è anche il figlio, nascosto con un falso nome tra le persone del seguito . In una città della Cina orientale, in un hotel cinque stelle blindato, va all'incontro con il Dragone, il grande protettore. E' la seconda volta in un anno, un avvenimento.

    Il caro leader brinda con Hu Jintao, il Maotai va giù che è una meraviglia, scalda il cuore e gli animi. In un clima disteso, presenta l'erede, Hu Jintao benedice. L'ultimo atto che dovrebbe apporre il crisma dell'ufficialità, comincia oggi, a Pyongyang. Migliaia di funzionari e dirigenti periferici, migliaia di quadri militari sono da giorni nella capitale per la grande kermesse del Partito del lavoro, il partito al potere, prevista inizialmente per l'inizio del mese e rimandata forse a causa delle inondazioni che hanno flagellato il paese, forse per le condizioni di salute del capo. Non si sa bene se sia un congresso o una conferenza, ma il dettaglio è secondario: l'evento è comunque “storico”, in sessantasei anni, da quando fu fondato all'indomani della liberazione dall'occupante giapponese a oggi,  il Partito ha tenuto solo sei congressi. L'ultimo trenta anni fa, quando Kim Il Sung designò come suo successore Kim Jong il. L'attuale passaggio di testimone sembrerebbe però più problematico. Recentemente Jimmy Carter tornando da Pyongyang ha fatto sosta a Pechino. All'ex presidente americano Hu Jintao ha detto che la successione non sarebbe all'ordine del giorno e che in ogni caso l'erede non sarebbe il giovane figlio. Anche a Seul e a Tokyo c'è chi è scettico, preferisce fare congetture e aspettare. Vogliono vedere se Jong-un entrerà da subito nel santuario del potere, ai vertici del Partito e se avrà anche  incarichi militari di rilevo. O se avrà un tutore nella persona dello zio, Chang Suang-Taek, marito della sorella del caro leader e potente membro della Commissione nazionale di difesa. Insomma non è certo che uno così pompato e artificialmente programmato  possa reggere l'impatto effettivo con il potere, il giorno in cui morirà il padre. La vecchia nomenklatura non ama i giovani, i generali sono marpioni, i clan del partito famelici. Poi, il padre non avrà molto tempo per formarlo compiutamente, di certo non quanto il suo proprio padre ne ebbe con lui.

    Il passaggio dalla prima alla seconda generazione dei Kim fu accompagnato  e scandito dalla consuetudine quotidiana e dalla giustapposizione di immagine. Agli occhi di ventitré milioni di nordcoreani il grande leader e il caro leader sono stati per quasi quattordici anni una sola entità. Il popolo festeggia i loro compleanni, li vede che insieme  inaugurano fabbriche, visitano distaccamenti militari, sono fianco a fianco nelle cerimonie ufficiali. L'opera dell'uno si trasmette all'altro e nell'altro si completa. Il figlio rafforza l'ideologia ufficiale elaborata dal padre, la cosiddetta Juche, un impasto di stalinismo e confucianesimo che ricerca le sue radici nella storia e nella cultura nazionali. E' una sorta di elogio dell'autosufficienza, un po' fare di necessità virtù, riassunto in modo inarrivabile nell'emblema del paese: una centrale idroelettrica illuminata dai raggi di luce di una stella a cinque punte e fasci di riso che formano una cornice ovale delimitata in basso da un nastro rosso con la scritta “la Repubblica popolare e democratica di Corea”. Elettrificazione e cibo, senza i soviet.
    In quattordici anni insieme e poi per altri sedici il figlio da solo, sono riusciti a costruire pezzo a pezzo il mito. Non si sa quando sia nato il caro leader. Di certo il 16 febbraio, giorno proclamato festa nazionale. Ma nel 1941 o nel 1942? E' nato banalmente in un campo militare ai confini con la Siberia e ha trascorso i primi anni della sua vita in Unione sovietica con il nome di Yuri Irsenowich Kim come dicono gli storici occidentali? O è venuto alla luce sul monte Paektu, preannunciato dal volo di una rondine mentre in cielo compare una nuova stella e un doppio arcobaleno avvolge la montagna sacra alla Terra della calma mattutina? Non esiste mito che non porti con sé vaga indeterminazione.
    Il grande leader morto è onnipresente, una gigantesca statua troneggia al centro della piazza quadrata al cuore della capitale e del regime, il corpo imbalsamato è in una sala di marmo rosso scuro nel mausoleo che porta il suo nome.

    L'architettura sviluppata dal figlio è riuscita a rarefare lo spazio fino a riempirlo di vuoto, viali enormi, caseggiati enormi, grattacieli enormi in un delirio post moderno di non luoghi, appena toccati dalla presenza dell'uomo. La torre Juche, il simbolo dell'ideologia,  svetta per centosettantadue metri, qualcuno ci ha ritrovato sinistre analogie con la Babele di Bruegel. La nave “spia” americana Pueblo preda di guerra degli anni Sessanta è esposta e visitata come un'opera d'arte, una scultura a memoria del pericolo che viene da fuori e della superiorità del paese che si è liberato dal giogo giapponese e ha sventato i piani americani. Il tempo si è fermato a Pyongyang. Oggi come ieri. Fino a diventare un mistero incomprensibile e per questo terribile. Che non si riesce a spiegare né con la presenza incresciosa di tante baionette né con la paura di finire nei campi di detenzione al confine con la Cina, né con la polizia segreta, né con la persecuzione contro i cristiani, né con il martellamento ideologico. Un giornalista che la conosce bene giura che se si tenessero libere elezioni, il caro leader le vincerebbe. Nell'era della globalizzazione ventitré milioni di persone che si dice siano in gran parte alfabetizzate stanno come sospese nello spazio e nel tempo. Senza Internet, senza televisione, quando comprano una radio la trovano già sintonizzata sul canale di stato. Non hanno giornali che non siano quelli scritti da giornalisti formati e selezionati secondo i canoni del piano nazionale. Non sanno, non vedono, e nemmeno lo vogliono, non si fanno domande, accettano che l'inizio e la fine della loro vita si svolga in un territorio più piccolo dell'Italia. La sola  salvezza  sarebbe la fuga ma non scappano. Qualcuno ci ha provato ed è finito nei campi. Qualcun altro c'è riuscito e ha visto il mondo dall'altra parte: pare ci siano voluti anni per fargli superare lo choc. Sembrano come legati al leader da una sorta di dipendenza, come in una realtà destrutturata e ricostruita: quando non c'è più nessun tipo di conflitto che possa svelare il vero e il falso, tutto sfuma in una gelatinosa verosimiglianza. E Kim Jong il è bravo, maledettamente bravo, “un pragmatico intelligente” secondo molti analisti, che sa porsi come sola sintesi possibile fra i vari poteri. Così la Corea del nord è ancora quel cono d'ombra nel mappamondo, la landa oscura senza luci né vita notturna che vide dall'alto un giornalista inglese e che il confronto con le luci sfavillanti, compiaciute del capitalismo trionfante sotto il 38° parallelo faceva come sprofondare nella notte dei tempi.

    “Quando sentii: viva Kim Il Sung!”
    Doveva essere più o meno una quarantina d'anni fa quando sentii il primo inneggiare a Kim Il Sung ed era qui, in occidente. Uno dei tanti sabati antimperialisti che allietavano Roma al grido di “viva Marx viva Lenin viva Mao-Tse-Tung”, una voce flebile sgrana il suo nome. Mi giro e vedo un giovane che sembra un cliché del tempo, magro assai, barbetta rada ma incolta, occhiali tondi di metallo come quelli di Gramsci, il volto compreso e i modi affettati di un primo della classe. Che vuoi, mi fa, Mao non mi piace, non mi fido di uno che mette il popolo contro il partito e una parte del partito contro l'altra, che pensa si debba far sempre fuoco sul quartiere generale, uno così può fare solo casino. Il compagno Kim Il Sung invece non divide ma unisce, guida con attenzione il suo popolo, gli dà stabilità e certezze: senza stabilità né certezze non si costruisce nulla.

    Parole profetiche, quelle del ragazzo. Di Mao non resta nulla, la Cina per farsi grande ha dovuto metabolizzare il passato e cancellare fin nel ricordo la rivoluzione culturale. I Kim invece sono ancora lì. Di stabilità e certezze al paese, ne hanno date e come. Due generazioni al potere, sessantadue anni finora, una durata senza eguali al mondo. Per questo sembra difficile credere che non ce ne sarà una terza, che dopo l'orchidea kimilsungia e la begonia kimjongilia non ci sarà un altro fiore dedicato all'erede. E che non dovremo convivere per lungo tempo con Kim Jong-un, brillante compagno, giovane generale in attesa di trovare anche lui un aggettivo prima della parola leader.

    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.