Analisi di Alessandro Giuli

Fini scelga se fare un partito come tanti o competere con il Pdl

Alessandro Giuli

Il partito di Gianfranco Fini nasce con un punto di vantaggio nitido: non è più un gruppo parlamentare esule in patria (il Pdl) e può tornare a essere – o quanto meno ad apparire – una destra delle idee con domicilio nuovo e riconoscibile. Il solo fatto di lasciarsi alle spalle il nomadismo di Futuro e libertà per assumere la condizione aurorale di un partito innesca un meccanismo competitivo con il Pdl.

Leggi Abbiamo un partito di Salvatore Merlo - Leggi Che fare ora del partito di Fini di Giuliano Ferrara

    Il partito di Gianfranco Fini nasce con un punto di vantaggio nitido: non è più un gruppo parlamentare esule in patria (il Pdl) e può tornare a essere – o quanto meno ad apparire – una destra delle idee con domicilio nuovo e riconoscibile. Il solo fatto di lasciarsi alle spalle il nomadismo di Futuro e libertà per assumere la condizione aurorale di un partito innesca un meccanismo competitivo con il Pdl. A patto che la nuova formazione non si faccia strumento gregario di un centro immaginifico. A patto che Fini segua lo schema di successione repubblicana tra Chirac e Sarkozy invece di vagolare dietro ai fallimenti di Bayrou o di Kadima (non a caso modelli intermittenti del neocentrismo italiano). La sfida dell'ex cofondatore si colloca a destra, ha avuto un'allure di freschezza fintantoché si è condensata nell'impressione che, se non era contendibile la leadership del Pdl, doveva esserlo l'egemonia culturale. Poi è sopraggiunta la vicenda Montecarlo, sotto la quale la ragion dialettica è stata soffocata nel tatticismo e nella coazione a sopravvivere (di qui la distinzione tra il Cav. premier, condannato alla fiducia, e il Cav. autocrate del Pdl moralmente censurato).

    Ora Fini e i suoi si lanciano verso una posta altissima:
    “Convincere gli elettori che il destino del centrodestra non coincide con quello del berlusconismo”, come suggerisce Pierluigi Battista del Corriere della Sera. Posto appunto che la metà del lavoro ingrato l'abbia fatta Berlusconi stesso, “dando retta a consiglieri lividi e rancorosi nella disputa personale con Fini, e offrendo l'immagine declinante del proprio ciclo politico come quello di un ancien régime”. “Nella giungla d'asfalto del post berlusconismo – è sempre Battista a ragionare – si apriranno scontri cruenti tra fazioni e gruppi d'interessi diversi. Il partito di Fini avrà successo se si farà polo di attrazione culturale di un'altra destra possibile; e se non apparirà come la semplice proiezione dei suoi gruppi parlamentari candidati al 3-4 per cento dei consensi in un'area moderata di opposizione già abbastanza affollata”. Fini è chiamato a elevare la soglia di rischio, accettando per esempio una solitudine paragonabile a quella (superata brillantemente) della Lega di Umberto Bossi nella transizione del 1995-'96. Magari nobilitando questa vertiginosa autarchia con la proposta di rendere costituente la legislatura che verrà: un modo per mettere al centro del discorso pubblico la necessità di una concordia nazionale senza necessariamente sacrificare il bipolarismo. Alessandro Campi, scienziato della politica e teorico del “finismo”, percepisce l'importanza di questa “fase effervescente” ma indica il rischio di transitare dall'evanescenza alla sclerosi: “Dalla pattuglia di guastatori di Palazzo a un nuovo Msi post moderno”. Contravveleno? “Un partito-movimento simile a un arcipelago, strutture aperte, rivolte all'elettorato d'opinione di centrodestra e in grado di dialogare con realtà più distanti”.

    Il partito di Fini è anche tenuto a smentire
    le critiche di chi, come il politologo Marco Tarchi, coglie le linee di tendenza del quadro politico – “il presidente della Camera va incontro all'incoronazione da parte del mondo progressista e dell'establishment alla ricerca di un interlocutore di centrodestra capace di offrire un punto di equilibrio al post berlusconismo” – ma giudica con severità l'essenza della destra finiana. Che per Tarchi è nulla più del “banale riempimento dei vuoti lasciati da Berlusconi” e del “pervicace tentativo di accreditarsi nel paesaggio del politicamente corretto, fatta eccezione per l'occidentalismo atlantista e il culto sfrenato della nazione”. Ergo: “Puro tatticismo; e dal fiato corto, a giudicare da come Sarkozy è uscito dal pantheon finiano a causa della sua posizione sui rom”. I finiani non concorderanno, ma di certo sanno  che gioverebbe anzitutto alla solidità di Fini disputare contro la sinistra con lessico e proposte di destra europea. E che non sarà sufficiente presentarsi al mercato delle idee soltanto come i più affidabili esecutori testamentari del berlusconismo.

     

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