Mentre Fini lancia il suo partito il Cav. teme che anche la diga del Senato possa cedere

Salvatore Merlo

Da qualche giorno circola un elenco che non rende tranquillo il premier. Nell'entourage raccontano che domenica, alla festa del Pdl, a Milano, a un certo punto il Cavaliere avrebbe preferito non prendere la parola e non solo per un paventato allarme sicurezza. Chissà. Molte sono le incertezze: il timore di un ribaltone per modificare la legge elettorale, la leggenda metropolitana di un accordo tra il presidente della Camera e le procure (avvalorata dalle parole di un magistrato “informato”, in occasione d'una recente visita segreta a Berlusconi), i riti costituzionali del Quirinale, gli attacchi “dei giornaloni”. Psicosi o realtà?

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    Durante la riunione di Futuro e Libertà per l'inaugurazione della sede che sarà quartier generale dei finiani, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha detto: “Far nascere un nuovo soggetto politico è ineludibile. Ci accingiamo non a fare An in piccolo, ma un Pdl in grande. Non voglio più commettere gli errori che ho fatto con An. Se partiamo con la logica dei colonnelli e dei soldati, rischiamo di replicare quegli errori. Quella di oggi è una riunione tra le più importanti per avviare il percorso di un partito che viene concepito oggi ma nascerà più avanti. Il comitato promotore siete tutti voi. Però d'ora in poi parliamo di politica: non voglio più gelosie e personalismi, niente falchi e colombe. La barca è di tutti e tutti dobbiamo remare nella stessa direzione”.

    Perdere la maggioranza al Senato. Inseguito da leggende di Palazzo e da ossessioni pazzotiche che i rinfocolatori gli suggeriscono ogniqualvolta Gianni Letta sembra approssimarsi alla tregua impossibile con Gianfranco Fini, Silvio Berlusconi è stato messo in allarme: esiste un'area di quindici senatori del Pdl di incerta fedeltà. In caso di crisi di governo, Palazzo Madama potrebbe non essere più un'efficace polizza antiribaltone? Già un anno fa, il diplomatico finiano Andrea Augello aveva avvertito il Cavaliere un pomeriggio a Palazzo Grazioli: “Presidente, i finiani in natura non esistono. Ma il Pdl è attraversato da intensi rivoli di malumore. Oggi i finiani sono dieci, domani potrebbero diventare venti”.

    Da qualche giorno circola un elenco che non rende tranquillo il premier. Nell'entourage raccontano che domenica, alla festa del Pdl, a Milano, a un certo punto il Cavaliere avrebbe preferito non prendere la parola e non solo per un paventato allarme sicurezza. Chissà. Molte sono le incertezze: il timore di un ribaltone per modificare la legge elettorale, la leggenda metropolitana di un accordo tra il presidente della Camera e le procure (avvalorata dalle parole di un magistrato “informato”, in occasione d'una recente visita segreta a Berlusconi), i riti costituzionali del Quirinale, gli attacchi “dei giornaloni”. Psicosi o realtà? Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo al Senato, smentisce: “Il gruppo è più che solido” e gli stessi sospettati profondono rassicurazioni. Eppure c'è chi descrive una complessa ipotesi di complotto che gli ambienti finiani (per ovvie ragioni) tendono ad avvalorare. Beppe Pisanu è un osservato e con lui un gruppo di quattordici senatori, il nucleo dei più scontenti cui potrebbero aggiungersi altri, quelli che, in caso di crisi, non avrebbero nulla da perdere nel sostenere soluzioni alternative al voto. I nervosi non sono pochi. Numerosi senatori del nord (Piemonte, Veneto, Lombardia) che rischiano di non essere rieletti; i sardi; una parte dei siciliani vittime della lite isolana; almeno due toscani, alcuni pugliesi, due campani, Esteban Caselli del gruppo estero, il ribelle ligure Enrico Musso. Esiste un elenco e gli equilibri, senza Fini, potrebbero rivelarsi fragili: 164 a 152 con circa quindici voti pencolanti.

    Circola un elenco di irrequieti (che smentiscono l'irrequietezza): Amato, Baldini, Izzo, Massida, Sanciu, Caselli, Giovanardi, Saro, Sarro, Lenna, Musso, Carrara, Santini, Pisanu. Ma l'ipotesi di un governo che modifichi la legge elettorale, scenario minacciato ieri da Italo Bocchino, si infrange su una obiezione che fa sorridere i dirigenti del Pdl. “Come faranno Fini, Casini e Bersani a scrivere una legge elettorale se, tanto per cominciare, nel Pd non sono d'accordo sulla formula?”. Obiezione non da poco. E' vero che l'ex leader di An, al di là della professata fede bipolarista, potrebbe anche piegarsi a una legge di tipo proporzionale. Ed è vero che Fini e Bersani hanno cominciato a dialogare. Ma tutte le trattative rischiano di rovinare nel fossato che separa Bersani dai leader della minoranza Pd. Veltroni lo ha già detto: “Le preferenze mai”. Non a caso Roberto Maroni ha definito questa santa alleanza “un periodo ipotetico dell'impossibilità”.

    Ma qualora accadesse l'imponderabile?
    Se i cospiratori trovassero l'accordo impossibile? Il Senato è la ridotta di Berlusconi, il fortino da blindare. Il rischio di ribellioni improvvise nelle file del Pdl va superato rafforzando ulteriormente i numeri del centrodestra. Come? Con quattro nuovi sottosegretari da raccogliere tutti al Senato; con un'operazione “serenità” da lanciare nel Pdl attraversato da malumori locali; e poi con alcune, mirate trattative su esponenti del gruppo misto, dell'Api, dell'Udc, della Union Valdôtaine, della Svp e del Pd. Tutto per limitare lo spazio di azione del capo dello stato, per fugare il pericolo di un governo alternativo e sgradito. I negoziati segreti puntano a portare la maggioranza da 164 ad almeno 172 senatori. Per ora vengono dati come certi i voti di Dorina Bianchi (Udc), Riccardo Villari (misto), Antonio Fosson (Uv) e Totò Cuffaro. Secondo voci di Palazzo anche due senatori rutelliani (Claudio Gustavino e Franco Bruno) e due del Pd (Maurizio Fistarol e Claudio Molinari) sarebbero stati avvicinati. Chissà. Ma al di là di queste manovre, il primo obiettivo berlusconiano resta quello di sedare i cattivi umori pidiellini che dal territorio si estendono pericolosamente sino a Palazzo Madama. “L'operazione democrazia” (tessere e congressi) è la soluzione sottoposta al Cav. riluttante.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.