Banchieri coltelli
Si stimano, talvolta s'intendono, nei prossimi giorni con tutta probabilità s'incontreranno, ma tra i due ultimamente pensieri, parole e opere non collimano, anzi divergono sempre più. Stiamo parlando di Cesare Geronzi e Fabrizio Palenzona, due pesi massimi del sistema banco-finanziario italiano. La cronaca parla chiaro.
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Si stimano, talvolta s'intendono, nei prossimi giorni con tutta probabilità s'incontreranno, ma tra i due ultimamente pensieri, parole e opere non collimano, anzi divergono sempre più. Stiamo parlando di Cesare Geronzi e Fabrizio Palenzona, due pesi massimi del sistema banco-finanziario italiano. La cronaca, interpretata con qualche malizia, parla chiaro. La defenestrazione di Alessandro Profumo dal vertice di Unicredit li ha separati. Geronzi non ha condiviso i modi bruschi di un rivolgimento nella prima banca italiana dalle premesse e dagli esiti ancora incerti. Se non si può classificare il presidente delle Generali tra i difensori di Profumo, non si può neppure inserirlo nella schiera di coloro che volevano disarcionarlo dall'istituto di Piazza Cordusio. Differente il ruolo di Palenzona.
Il vicepresidente di Unicredit era considerato un fattore di stabilizzazione per Profumo: gli garantiva la pace con le Fondazioni e una rete di relazioni anche politiche. Ma quando gli equilibri erano ormai mutati – con tedeschi, fondazioni venete e soci privati (come Luigi Maramotti e Carlo Pesenti) decisi a sostituire l'ad – il vice di Profumo ha subito iniziato a lavorare per il post Profumo. Insomma, se è errato considerarlo un vincitore della partita, è anche sbagliato considerarlo uno sconfitto. Certo, in una prima fase fra i suoi candidati preferiti alla successione di Profumo non c'era Federico Ghizzoni: le cronache giornalistiche hanno raccontato degli incontri con Andrea Orcel di Merrill Lynch e una lieve preferenza per l'altro vice, Roberto Nicastro. Ma dopo aver superato una prima fase di impasse, con le fondazioni venete soddisfatte per aver sfiduciato Profumo, Palenzona – come uomo forte proprio delle fondazioni, per la sua vicinanza in particolare alla torinese Crt – è divenuto l'uomo potenzialmente sempre più influente per il futuro di Unicredit.
Però, proprio sulle vincitrici morali della partita Unicredit – le fondazioni con robuste spinte leghiste – si appuntano le apprensioni di Geronzi. La gestione disordinata del caso Unicredit, con i problemi di governance tuttora irrisolti, sono imputati anche a uno scomposto attivismo degli enti creditizi, paragonati da Geronzi alle peggiori Camere di commercio in una recente intervista, in cui ha criticato anche le bramosie di potere bancario del Carroccio di Umberto Bossi. Ben diversi i toni, concilianti, che usa di solito Palenzona: non essendo un leghista organico, da navigato ex politico democristiano del nord conosce e interpreta umori e aspettative della base veneta, prima dc e ora in gran parte leghista.
Per questo gli osservatori più attenti alle relazioni di potere notano: i pensieri e le parole di Geronzi, che auspica una riflessione sistemica su ruolo e obiettivi delle fondazioni, celano un intento polemico, frutto di un rapporto conflittuale con Palenzona. Non per il trasversalismo sempre più pervasivo del vicepresidente di Unicredit: alle cariche di spicco nelle associazioni degli industriali e alla presenza in diverse società si aggiungono rapporti sempre solidi con il mondo vaticano. Ieri Palenzona, insieme con altri banchieri come Ettore Gotti Tedeschi (Ior), Giuseppe Mussari (Mps) e Carlo Fratta Pasini (Banco Popolare) ha partecipato a un seminario sull'enciclica Caritas in Veritate organizzato a porte chiuse dall'Associazione internazionale carità politica a San Callisto, residenza vaticana di cardinali.
Ma non è sulla concorrenza di relazioni con Oltretevere, dove Geronzi ha radici storiche e sempre fertili di rapporti, che si giocano gli antagonismi tra i due. Il progetto di Geronzi per trasformare Generali nel nuovo centro propulsore del sistema finanziario italiano – sostituendo il ruolo centrale di Piazzetta Cuccia – prevede un potere meno influente di Mediobanca, che adesso ha il 13,2 per cento del Leone. Per varie ragioni, a Trieste ritengono che il consolidato legame di Piazzetta Cuccia con le Generali è destinato a ridimensionarsi a favore di un azionariato del gruppo assicurativo più frastagliato. Insomma, Mediobanca non sarà più il dominus di Generali. Non tutti nella filiera che parte da Unicredit, passa da Mediobanca (dove Unicredit è il primo azionista del patto di sindacato che controlla la banca d'affari) e giunge a Generali auspica questa prospettiva. Certo nessuno, almeno ufficialmente, sollecita una fusione tra Unicredit e Mediobanca, che contrasterebbe con i disegni geronziani. Però nessuno, a partire da Palenzona, coltiva l'idea di un allentamento della filiera Unicredit-Mediobanca-Generali. Anzi, l'idea profumiana di una partecipazione pressoché dormiente in Mediobanca con l'uscita di Profumo da Unicredit potrà essere superata, magari per volere di Palenzona. Non perché da esecutore testamentario di Vincenzo Maranghi abbia a cuore i destini di Piazzetta Cuccia; né perché, come si vocifera da tempo, abbia l'ambizione di sedere in futuro ai piani alti di Mediobanca. Ma perché non tutti intravvedono una prospettiva solitaria per Generali, a partire dall'amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel. Saranno decisive anche le decisioni e le idee di personaggi del calibro e dell'influenza, sia in Mediobanca sia in Generali, di Vincent Bolloré e Francesco Gaetano Caltagirone: non è scontato che i due sposino fin da ora l'una o l'altra impostazione.
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