Cinquanta arresti, tra i quali molti agenti di polizia
Perché il golpe sventato in Ecuador potrebbe non essere un golpe
Qualche giorno fa in Ecuador è stata approvata una legge sul servizio pubblico che concede alcuni benefici agli agenti di polizia; Il presidente Rafael Correa, economista di sinistra amico di Chávez, che qualcuno ha definito “il Chicago Boy del socialismo del XXI secolo”, ha posto però il veto ai benefici; automaticamente, i poliziotti sono entrati in sciopero.
Qualche giorno fa in Ecuador è stata approvata una legge sul servizio pubblico che concede alcuni benefici agli agenti di polizia; Il presidente Rafael Correa, economista di sinistra amico di Chávez, che qualcuno ha definito “il Chicago Boy del socialismo del XXI secolo”, ha posto però il veto ai benefici; automaticamente, i poliziotti sono entrati in sciopero; Correa allora ha affrontato gli scioperanti in una caserma, e i poliziotti l'hanno applaudito, pensando ad una mediazione. Ma il presidente, invece li ha aggrediti e sfidati: "Ammazzatemi qua”. I poliziotti, di tutta risposta, gli hanno tirano una bomba lacrimogena. Correa, a quel punto, è finito in un ospedale: il nosocomio è stato assediato dai manifestanti per nove ore. Per tirarlo fuori sono dovuti intervenire i militari delle forze speciali, che hanno affrontato i manifestanti in una sparatoria che ha fatto un morto e almeno ventisette feriti.
Tentativo di colpo di stato in Ecuador? Rafael Correa dice di sì. E dice anche che dietro al complotto potrebbe esserci l'opposizione. Lo stesso Hugo Chávez e Evo Morales, suoi stretti alleati, chiamano in causa addirittura gli Stati Uniti.
In una riunione d'emergenza dell'Unasur, anche i presidenti latinoamericani moderati hanno stretto le fila in difesa della legittimità istituzionale, il cileno Piñera ha chiamato alla sorveglianza, il colombiano Santos e il peruviano Alan García hanno addirittura chiuso i confini, Stati Uniti e Osa si sono pronunciati nello stesso senso. In sé, però, la semplice meccanica della vicenda non fa pensare a un qualcosa di particolarmente preparato.
Un episodio gravissimo, indubbiamente. Ma non è molto diverso da quel che accadrebbe presumibilmente a Marchionne se si presentasse a un'assemblea di operai a Termini Imerese, a spiegare il perché ha deciso di chiudere la fabbrica: un'esplosione di ira, che non ha bisogno di particolari dietrologie complottiste per essere spiegata.
Ieri intanto circa cinquanta persone sono state arrestate a Quito perché coinvolte nel fallito "colpo di stato". La procura ecuadoriana ha spiegato che gran parte degli arrestati sono figure istituzionali. Il ministro dell'Interno, Gustavo Jalkh, ha detto che si è trattato di "arresti preventivi" di 24 ore, in attesa di "altre misure". Tra gli arrestati ci sarebbero 46 poliziotti.
Qualcuno sostiene però che in Ecuador il rischio vero è un altro: la “morte incrociata”. Il problema è che al partito di Correa mancano cinque voti all'Assemblea Nazionale per avere la maggioranza, e regolarmente, per far passare le leggi, viene concordato con l'opposizione qualche emendamento cui poi il presidente pone il veto, in modo da riportare la legge alla proposta governativa originale. Uno scenario che si è ripetuto anche per i benefici a favore dei poliziotti. Ma sono parecchie le proposte di legge che negli ultimi quattro mesi sono invece rimaste bloccate: da quella sulle comunicazioni al codice sul riordinamento territoriale, alla legge sulle acque, a quella sugli idrocarburi.
Poiché la popolarità personale del presidente resta piuttosto alta, Correa potrebbe allora invocare il rischio di golpe per ricorrere alla procedura che lui stesso ha fatto inserire nella Costituzione del 2008, e che si chiama appunto “morte incrociata” perché contempla la decadenza sia del presidente che dell'Assemblea Nazionale. Con la differenza che mentre l'Assemblea è dissolta subito, il presidente resta per l'ordinaria amministrazione fino alle nuove elezioni, e nel frattempo può governare e far passare le leggi contestate, a colpi di decretazione d'urgenza.
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