Chi è quell'essere costretto a essere tutto per non diventare nulla?

Portentosa isteria

Umberto Silva

Sta arrivando l'inverno del nostro scontento? Perché mai? Domenica il Cavaliere era pimpante sul palco, parlava di ritorno al '94, vale a dire al secolo scorso, accusava a destra e a manca, rivendicava successi e i suoi fedeli applaudivano entusiasti. Tutto bene? No, tutti sanno, il Cav. per primo, che la realtà è ben altra. Colui che nel suo slancio vitale era uso trascinare con sé l'anima del popolo, deve ora fare i conti con voti ballerini e infidi.

    Sta arrivando l'inverno del nostro scontento? Perché mai? Domenica il Cavaliere era pimpante sul palco, parlava di ritorno al '94, vale a dire al secolo scorso, accusava a destra e a manca, rivendicava successi e i suoi fedeli applaudivano entusiasti. Tutto bene? No, tutti sanno, il Cav. per primo, che la realtà è ben altra. Colui che nel suo slancio vitale era uso trascinare con sé l'anima del popolo, deve ora fare i conti con voti ballerini e infidi, attento a pugnalate alle spalle; da guerriero è ridotto a ragioniere e amministratore di un patrimonio politico sempre più instabile. Brutta storia. La guerra il Cavaliere sa farla perché gli piace farla; costringere la sua mercuriale natura a diventare altra significa incattivirla. Captivus, prigioniero delle buone maniere e delle dissimulazioni oneste che la situazione politica gl'impone, il Cav. s'aggira per i saloni delle sue fastose residenze e picchia la testa contro il muro. Quando sgattaiola via dai suoi saggi guardiani, è talmente euforico che combina pasticci o si esibisce in anacronistici comizi in vista di un'elezione di cui percepisce l'inganno. Bossi, che ambisce succedergli, lo sprona a scendere in campo e prima o poi il Cavaliere – pur conscio che anche la vittoria sarà una sconfitta – cederà alla nostalgia del mulinar di spade. Intanto ogni suo gesto, ogni sua parola, sono portate davanti agli altari del perbenismo come prova che l'Anticristo è sceso su questa terra; e in un certo senso qui c'è del vero: sono lieto di potere una volta ancora cantare del Cavaliere la folle audacia, la disperata solitudine, la perenne sfida al buonsenso, il suo desiderio sempre più evidente di entrare nel mito.

    Ci entrerà anche come benefattore della nazione? Ma sì, ma sì, ha mostrato di che fatua arroganza grondava e gronda l'Italia della menzogna eretta a sistema politico e economico, ci ha fatto ridere di tante cose che prima ci facevano piangere, ha combattuto lo spirito di gravità fin nei summit tra i potenti della terra. Ma per governare davvero non basta il consenso del popolo – quello il Cavaliere ancora l'ha –, occorre il consenso degli dei e quello non è mai davvero esistito, ed ora meno che mai. Sono sedici anni che Berlusconi è impiccato a un nodo fatale d'interessi che per lui sono amorosamente intrecciati ma a tanti altri paiono un nido di serpenti, un incesto originale che gli dei hanno propiziato solo per… beffardi maledirlo. Sono fatti così gli dei olimpici che giocano con la fortuna e la malasorte degli umani, non c'è da fidarsi. Il Cavaliere è la risposta all'enigma che la Sfinge così ha formulato: “Chi è quell'essere costretto a essere tutto per non diventare nulla?”. Senza tregua le togate Erinni lo inseguono rinfacciandogli la colpa originaria, lui riesce a sfuggirle anche senza lo scudo di Perseo, ma non ci sarà tempio di Apollo ove trovare rifugio, anche perché differentemente da Oreste mai il Cavaliere chiederà perdono. Piuttosto Bosworth Field, l'ultima battaglia, il mio regno per un cavallo, e viceversa, ma forse di questi tempi lo divertirebbe un cammello lanciato nei libici deserti.

    Al Cavaliere non si addice l'infelicità. C'è chi della propria infelicità riesce persino a essere felice, lui no, addirittura si sfigura come a dire: “Guardate, questo infelice non sono io, è un maleficio, aiutatemi a tornare quel che davvero sono”. Ma a nessuno interessa granché; come se tutti all'improvviso si fossero accorti di quanto gli dei sono avversi all'eroe, avidi o rassegnati ne attendono il crollo. Che non arriva. Sono tutti legittimi in Italia gli impedimenti, da una parte e dall'altra, sicché i veti incrociati contribuiscono a tener in piedi il simulacro. Suscitando l'obbrobrio generale il Cav. nel frattempo ha chiesto una commissione d'inchiesta per i pm, che accusa di associazione a delinquere, gesto che parrebbe l'estremo stratagemma di Richard o Edmund o Macbeth. Sennonché nella follia del Cavaliere c'è un'amletica logica, poiché niente come il sangue pensa e ricorda e il sangue del proprio sangue è uno spettro che chiede vendetta. C'è uno scoppio di dolente rabbia tanto più esacerbata quanto più trattenuta: l'inchiesta il premier avrebbe dovuto chiederla all'epoca in cui Tartaglia gli spaccò la faccia. Lì, in quel momento di collettivo sbandamento anche di chi gli stava più vicino e minimizzò, sta l'origine dell'attuale oltranza del Cavaliere al ricordo del compiaciuto plauso con cui fu accolta l'assoluzione del suo aggressore, “totalmente incapace d'intendere e di volere” solo per lo stretto tempo necessario all'aggressione, provocata dal “contenuto del discorso” del Cav. che non disse quel che ai suoi nemici sarebbe piaciuto sentire. Lì il Cavaliere capì che gli dei ridevano di lui, che lo offrivano in pasto, ma, come spesso gli accade, abbozzò, indulgente con i suoi assalitori per esserlo con se stesso.

    Di cosa si sente colpevole? Del peccato dei peccati, quello di Lucifero, l'angelo che voleva essere Dio. Le bestemmie del Cav. che tanto feriscono la sensibilità cattolica ed ebraica sono inani torsioni di colui che non tollera che vi sia una Legge più forte del destino ch'egli stesso si assegna. Ridicolo rimbrottarlo come un bambino, fargli la morale, il Cavaliere si è sempre posto al di là del bene e del male: non è ateo, tutt'altro, Dio esiste eccome, tanto è vero che con Lui il Cav. è in perenne competizione. E' il figlio che pretende di farsi da sé ma che in cuor suo, nelle segrete più profonde del suo cuore, là dove neppure ha accesso, non diversamente da Adamo nella cappella Sistina anela alla mano del Padre, se non una carezza almeno una sberla, e la bestemmia è il modo per chiedergliela, una mascherata, sgangherata preghiera. Le ingiuriose suppliche di Don Giovanni e di Lord Byron impallidiscono al confronto di un capo del governo italiano che lascia un tavolo di ministri e fuori di sé esce dal palazzo per raccontare a un gruppo di passanti una barzelletta che sfida l'ira di Jahvé. Portentosa isteria che sopra le macerie di riforme e leggine, programmi e appelli, resterà nel mito.