“Tiananmen 2.0”, viaggio nell'arcipelago cinese dei dissidenti
Se nei motori di ricerca su Internet a Pechino si digitano le parole “Nobel” e “Xiaobo”, è come se nulla fosse successo tre giorni fa a Oslo, dove i giurati norvegesi hanno assegnato il premio Nobel per la Pace al più celebre attivista dei diritti umani cinese, il professor Liu Xiaobo, che entra ed esce dai campi di “rieducazione” da oltre vent'anni. Ma mentre Xiaobo è costretto a lunghi periodi di isolamento, mangia solo riso e passa il tempo a leggere Paul Celan e Franz Kafka, il sottosuolo invisibile del regime cinese è gonfio di altri paladini dei diritti umani.
Se nei motori di ricerca su Internet a Pechino si digitano le parole “Nobel” e “Xiaobo”, è come se nulla fosse successo tre giorni fa a Oslo, dove i giurati norvegesi hanno assegnato il premio Nobel per la Pace al più celebre attivista dei diritti umani cinese, il professor Liu Xiaobo, che entra ed esce dai campi di “rieducazione” da oltre vent'anni. Ma mentre Xiaobo è costretto a lunghi periodi di isolamento, mangia solo riso e passa il tempo a leggere Paul Celan e Franz Kafka, il sottosuolo invisibile del regime cinese è gonfio di altri paladini dei diritti umani. Xiaobo è infatti la punta più nota di un “arcipelago laogai” di attivisti, avvocati, intellettuali, accademici, ex funzionari di partito che cercano di cambiare la Cina dal basso. Chiedono democrazia e diritti. La denuncia del laogai la si deve a Harry Wu, il più noto dei dissidenti cinesi fuggiti all'estero e che nel 1991 decise di rischiare la vita rientrando in Cina per filmare i campi di lavoro comunisti per il programma della Cbs “60 minutes”. Wu voleva filmare, documentare, testimoniare, dopo averci trascorso diciannove anni in quei lager comunisti fra torture, delazioni e vessazioni. Non cercava vendetta, sebbene il Partito comunista gli avesse torturato il padre e spinto al suicidio la madre. E' anche grazie al suo lavoro di custode del dolore della Cina che uccide, se il dipartimento di stato americano è riuscito a fornire la stima di sei-otto milioni di dissidenti politici detenuti per la loro “rieducazione” in quelli che il regime chiama laogai, il “riscatto attraverso il lavoro”, la versione cinese dei campi di lavoro e morte sovietici. Grazie a Harry Wu dei laogai si è cominciato a parlare nel mondo e la parola ha fatto il suo ingresso nei dizionari delle principali lingue del pianeta, così come grazie ad Aleksandr Solzenicyn la parola “gulag” è diventata di uso comune a livello internazionale.
Alcuni dissidenti rimasti a battersi all'interno del regime cinese hanno capitolato. L'avvocato Gao Zhisheng, scomparso per mesi in un campo di concentramento di Pechino, ha annunciato che avrebbe rinunciato all'attivismo nella speranza di riunirsi alla famiglia. Non sopporta più il peso della solitudine, della mancanza degli affetti più elementari, lui che ha vissuto il carcere, la persecuzione, la tortura. Ex minatore dello Shanxi, Zhisheng è stato un soldato e un cristiano protestante. Iscritto al Partito comunista, Gao si è laureato in legge studiando di notte. Nel 2001 il ministero della Giustizia lo ha inserito nella lista dei dieci migliori avvocati della Cina. Era avviato a una carriera di successo. Ma Zhisheng ha scelto di difendere persone prive di assistenza medica, contadini derubati della terra, cristiani, migranti sfruttati. Ai poveri non chiedeva compenso. Il suo destino si è compiuto nel 2004, quando ha deciso di denunciare la persecuzione comunista contro il Falun Gong, un gruppo spirituale fuori legge, e gli abusi contro i dissidenti politici e i fedeli cristiani.
Nel 2005 le autorità gli hanno tolto la licenza e distrutto l'ufficio. Zhisheng, per sopravvivere, è tornato a lavorare in miniera. Nell'agosto 2006 ha scritto due lettere aperte al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao. Voleva denunciare la violenza e la tortura contro i fedeli del Falun Gong, la deriva autoritaria del partito, intendeva chiedere democrazia e diritti per il popolo. Poi l'arresto. Nella primavera 2007 Human Rights China, un'organizzazione con sede a New York che monitora la situazione nel regime, ha pubblicato il suo memoriale shock, fatto uscire dalla Cina su foglietti scritti a mano. Zhisheng vi racconta in dettaglio le violenze, le scariche elettriche ai genitali, gli stuzzicadenti infilati nel pene, le sigarette accese negli occhi, le lampade bollenti passate sulla pelle. “Mi dicevano che dovevo sperimentare il trattamento riservato ai miei assistiti”, si legge nel documento. “Quando sono riuscito ad aprire un poco gli occhi, dopo molto tempo, ho visto che il mio corpo era irriconoscibile. Non un centimetro era stato risparmiato”. La moglie di Zhisheng, Geng He, è stata costretta a pulire i bagni del quartiere. La figlia, Geng Ge, è stata pestata per strada dalla polizia perché aveva tentato di telefonare a Hu Jia, un altro noto attivista per i diritti umani. La ragazza è stata espulsa da scuola e ha tentato di uccidersi. Un comitato di personalità internazionali ha candidato Gao Zhisheng al premio Nobel per la Pace. Non era ancora il momento.
Hu Jia è il dissidente cinese a cui il Parlamento europeo ha assegnato il prestigioso premio Sakharov. Jia è stato il primo a denunciare lo scandalo dell'Henan, la provincia nella quale alla fine degli anni Novanta migliaia di contadini hanno contratto l'Aids attraverso trasfusioni di sangue infetto che il regime voleva tenere nascosti. Piccolo e magrissimo, Hu Jia parla a voce bassa e insieme alla dottoressa Gao Yaojie ha creato le prime case-rifugio per sieropositivi e orfani di genitori morti di Aids. Dopo la battaglia per i malati di Aids ha aperto con la moglie Zeng Jinyan un blog su Internet, attraverso il quale i due hanno denunciato la mancanza di democrazia e di libertà di espressione in Cina. Time Magazine ha soprannominato la moglie “Tiananmen 2.0”, per via del suo impegno in favore dei diritti umani. Sua figlia è “la più giovane prigioniera politica in Cina”, secondo il New York Times. Ogni giorno Zeng Jinyan si dedica alla scrittura di lettere in cui chiede aiuto e spiegazioni a tutte le autorità competenti del proprio paese e della propria città. Ogni giorno, poi la donna veste una maglietta con su scritto parole di protesta in modo che i poliziotti in borghese possano leggerle chiaramente. Anche il nome di suo marito è stato preso in considerazione per l'assegnazione del premio Nobel per la Pace 2008, che però alla fine è andato al finlandese Martti Ahtisaari.
Huang Qi è il più noto difensore della libertà di espressione e di Internet. Per questa sua attività è stato condannato a cinque anni di carcere. E' cieco, l'avvocato Chen Guangcheng. La tragedia delle donne di Linyi, costrette ad abortire dallo stato, è diventata la sua battaglia. L'avvocato ha denunciato i soprusi, ha difeso le vittime, ha accusato il partito. Grazie a lui il mondo ha scoperto gli orrori della legge sul figlio unico e la tragedia di 130 mila cinesi costrette, ogni anno, all'aborto forzato. Difende i diritti dei contadini, vittime dei soprusi del regime, Huang Weizhong, mentre Mao Hengfeng è un'altra pioniera della battaglia contro la politica del figlio unico. Licenziata, spedita in un campo di lavoro per un anno e mezzo, picchiata e rinchiusa in una cella con mani e piedi legati. “Colpevole” di aver condotto per quindici anni una battaglia per l'abolizione del provvedimento, introdotto vent'anni fa, che in Cina obbliga le coppie ad avere solo un figlio per ridurre il boom demografico. Hengfeng è stata trasportata di peso da Pechino a Shanghai e da lì in un “laogai”, una rete di almeno mille campi di concentramento dove le categorie considerate “deviazioniste” da Pechino, giornalisti, sindacalisti, attivisti democratici, appartenenti a minoranze etniche, cattolici, musulmani, protestanti, tibetani, e anche molti studenti delle proteste del 1989, sono condannati al lavoro forzato.
Il motto dei laogai riecheggia l'“Arbeit Macht Frei” dei nazisti: “Laodong gaizao”, ovvero “il lavoro trasforma”. Secondo la Laogai Research Foundation, sarebbero tra i quattro e i sei milioni i cinesi oggi rinchiusi nei campi di rieducazione. Hengfeng, nata in un villaggio sperduto, aveva di fronte un destino di operaia anonima in una fabbrica di saponette. Una vicenda iniziata nel 1988, quando i proprietari dell'azienda per cui Mao lavorava cercarono di convincerla ad abortire per impedirle di avere il secondo figlio. Pena il licenziamento immediato. Ma, nonostante le minacce e gli avvertimenti, la donna si rifiutò, ritrovandosi senza lavoro. Da allora la donna combatte contro la legge sul figlio unico e per questo è stata spesso anche internata in ospedali psichiatrici. Nei laogai, Hengfeng sarà torturata (sospesa e legata alle caviglie, soffocata attraverso il cibo, costretta a restare nuda a causa del rifiuto della divisa) e le saranno iniettati diversi tipi di droghe. Per questo la sua terza bambina è nata con numerosi problemi di salute. Una eroina e nemesi in una nazione dove la “Commissione statale per la popolazione nazionale e la pianificazione familiare” impiega cinquecentoventimila dipendenti a tempo pieno e ottantadue milioni a tempo parziale per controllare le nascite. La famiglia Hengfeng vive in un regime poliziesco, le e-mail controllate come i telefoni.
Il giornalista Shi Tao deve scontare dieci anni di reclusione. Redattore del Contemporary Business News, Tao ha diffuso in Internet un comunicato in cui ricordava il quindicesimo anniversario del massacro di piazza Tiananmen. Il portale Yahoo fornì alla polizia il suo account di posta elettronica e la rivelazione ha causato grave imbarazzo al gigante della comunicazione. Difende i diritti dei tibetani Tsering Woeser, direttrice del magazine Tibetan Literature, autrice di libri di poesie. I suoi saggi sono vietati e i suoi spostamenti controllati. Il suo blog è stato più volte chiuso e attaccato dal governo cinese in quanto la donna denuncia l'oppressione etnica e la distruzione dell'identità tibetana. Si batte contro l'esproprio arbitrario delle terre Yang Chunlin, punito per la raccolta di oltre diecimila firme in calce alla petizione “Vogliamo i diritti umani, non l'Olimpiade”. Sono 150 le “madri di Tiananmen”, ovvero il gruppo che raccoglie i famigliari delle vittime del massacro di piazza Tiananmen. La più nota di queste donne è Ding Zilin, che all'epoca era membro del Partito e docente di filosofia all'Università del Popolo di Pechino. Ma soprattutto era la madre di un ragazzo ucciso nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989. Oggi ha 73 anni e anche lei è stata candidata al Nobel per la Pace.
Dalle indagini di Zilin è nata la “Lista di Ding”, con i nomi delle persone uccise a Tiananmen. “Ho scelto di documentare la morte”, ha scritto Zilin. “Ho scavalcato montagne di cadaveri, ho galleggiato sulle lacrime delle famiglie delle vittime. La vita è sacra. Ma anche la morte è sacra. Come popolo cinese possiamo avere molti obiettivi e sogni da raggiungere, ma penso che dobbiamo porre una priorità nello stabilire un sistema morale in cui una sconsiderata noncuranza per la vita umana sia lasciata alle nostre spalle. Penso che proprio questa sarebbe la mia risposta se qualcuno mi chiedesse perché ho scelto di documentare la morte”. In tutta la Cina oggi riecheggiano le ultime parole di Liu Xiaobo prima di scomparire in un carcere: “Talvolta il primo passo verso la libertà è un passo verso la prigione”.
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