Quattro penne nere

Luigi De Biase

Accanto alla basilica di Santa Maria degli Angeli, un gruppo di soldati aspetta in silenzio i carri con le salme dei quattro alpini morti in Afghanistan. Sono una ventina e appartengono al Settimo reggimento di Belluno, lo stesso delle vittime: hanno facce stanche, divise verdi e pantaloni larghi che finiscono dentro gli anfibi. Un capitano con la barba ben curata li divide in squadre di sei, valuta la lora altezza, controlla i nodi delle cravatte e sistema le mostrine.

    Accanto alla basilica di Santa Maria degli Angeli, un gruppo di soldati aspetta in silenzio i carri con le salme dei quattro alpini morti in Afghanistan. Sono una ventina e appartengono al Settimo reggimento di Belluno, lo stesso delle vittime: hanno facce stanche, divise verdi e pantaloni larghi che finiscono dentro gli anfibi. Un capitano con la barba ben curata li divide in squadre di sei, valuta la lora altezza, controlla i nodi delle cravatte e sistema le mostrine. Parla tranquillo senza sorrisi: uno domanda che cosa deve fare se ha bisogno di soffiarsi il naso, lui risponde che non può fare nulla, che non può soffiarselo. Qualche minuto più tardi, un maggiore li richiama battendo un pugno sul palmo della mano. Dice: chi non se la sente deve parlare adesso, “una volta in chiesa non potete svenire”. Nessuno lascia la fila, nessuno piange ma molti hanno gli occhi lucidi. Quando arrivano i carri con le quattro salme, i giovani alpini cambiano espressione. Accade in un momento: raddrizzano la schiena come i soldati slavi di Crnjanski, stendono le braccia, tengono lo sguardo fisso in avanti. Sollevano le bare dei commilitoni, la banda suona “Signore delle cime” e le penne sui loro cappelli tremano leggermente di fronte al picchetto d'onore.

    Ieri, nella basilica romana, centinaia di persone hanno partecipato ai funerali di Gianmarco Manca, 32 anni, Marco Pedone, 23, Francesco Vannozzi 26, e di Sebastiano Ville, 27, i soldati uccisi sabato dai guerriglieri talebani. Un altro alpino, Luca Cornacchia, 31 anni, è rimasto ferito in modo grave, ma non è in pericolo di vita. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è arrivato a piazza Esedra poco dopo le 10.30 ed è stato accolto da un applauso timido. I primi a salutarlo sono stati il presidente della Camera, Gianfranco Fini, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa – che oggi sarà in Senato per una informativa. In chiesa c'erano tre file di autorità: con il capo della Farnesina, Franco Frattini, anche Roberto Maroni, Altero Matteoli, Stefania Prestigiacomo, Renato Brunetta, Umberto Bossi, i leader dell'opposizione e i rappresentanti di molte città italiane.

    “I nostri militari sono coinvolti nel grande compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano – ha detto monsignor Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l'Italia, durante l'omelia – Di fronte a questa responsabilità, nessuno può restare neutrale o affidarsi a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono a mio parere la tenuta di un impegno così delicato per la sicurezza dei popoli”. I corpi dei quattro militari sono arrivati in Italia lunedì. La loro morte ha aperto un nuovo dibattito sulla missione dei soldati italiani in Afghanistan: lo zio di una vittima ha criticato La Russa all'aeroporto di Ciampino, dicendo al ministro di “godersi lo spettacolo”. La Russa ha risposto che “i parenti in queste occasioni hanno diritto a qualsiasi reazione emotiva”. Lo stesso giorno, Frattini ha annunciato il ritiro “nel 2011”.

    Manca, Pedone, Vannozzi e Ville sono stati uccisi nella valle del Gulistan, a duecento chilometri da Farah, dove gli alpini del Settimo reggimento cercano di stabilire un avamposto. Secondo le ricostruzioni, il loro Lince è saltato su un ordigno nascosto nel terreno dai talebani. I ribelli hanno rivendicato l'attacco poche ore più tardi attraverso un portavoce. La morte, per gli armati, è una compagna di viaggio. E' così dai tempi di Ettore, l'eroe troiano dell'Iliade che accettò lo scontro con Achille pur sapendo di avere poche possibilità di tornare vivo al proprio accampamento. In Afghanistan non si combatte un rivale nobile, ma un nemico barbaro che usa tutti gli inganni dell'Asia. Chi parte conosce i pericoli della missione e sa che esistono cose peggiori della morte: sconfitta, disonore e viltà. Questa consapevolezza permette agli alpini della Settima brigata di portare senza lacrime le salme dei compagni morti. E, in fondo, fa dire a un agente della Digos in servizio a piazza Esedra: “A me, me vie' da piangere”.