Parla il francescano che sa le cose
Il padre francescano David Maria Jaeger, già delegato a Roma della Custodia di Terra Santa, è tra i maggiori esperti delle relazioni tra la Santa Sede e lo stato d'Israele. Gli abbiamo chiesto un giudizio sullo stato attuale delle relazioni tra chiesa e Israele, a partire dalla lenta attuazione dell'Accordo fondamentale del 1993. “L'accordo prevedeva una specie di ‘concordato a tappe'”, spiega, con due accordi integrativi e altri più particolareggiati.
Il padre francescano David Maria Jaeger, già delegato a Roma della Custodia di Terra Santa, è tra i maggiori esperti delle relazioni tra la Santa Sede e lo stato d'Israele. Gli abbiamo chiesto un giudizio sullo stato attuale delle relazioni tra chiesa e Israele, a partire dalla lenta attuazione dell'Accordo fondamentale del 1993. “L'accordo prevedeva una specie di ‘concordato a tappe'”, spiega, con due accordi integrativi e altri più particolareggiati. “I due accordi integrativi riguardano: il primo la conferma del pieno riconoscimento a tutti gli effetti civili delle persone giuridiche ecclesiastiche, il secondo le questioni riguardanti le proprietà della chiesa e la riconferma del suo statuto fiscale”.
L'accordo sulle persone giuridiche, firmato nel '97, è in vigore dal '99, anche se “si è sempre però in attesa che Israele lo recepisca nella propria legislazione. Del secondo si è cominciato a trattare nel 1999, e questi negoziati sono ancora in corso”. In lista d'attesa ci sono diversi altri argomenti. “Prioritaria è la questione dei visti di ingresso e permessi di soggiorno e residenza per il personale della chiesa, sacerdoti, religiose, religiosi”. Altra priorità è “la verifica congiunta del modo di presentare Cristo, il cristianesimo e la chiesa nel mondo scolastico israeliano”.
A fronte di tutto ciò, i rapporti non sembrano facilissimi. Che giudizio ne dà? “La verità è che i rapporti sarebbero ottimi, se non ci fosse sempre chi si preoccupa di seminare zizzania, creando talvolta l'impressione di ‘rapporti non facilissimi'. Bisogna pur sempre distinguere tra i rapporti con lo stato di Israele e i rapporti chiesa-ebrei. Nel primo caso, una certa dialettica è inerente alle relazioni tra due soggetti sovrani e indipendenti presenti sullo stesso territorio”. Al Sinodo sono rappresentate chiese i cui fedeli sono per la maggior parte arabi. Quanto conta questo nell'atteggiamento della chiesa nei confronti di Israele? “In Cristo, e per Cristo, non c'è né arabo né ebreo. La chiesa non è un soggetto politico, nel senso di prendere parte alle controversie meramente temporali, tantomeno ‘nazionali'.
E' inevitabile, certo, che i pastori della chiesa ricevano le notizie delle diverse situazioni, quindi in una certa prospettiva. Quando rappresentavo un'organizzazione di comunità cristiane in Israele nei rapporti con il governo, c'era tra i funzionari chi si lamentava che le autorità centrali della chiesa avrebbero avuto una ‘prospettiva araba' e non ‘israeliana'. Rispondevo sempre che se avessimo, in Israele, un maggior numero di fedeli di espressione ebraica anche la prospettiva ‘israeliana' sarebbe stata più presente”. Ma in Israele “la maggioranza dei cristiani sono, in relazione allo stato, innanzitutto ‘arabi' (palestinesi cittadini di Israele), con tutto quanto ciò comporta”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano