Una notte con Ombre Rosse
Sto guardando per la centesima volta ‘Ombre Rosse'. Reali o immaginarie che siano, cento visioni sono tante anche se raramente il film l'ho visto per intero, più spesso una scena qua e una là su misteriosi canali tivù nel pieno della notte. Per celebrare degnamente l'evento decido di fare l'alba interrogandomi sul perché stia guardando quest'opera per la centesima volta come fosse la prima.
Sto guardando per la centesima volta ‘Ombre Rosse'. Reali o immaginarie che siano, cento visioni sono tante anche se raramente il film l'ho visto per intero, più spesso una scena qua e una là su misteriosi canali tivù nel pieno della notte. Per celebrare degnamente l'evento decido di fare l'alba interrogandomi sul perché stia guardando quest'opera per la centesima volta come fosse la prima, ma anche la seconda che forse era la terza e la settantesima che sicuramente era la dodicesima. Guardare un film in tivù alle tre della notte in un salone completamente buio è di per sé un'esperienza inquietante. Gli attori si muovono sul piccolo schermo con la sicurezza di sempre ma in realtà sono diventati molto sospettosi; sapientemente dissimulano. Si sentono nanizzati, tanti piccoli freak a uso e consumo di un essere gigantesco che lancia loro un'occhiata, va in cucina a mangiarsi una banana, torna e li guarda incuriosito, si siede, si alza, apre la finestra e respira profondamente guardando gli alberi neri. Con ‘Ombre rosse' però è tutt'altra cosa. Fin dalla prima inquadratura dell'alzabandiera il film ti mette sotto la sua protezione; capisci che non ti accadrà niente di male e puoi abbandonarti totalmente: l'America e i suoi cavalleggeri interverranno al momento giusto. Capisci anche che non basterà gustare la paradisiaca bellezza di sguardi che per un'ora e mezza s'incrociano, ma dovrai avere l'audacia di guardarli negli occhi, perché forse hanno qualcosa di nuovo da dirti. Allora gli vado vicino alle Ombre, molto vicino, la faccia dentro lo schermo.
‘Ombre rosse' è il film di Ford che più mi fa gioire, eppure non credo sia il suo più bello. Per regia, sceneggiatura e interpretazione ‘Sfida infernale' è probabilmente più intenso. Anche lì muoiono tre cattivi fratelli anzi quattro; anche lì c'è una puttana innamorata che stavolta il dottore non riesce a salvare e una donna perbene che è però davvero perbene: Oh my darling, oh my darling Clementine... Soprattutto c'è il buio saloon dove un vecchio e scalcinato attore dignitosamente recita il monologo di Amleto con i banditi che gli sparano ai piedi, a loro volta messi a tacere dall'entrata di Victor Mature le cui sensuali labbra si assumono il peso del dubbio, sempre più sbilanciate verso il non essere dalla tubercolotica tossetta. Con ‘Sfida infernale' siamo più dalle parti delle mie ossessioni, perché allora ‘Ombre rosse', cosa ho ancora da chiedergli? Tanto più che i suoi attori non mi suscitano dirompenti identificazioni. John Wayne è l'unico Ringo possibile, ma da un po' di tempo devo sforzarmi – in questo momento sta salendo sulla diligenza – per volergli bene; se lo immagino fuori dal film mi dà i brividi. Mi sta antipatico da quando in ‘Triste, solitario y final' Osvaldo Soriano ha raccontato con quanta sufficienza trattò il povero Oliver Hardy reo di avergli chiesto una particina in ‘The Alamo'. Confesso che questa volta infilando il dvd nel lettore mi sono detto: ‘Adesso lo guardo per due minuti solo per dirmi che non ne posso più'. Intanto ne sono trascorsi dieci di minuti e già corro sulla diligenza dove si sta davvero stretti e spero solo che gli indiani arrivino prima che la pellicola si rompa... Il che è assurdo trattandosi di un dvd, ma mi è rimasta la paura di quando si rompeva sempre nello sperduto cinemino parrocchiale della mia infanzia campagnola, ma anche al Filmstudio della Roma fine Anni Sessanta, la città eterna in cui il tempo all'improvviso aveva fatto irruzione.
Non si rompe il filo della memoria, s'ingarbuglia semmai: quel primo piano sulla faccia impassibile della guida indiana non mi era mai sembrato così lungo. Mi guarda con occhi penetranti, cosa vuole dirmi? Gli apache di Geronimo mi stanno inseguendo? Devono consegnarmi un messaggio, avvertirmi di un pericolo? Ma da chi devo guardarmi... se non da loro? La scena ora si apre sulla cittadina di Tonto in mattutino fermento e naturalmente ricordo il vezzoso cappellino di Lucy Mallory che prima di avventurarsi nel deserto chiede dove si possa bere un tè. Mrs. Lucy Mallory quel tè potrebbe prenderlo con una sola delle tante ombre che popolano il film, con il tenebroso John Carradine alias Hatfield. Anche perché, nonostante sia sposata con un brillante capitano di cavalleria, gli occhi su quel damerino la signora Mallory li mette eccome, accidenti. Non ne sono mai stato tanto consapevole quanto ora e non riesco a trattenere un moto di sorpresa indignazione, per lei, per me. Ma santo cielo non solo è sposata, la signora, è anche incinta al nono mese, sebbene la silhouette non lo lasci trapelare in omaggio alla pruderie hollywoodiana che non risparmia le gravide. Insomma, tra indiani, banditi, banchieri e rappresentanti di liquori, attonito vedo crescere sotto i miei occhi una storiella tanto perversa quanto esibita; che io la intenda in tutta la sua compiuta malignità solo ora, alla centesima visione, mi lascia senza fiato. Anche perché quei due ne fanno veramente di ogni. Disprezzano tutti e subdolamente si desiderano, un corteggiamento che fa davvero senso.
La graziosa signora Mallory ama quel vampiretto che nemmeno osa sollevarla quand'ella sviene sul pavimento? Per tale piacevolissima bisogna costui non si vergogna di andare a chiamare lo sceriffo, sicché per ben due volte a prenderla tra le braccia sarà il burbero benefico George Bancroft, un uomo, un padre, uno psicanalista. Quante donne ho sollevato fino ad ora?
Hatfield non osa, sta a guardare. Teme di non esserne in grado? Teme che gli altri possano avvertire il suo desiderio e magari accusarlo di tentato stupro? E' Don Giovanni che stende le donne solo per offrirle al Padre, per attirarlo a sè, quel supremo inavvvicinabile Giudice della corte suprema cui dedicherà le sue estreme parole? Comunque sia, per novantanove volte io ho fatto finta di niente, imputando il correr via di Hatfield davanti alla donna svenuta sul pavimento a una scelta registica per movimentare la scena. Hatfield non prende Lucy tra le sue braccia e a me viene un dolore alla cervicale mentre mi si parano innanzi le due scene madri del misterioso ‘Lourdes' di Jessica Hausner, quando il belloccio barelliere – si dice così? Lourdes ancora mi manca, ma se l'artrosi peggiora chissà – non osa neppure toccare le isteriche che cadono qua e là. Ma santo cielo Lucy partorisce, le annunciano che il marito è in fin di vita, gli indiani le corrono dietro e lei se ne frega, pazza per il vampiro. Come è possibile, come è cominciato tutto ciò? Alla domanda di Lucy su chi fosse quel misterioso ‘gentiluomo', l'amica aveva risposto: "Un'apparenza". La signora Mallory cominciò a sognare; le vere signore sono fatte così. Che infine la dama dell'esercito della salvezza abbia con spregio aggiunto ‘un famoso giocatore di professione', ha fatto intravedere la truffa, l'inganno, l'abbandono, forse la morte. Cosa di meglio? ‘Hatfield spara alla schiena', conclude il dottor Boone. Mi era sempre sembrata un po' troppo pungente la battuta del buon Doc Boone, stavolta però capisco che non è una battuta ma la pura verità: davvero Hatfield spara alla schiena; la cervicale insomma. A questo punto il mio lettore avrà capito che Hatfield stanotte non è il mio preferito. Naturalmente il lettore avrà anche capito il perché: un tempo, quando anch'io ero pura apparenza e losca sostanza, quel vampiretto era il mio preferito.
No, non è un gentiluomo Hatfield, basta guardare il ghigno che sfoggia ammazzando i pellerossa. Grazie al cielo John Ford esiste: il pericoloso tenacissimo indiano che salta sui cavalli della diligenza è abbattuto dall'infallibile carabina di Ringo. Ma non finisce qui; il regista ci tiene a rassicurare i più sensibili tra noi e si sofferma a mostrarci l'indiano che si rialza vivo e vegeto a guardarsi tranquillo la scena dell'inseguimento. Credo che Ford sia un santo, come Pavel Florenskij, di cui ogni tanto - sempre sbirciando il film che, credendosi inosservato, potrebbe prodursi in curiose stranezze - leggo qualche pagina di ‘Bellezza e liturgia'. Soprattutto penso alla mano che le ha scritte e che ancora le scrive, vedo quella mano benedetta e commosso la bacio. Nei ghiacci siberiani il multiforme ingegno di Padre Florenskij inventava mirabolanti strumenti per far stare più caldi i carnefici che da anni lo tenevano lontano dai suoi figlioli. Per questa sua irriducibile generosità lo uccisero. La santità di Ford trova invece la sua estrema testimonianza in ‘Missione in Manciuria', il suo ultimo film. Indemoniate dispute sull'aborto sotto gli occhi del diavolo in persona, un enorme mongolo chiamato Tunga Kan e Anne Bancroft che si sacrifica come Giuditta; i dilemmi di Juno a paragone sono giochi per ragazzi. E le onnipresenti Ombre sono anche in Manciuria: pure lì c'è da decidere su come trarsi d'impiccio, ci sono le donne perbene che strillano come aquile e bad girls che silenziose vanno al martirio. Tutto ritorna, nelle nostre teste si mischiano le carte, gli assi e gli otto che Luke Plummer, il più cattivo dei tre fratelli, cala sul tavolo verde prima di andare a morire nel duello con Ringo. Ancora non sono arrivato alla scena, ma la ricordo bene quella doppia coppia. Una volta la giocai al lotto ma persi la schedina. In compenso mi è rimasta la faccia del pianista che guarda il fratellone con aria da beccamorto mentre gli suona una marcetta; forse per questo persi la schedina.
‘Ombre rosse' mi catapulta di qua e di là, se avevo qualche timore che si fosse negli anni addormentato, sono clamorosamente smentito, felicemente: ritrovo gli amici di sempre e la tenera Dallas è più che mai luminosa, innamorata. Lei che avrebbe tutti i motivi per rifugiarsi nel risentimento ha fede, molto più di me che ogni volta temo di rincontrarla spenta, mielosa, morta. Occorre quella fede che Hatfield non possiede ma Lucy Mallory alla fine trova, e questo fa la differenza, la salvezza. Gli indiani già la pregustano occhieggiandola dal finestrino della diligenza; lei non è più una signora né una Mallory ma solo una Lucy che si sta spegnendo e prega disperata, le mani spasmodicamente intrecciate che sembrano stringere gli ultimi istanti di vita. Hatfield le avvicina alla testa la canna della pistola: è un losco altruista, rinuncia al suicidio per donare a Lucy l'ultima pallottola, un'eutanasia che scongiuri lo stupro dei selvaggi. O non sopporta che stia pregando? Messaggera della Divina Provvidenza una generosa freccia (pallottola? Preferisco la freccia) lo ferma per sempre. Squillano le trombe del Settimo Cavalleggeri. Ecco perché cento volte sono ritornato sul luogo del delitto, della mia incuria: dovevo uccidere Hatfield, io ho appena scoccato quella freccia.
Schiaccio l'aggeggio e vado un po' avanti e un po' indietro, ogni tanto stoppo e scrivo. Stanotte devo essere un po' nervoso, o severo, o esigente, se perfino il simpatico dottor Boone mi trasmette la sgradevole sensazione di darci dentro un po' troppo col bicchiere. Sarà perché qualche ora fa tenevo un seminario sull'alcolismo, ma il dottore mi irrita. Riesce a trasformarsi da Hyde in Jekill nel giro di pochi minuti, è sufficiente un litro di caffè nero; la sua bonarietà non ce la conta giusta. Il faccione è tenero ma l'occhio è spiritato; non per niente gli hanno dato l'Oscar, è l'unico vero diavolo in una selva di falsi pretendenti. Che non mi si dica che Hatfield è un imbroglione mascherato da gentiluomo, solo una dama della lega della salvezza poteva cascarci; lui è un imbroglione mascherato da imbroglione ovvero nemmeno un vero imbroglione, un povero diavolo dei più trash già per l'epoca. Ora sta avvicinando alle labbra di Lucy il bicchierino d'argento con lo stemma di chissà quale sua vittima, mentre seduto sul fondo della diligenza Ringo beve dalla borraccia e sorride; lui perdona a tutti tranne che ai fratelli Plummer.
C'è tanto amore in questo film, tutti gli attori si donano senza riserve alla cinepresa. L'amore è la magia che rende ‘Ombre rosse' così unico, anche se la sola scena erotica che vede i corpi impegnarsi a fondo in fantastiche simmetrie sull'orlo dell'abisso, è quella che si gioca ai piani alti della diligenza tra lo sceriffo e Ringo allorché sparano sugli apache. Che virtuosi della danza, quando l'uno si stende l'altro si protende, i fucili sempre perfettamente paralleli, e che pantaloni, che stivaloni, che occhioni! E che tenerezza la borsetta a sacchettino di Dallas, con Ringo che nella notte la tiene a braccetto nella passeggiata più romantica d'ogni tempo, con volti equivoci illuminati qua e là, fino al bordello dove lei gli si rivela come se lui già non sapesse o comunque gl'importasse. Ecco, da adolescente mi veniva spontaneo – parola equivoca - di chiedermi come si comportasse lei con gli uomini. Rideva Dallas con quei ceffi? Faceva certe cose... che non farà mai a Ringo? Di queste fantasie mi vergognai in seguito, soprattutto nel mio breve periodo comunista per via della classe sociale dei due innamorati; finché lessi Sant'Agostino. Nel De Civitate Dei il sommo teologo passa il tempo di cento pagine a interrogarsi sul godimento delle vergini romane stuprate dai barbari, se hanno l'orgasmo o lo tengono a bada, se il tenerlo a bada è a sua volta orgasmico, se il pensare a Dio smorza la libidine o l'accresce e così via. Confortato da queste sante letture mi passò il senso di colpa; intrapresi appassionati studi di patristica e tomistica che nella maturità sarebbero approdati a due trattatelli discretamente teologici e a due romanzetti vagamente erotomanici.
Le jour se leve, il faut tenter d'écrire il sublime finale. Precorrendo gli altrettanto celebri marpioni di ‘Casablanca', il dottore e lo sceriffo si liberano dei due innamorati e abbracciandosi vanno a scolarsi qualche bottiglia. Ma sì, bevano quanto vogliono per questa notte, sono tutti così felici e soddisfatti, persino i cavalli! ‘Contenti perché salvi dalle delizie della civiltà', precisa lo sceriffo. Vero, ma il più contento di tutti sono io, e io, fino a prova contraria, sto nel cuore stesso della civiltà, accovacciato sul tappeto davanti alla tivù. Da selvaggio ci sto, da apache, da Ombra Rossa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano