Si chiude oggi la grande Assemblea

Voglio un piano quinquennale

Marco Pedersini

Il vice presidente cinese Xi Jinping è stato nominato vice presidente della potente Commissione militare centrale, quella che sovraintende alle forze armate e di fatto controlla il paese. Lo ha riferuito l'agenzia Xinhua. La mossa viene letta dagli addetti ai lavori come un passo di Xi verso la successione al presidente Hu Jintao, che èanche l'attuale capo della Commissione, le cui dimissioni da segretario del Partito comunista sono previste per il 2012 e da presidente nel 2013. La nomina di Xi è avvenuta nella giornata di chiusura del congresso annuale del Partito.

    Il vice presidente cinese Xi Jinping è stato nominato vice presidente della potente Commissione militare centrale, quella che sovraintende alle forze armate e di fatto controlla il paese. Lo ha riferuito l'agenzia Xinhua. La mossa viene letta dagli addetti ai lavori come un passo di Xi verso la successione al presidente Hu Jintao, che èanche l'attuale capo della Commissione, le cui dimissioni da segretario del Partito comunista sono previste per il 2012 e da presidente nel 2013. La nomina di Xi è avvenuta nella giornata di chiusura del congresso annuale del Partito.

    Dal Foglio del 15 ottobre 2010

    Da venerdì i delegati del Comitato centrale del Partito comunista cinese, stipati nella Grande sala del popolo di Pechino, sono impegnati nella votazione del prossimo piano quinquennale. I risultati dell'Assemblea plenaria precedente, che avrebbe dovuto debellare la corruzione nel Partito e si è limitata invece a celebrare “l'armonia fra gruppi etnici e religiosi”, non incoraggiano chi si aspetta grandi cambiamenti nel modello economico cinese, i cui difetti, con il tempo, si sono accumulati inesorabilmente. I vertici del Partito comunista cinese (Pcc) preferiscono indugiare, rimandando le decisioni più contradditorie al giorno dopo, una strategia che riesce soltanto ad acuire le contraddizioni. Se al momento il Partito sembra essere troppo debole per permettersi slanci di grande prospettiva, dalla plenaria del Comitato centrale ci si aspettano almeno i segnali per la delicata successione del presidente cinese, Hu Jintao, e del primo ministro, Wen Jiabao, i cui mandati dovrebbero scadere entrambi nel 2012.

    Il presidente Hu Jintao, nell'ottobre 2007, aveva sorpreso tutti rinunciando a nominare un erede tra le personalità più promettenti della propria fazione. Le divisioni personalistiche che hanno travagliato il Partito si sono trasformate, col tempo, in una lotta su scala nazionale tra due schieramenti nettamente divergenti, divisi su una base geografica. E Hu Jintao aveva scelto a sorpresa un esponente per ognuna delle due parti, entrambi cooptati dai nove membri del Comitato permanente dell'ufficio politico del Partito.
    La decisione del presidente era stata salutata con entusiasmo – e ci mancherebbe altro – dal giornale delle giovanili del Partito, il China Youth Daily, secondo cui “raggiungere il compromesso politico è un'idea brillante per massimizzare gli interessi comuni e il capitale politico per la sopravvivenza”. Lo stesso Hu Jintao è tornato più volte a incoraggiare la competizione interna, premendo sulla retorica della “democrazia intrapartitica come linfa vitale del Partito”, con l'insistenza di chi comunque deve farsi una ragione di una decisione imposta dalle circostanze. I vertici di Pechino sanno che affidare le proprie speranze di buon governo a una “squadra di rivali” come aveva fatto Abramo Lincoln non è più una scelta, ma una disperata necessità, se vogliono evitare che i leader della Quinta generazione si sbranino prima ancora del 2012, consegnando il regime a un fallimento che – a dispetto della crescita economica impetuosa – sembra sempre incombere dietro l'orizzonte.

    Meglio una fioca inerzia alimentata da un conflitto controllato che una faida senza quartiere. Forse in questa saggia strategia c'è lo zampino delle letture del primo ministro cinese, Wen Jiabao, che la scorsa settimana ha detto alla Cnn di portare con sé, durante i viaggi all'estero, le “Meditazioni” di Marco Aurelio. Se c'è un insegnamento che la storia dell'antica Roma può dare ai vertici del Partito è che, per evitare la dissoluzione di un impero, bisogna evitare che il potere si coaguli attorno a personalità eccezionali – se è vero che, durante la conquista dell'Italia, la nobilitas romana aveva favorito la rotazione degli aspiranti alle varie magistrature, per abituarsi a considerare la politica estera come un'opera collettiva. Forse il presidente cinese è a digiuno di storia romana, ma non di buon senso. E quando ha dovuto scegliere a chi consegnare la guida del Partito ha messo da parte gli odi personali e con la faccia più conciliante possibile ha offerto la vicepresidenza a Xi Jinping, prodotto tipico della “gang di Shanghai”, la fazione nemica allo stesso Hu Jintao e al primo ministro.

    I politici di Shanghai, spesso identificati come “elitari” – o, con una punta di disprezzo, “principini” –, sono quelli più inclini al libero mercato, che premono perché il modello economico cinese, grossolanamente squilibrato verso le esportazioni, non subisca alcun cambiamento. Sono espressione delle esigenze delle regioni costiere della Cina, molto più avanzate rispetto all'interno del paese, che chiedono liberalizzazioni spregiudicate, costi quel che costi, perché si possa spremere fino in fondo il momentum favorevole delle esportazioni “made in China”. Shanghai è la roccaforte di Jiang Zemin, predecessore e antagonista di Hu Jintao. La classe politica cittadina è espressione diretta dei suoi legami con l'esercito, della sua ideologia amica del libero mercato, rappresenta tutto ciò che il presidente attuale non è. Tanto che anche una visita ordinaria da parte di Hu Jintao, come quella al padiglione cinese dell'Expo alla fine dello scorso gennaio, diventa una sorpresa: erano quattro anni che il presidente non metteva piede nella città che è il cuore produttivo del paese. Il suo viaggio a Shanghai ha dimostrato che Hu Jintao può ostentare sicurezza anche nella capitale dei suoi detrattori, ora che ha scelto un esponente della classe politica locale come vicepresidente.
    Prendendo con sé Xi Jinping, il presidente ha aperto le porte alla quintessenza dei “principini”: al figlio di un vicepremier, che si è formato nelle giovanili comuniste e ha fatto studi tecnici, da ingegnere chimico – anche se l'agenzia di stampa di regime lo vorrebbe laureato in Scienze sociali dopo anni dedicati allo studio della teoria marxista. E' il curriculum tipico degli esponenti dell'élite delle regioni costiere, gente che era stata cresciuta per diventare un bravo scienziato o un ingegnere capace, e che poi il libero mercato ha trasformato nella nuova aristocrazia del paese. Xi Jinping ha iniziato la sua carriera politica in regioni notoriamente “elitarie”, per poi diventare il capo del Partito a Shanghai nel 2007, quando è stato chiamato a recitare la parte del politico integro e incorruttibile che veniva a mettere ordine nella città dopo un enorme scandalo. Ha sposato una cantante folk molto famosa in Cina, Peng Liyuan, che è riuscito a conquistare sfoggiando una conoscenza enciclopedica della musica popolare cinese. Dopo anni passati a essere “il marito di Peng Liyuan”, Xi Jinping è riuscito a invertire le parti: è l'uomo più amato del Partito, quello vicino alla gente, quello che a dieci anni era stato mandato a lavorare in una fattoria della provincia dello Shaanxi e si era dovuto guadagnare tutto da solo. Lui stesso ne parla come “un punto di svolta nella mia vita”, da cui trapelano soltanto racconti al limite dell'agiografia, che lo descrivono come un campione che ha vinto decine di combattimenti a mani nude, un uomo virile capace di portare due secchi da cinquanta chili lungo i sentieri di montagna “senza dare alcun segno di fatica”. Dopo anni passati nei campi, a ventun anni le sezioni locali del Partito l'hanno segnalato come un giovane meritorio, che andava raccomandato per l'università.

    Un vecchio politico di Singapore, Lee Kuan Yew, ha detto che, per la sua esperienza tra i contadini, Xi Jinping va messo “nella stessa classe di Nelson Mandela”. Ma il “principino” che si è fatto da solo non ha alcuna intenzione di sfidare la prigione per i propri ideali, come l'ex presidente sudafricano. Si guarda bene dall'esporsi troppo, perché ha visto cosa è costato a suo padre, un eroe della rivoluzione che, per il suo amore per il libero mercato, era stato incarcerato per tre volte da Mao Tse Tung. Non contento, aveva criticato pubblicamente il massacro di piazza Tiananmen – e dopo questa presa di posizione, guarda caso, lo si è visto comparire in pubblico molto raramente. A Xi Jinping piace che si parli degli anni che ha passato a lavorare nei campi, ma non ama fare sapere che il suo esilio era dovuto alle disgrazie del padre – una figura di cui, peraltro, non ha parlato mai, in nessuna occasione. Ha imparato la lezione: in pubblico si mostra aperto e conciliante, ma a memoria d'uomo nessuno ricorda una sua dichiarazione su un argomento spinoso, o almeno vagamente controverso. Ha masticato con la bocca chiusa e non ha fatto trapelare alcuna perplessità nei confronti dei vertici del Partito, ostentando una docilità alla causa comune che gli ha permesso di scalzare l'erede al trono designato, Li Keqiang.
    L'investitura di Xi Jinping a possibile guida del Partito era difficilmente prevedibile, perché Li Keqiang, attivista allevato in batteria nella Lega della gioventù comunista – i cosiddetti “tuanpai” –, era il pupillo del presidente Hu Jintao, che è su posizioni talmente sovrapponibili a quelle del suo protégé da renderli praticamente indistinguibili. Forte del suo curriculum perfetto, il futuro erede studiava da leader aspettando il 2012. Li Keqiang sembrava il candidato ideale per la presidenza: dopo anni passati a lavorare nei campi, si è costruito una grande competenza in campo economico – è stato dottorando all'Università di Pechino – senza trascurare le pubbliche relazioni all'interno del Partito. Ha legami solidi con tutti i posti che contano, è stato alla guida della provincia più popolosa (e col più alto numero di sequestri di giornalisti stranieri) del paese, l'Henan. E' rigidamente allineato alla linea nazionalistica del presidente e del premier, Wen Jiabao, di cui tende ad accentuare la vena populista – dice di volere risolvere il problema della disoccupazione, riformare le aree industriali del paese, ridurre le disparità straordinarie tra le province produttive della costa e l'interno del paese, fermo a un medioevo asiatico.

    Al forum economico mondiale di Davos, a fine gennaio, Li Keqiang ha ribadito la politica tradizionale del paese con una coerenza ai limiti della caricatura, dicendo che la Cina deve pensare per sé e smetterla di dipendere da un ordine finanziario instaurato a livello globale dagli Stati Uniti. Pagato il dazio ai mantra dell'ideologia politica di Pechino, Li Keqiang si è lanciato su un terreno molto insidioso ammettendo che il paese deve correggere urgentemente i propri squilibri interni. Le velleità riformistiche sono un rischio retorico ben calcolato, sicuramente avallato dai vertici del regime, che Li Keqiang si è concesso per riprendersi il favore di chi, nel Partito, si sta spostando sempre più verso posizioni radicalmente populiste – come quelle di Wang Yang, capo del Pcc nella provincia di Guangdong, che si è spinto a dire che i dati sul pil sono gonfiati e che le autorità adottano principi keynesiani fatti in casa per cui “fanno un ponte di cui nessuno sentiva la mancanza per far risalire il pil della provincia, poi lo abbattono, per far salire ancora il pil della provincia. Poi lo ricostruiscono di nuovo. E' un processo ripetuto più volte ed è uno spreco enorme”. Avere un curriculum senza sbavature, da leader super istruito, non ha garantito a Li Keqiang un cordone sanitario all'interno del Partito che lo potesse portare dritto alla presidenza. I trionfi in campo economico della Cina avevano messo in discussione la sua fazione e essere l'emulo del presidente in carica era diventata una moneta sempre meno spendibile. Gli analisti avevano dato ai “tuanpai” ancora pochi anni di vita, ma un evento imprevedibile – la crisi economica – li ha salvati dalla rottamazione. Con la recessione, i nervi più esposti di un sistema economico già discutibile hanno iniziato a farsi sentire dolorosamente, alimentando un dissenso che viene sempre più a galla, come è successo con gli scioperi degli operai del Guangdong, questa estate. Per questo Li Keqiang, momentaneamente ripudiato dal presidente che l'aveva voluto a sua immagine e somiglianza, ha cercato di farsi cassa armonica del disagio – pur rispettando le tolleranze minime imposte dal galateo del Partito – ed è riuscito a fare risalire le sue quotazioni contro l'altro pretendente, Xi Jinping, e la sua ideologia improntata sulla superiorità del libero mercato.

    Dalla plenaria di questi giorni ci si attende una nomina ai vertici dell'esercito di uno dei due pretendenti, segno che la procedura per l'investitura è stata ufficialmente aperta. I modi aggressivi mostrati lo scorso mese da Pechino nei confronti del Giappone, per la collisione tra un peschereccio cinese e due motovedette giapponesi nelle isole Senkaku, nel Mar della Cina, confermerebbero che i tempi sono maturi: né il presidente Hu Jintao né i suoi futuri eredi hanno legami solidi con l'esercito e mostrare i muscoli contro i vicini – accantonando il proverbiale “soft power” del Partito – potrebbe essere un modo per accarezzare il favore dei generali. Nello Zhongnanhai, sede dei vertici del Partito (e del governo), ci si abbottona in silenzio, per evitare di aggiungere clamore a una scelta avvertita come drammaticamente critica: se la Quinta generazione di leader cinesi non troverà il suo Augusto in grado di riformare le basi del paese, l'impero potrebbe assistere ai suoi ultimi giorni.