Pd, partito della diaspora

Claudio Cerasa

Assessori, deputati, consiglieri, presidenti, sindaci, senatori, dirigenti e semplici militanti. Scrivono, si indignano, si lamentano, si sfogano, si incazzano e alla fine prendono e qualche volta lasciano. Perché sì, ogni lunedì mattina la scena è sempre quella: Pier Luigi Bersani arriva in ufficio, accende il computer, si collega alla rete, scarica la posta e trova sempre lo stesso messaggio: caro segretario, mi spiace, ma con grande dolore ho deciso di lasciare.

    Assessori, deputati, consiglieri, presidenti, sindaci, senatori, dirigenti e semplici militanti. Scrivono, si indignano, si lamentano, si sfogano, si incazzano e alla fine prendono e qualche volta lasciano. Perché sì, ogni lunedì mattina la scena è sempre quella: Pier Luigi Bersani arriva in ufficio, accende il computer, si collega alla rete, scarica la posta e trova sempre lo stesso messaggio: caro segretario, mi spiace, ma con grande dolore ho deciso di lasciare.

    Ecco: sono passati dodici mesi dall'arrivo di Bersani alla guida del Partito democratico e tra le tante cose di cui il segretario si dovrà occupare nei prossimi mesi ve ne è una di cui si parla poco ma che costituisce forse uno dei problemi più importanti della breve vita del Pd. Certo: non esistono ancora numeri precisi e non esistono neppure statistiche ufficiali ma osservando quanto accaduto negli ultimi tempi all'interno del maggior partito d'opposizione è difficile non accorgersi che sotto il corpaccione fragile dei democratici italiani esiste una diaspora silente che rischia di tagliare davvero le gambe al partito di Bersani. Una diaspora iniziata alla fine dell'ultima fase dell'interregno veltroniano ma che proprio nei mesi di governo bersaniano sembra aver avuto la sua esplosione più significativa. Motivo? Qualcuno dice che la ragione di questa silenziosa scissione democratica vada ricercata nella lenta trasformazione del Pd in un partito assai diverso da quel super contenitore che avrebbe dovuto raccogliere in un unico involucro tutte le anime del centrosinistra.

    Qualcun altro sostiene invece che l'origine di questa strana emorragia vada unicamente ricercata nella progressiva sbandata a sinistra del Pd bersaniano. Ma comunque la si voglia mettere, il dato di fatto è che mentre in questi giorni i giornali sono molto concentrati a riportare le idee di chi nel Pd invoca un'alleanza democratica, di chi sogna un papa nero, di chi suggerisce un Tremonti a capo del governo e di chi è impegnato a dialogare quotidianamente con tutti i possibili futuri alleati del Nuovo ulivo democratico evocato da Bersani – ci sono tutti: i comunisti di Oliviero Diliberto, i rifondaroli di Paolo Ferrero, i socialisti di Riccardo Nencini, i Verdi di Angelo Bonelli, manca solo un segnale da Clemente Mastella e da Franco Turigliatto, e dopo di che, voilà, l'Unione è bella che rifatta –, la realtà è che il Pd ha iniziato a perdere letteralmente pezzi, e ha iniziato a perderli ormai da un anno. Un esempio? Prendete il caso del Parlamento e prendete il caso di quei diciannove democratici che hanno deciso di saltare giù dalla nave del Pd. Per dire, sono finiti all'Udc: Enzo Carra, Renzo Lusetti, Paola Binetti, Dorina Bianchi, Pierluigi Mantini e Achille Serra; sono finiti all'Api: Francesco Rutelli, Linda Lanzillotta, Bruno Cesario, Gianni Vernetti e Claudio Gustavano; sono finiti nel gruppo Misto: Luciana Sbarbati, Riccardo Villari, Lorenzo Ria, Massimo Calearo, Donato Mosella, Bruno Cesario, Marco Calgaro e Antonio Gaglione – e tutti, tranne Villari, Ria e Gaglione, sono usciti dal Pd dopo l'arrivo di Bersani.


    “La decisione di lasciare il gruppo del Pd viene da lontano. Nel corso di questi anni è apparso sempre più chiaro che il Pd ha voluto escludere dall'atto fondativo la componente laica repubblicana e si è risolto nell'incontro di vertice tra un'area del mondo cattolico e la vecchia tradizione marxista. La tenaglia tra ex Ds ed ex Dl esclude proprio quelle culture e quella visione politica che si riassumono nella democrazia liberale e che sono alla base delle moderne società occidentali”.
    Luciana Sbarbati, ex senatrice del Pd oggi iscritta al gruppo Misto, ha lasciato il Partito democratico il 28 aprile del 2010.


    Prima ancora della non indifferente diaspora parlamentare, il senso di questa lenta migrazione democratica lo si coglie bene osservando quanto succede ogni giorno tra i quadri locali del Pd. E basta sbirciare in una qualsiasi regione d'Italia per capire come la fuoriuscita di dirigenti dem stia iniziando ad avere dimensioni piuttosto preoccupanti. Prendiamo il caso del Lazio, per esempio, dove con l'Udc sono recentemente passati alcuni consiglieri regionali di peso (come Antonio Zanon, uno dei recordman di preferenze della regione), diversi segretari di sezione di successo (come Matteo Costantini, storico segretario della sezione Giubbonari) e molti amministratori locali di un certo rilievo (come Ivano Caradonna, presidente di uno dei più importanti municipi capitolini, il Quinto, e da poco finito tra le truppe dei rutelliani). Prendiamo il caso campano, dove il Pd ha perso dirigenti importanti come l'ex presidente della provincia di Salerno (Angelo Villani), come il sindaco di Caserta (Nicodemo Petteruti, diventato rutelliano), come il sindaco di Ravello (Paolo Imperato) o come l'ex responsabile del sud per la costituzione del Pd Rosa Suppa (che appena due settimane fa ha deciso di lasciare il partito).

    Casi simili si trovano anche in Abruzzo,
    nelle Marche, in Umbria e persino in Toscana. Ma tra tutte le regioni che offrono maggiori preoccupazioni al Pd di Bersani quella da tenere più sotto controllo è certamente il Veneto, dove sono sempre di più i democratici (soprattutto veltroniani) che dicono di essere pronti a mollare il segretario per convergere nel nuovo movimento fondato da Massimo Cacciari: Verso nord. Il Veneto, insieme con la Calabria, è una delle regioni italiane in cui il Pd ha registrato uno dei più pesanti cali di consenso e non è un mistero che da queste parti i voti persi dal maggior partito dell'opposizione sono stati, in soli due anni, circa 350 mila (per capirci: alle politiche del 2008 il Pd prese il 26 per cento e alle regionali di soli due anni dopo il 20, sei punti in meno). Anche per questo il nuovo movimento cacciariano – che verrà presentato ufficialmente domani pomeriggio a Mestre dall'ex sindaco di Venezia e dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi – è diventato uno dei fenomeni politici che in questo momento, almeno qui nel nord-est, attrae molti ribelli democratici. E il manifesto di Verso nord, intanto, nel nord-est è stato già firmato da alcuni importanti esponenti democratici: il sindaco vicentino del Pd Achille Variati, lo storico leader della Cgia, l'associazione degli artigiani di Mestre, Giuseppe Bortolussi (già candidato sindaco di Venezia), il senatore del Pd Maurizio Fistarol (che entro l'anno probabilmente lascerà il gruppo del Pd a Palazzo Madama), l'ex vicesegretario regionale veneto del Pd Andrea Causin e il consigliere regionale Diego Bottacin, che proprio venerdì scorso ha presentato alla segreteria del partito la sua lettera di dimissioni.


    “Ormai per me non c'erano più le condizioni per rimanere dentro al Pd. Quello che sostengo da tempo si sta inesorabilmente avverando: un Pd sempre più a sinistra e in difficoltà, orientato a contendere la leadership dell'opposizione a Di Pietro e Vendola”.
    Diego Bottacin, consigliere regionale del Veneto, ha lasciato il Partito democratico il 19 ottobre del 2010.


    Ma che il contenitore del Partito democratico si sia lentamente svuotato per riempirsi con un nuovo liquido potenzialmente letale per la vita del Pd lo si coglie bene anche da altri piccoli dettagli; e uno in particolare è forse quello più interessante. Ricordate quando nella primavera di tre anni fa Romano Prodi annunciò con grande orgoglio la nascita di un importante comitato formato da quarantacinque illustri democratici che con il loro lavoro avrebbero dovuto creare le basi per la nascita del Pd? Era il 23 maggio del 2007 e quella mattina, nella storica sede dell'Ulivo di piazza Santi Apostoli, a Roma, a due passi da piazza Venezia, fecero il loro ingresso quarantacinque personalità “rappresentanti le diverse sensibilità politiche che concorrevano alla formazione del Pd” (tra di loro c'era anche Gad Lerner). Bene: sono passati poco più di tre anni e molte di quelle teste che avrebbero dovuto attivarsi per tracciare la rotta entro la quale far viaggiare il barcone del Pd hanno scelto, anche loro, di abbandonare la nave.

    Tra i quarantacinque, ricorderete,
    c'era l'ex premier Lamberto Dini (che oggi è un illustre parlamentare del Pdl), c'era il cofondatore del Pd Francesco Rutelli (oggi leader dell'Api), c'era l'ex presidente della Camera Marco Follini (oggi stuzzicato dall'idea di abbandonare il Pd qualora Bersani decidesse davvero di allearsi con Vendola), c'era il consigliere di Romano Prodi Angelo Rovati (che oggi non risulta neppure essere iscritto al Pd di Bersani), c'era l'ex ministro Linda Lanzillotta (braccio destro di Rutelli nell'Api), c'era Vilma Mazzocco (oggi coordinatrice regionale dell'Api in Basilicata) e c'era anche la repubblicana Luciana Sbarbati (che ha lasciato il Pd per aderire al gruppo Misto). C'era insomma, in quel comitato, l'immagine plastica di un partito che era nato per custodire sotto il suo mantello il maggior numero di identità e di esperienze possibili e che dopo soli tre anni di vita si ritrova semplicemente a non avere più le proprie ali.


    “Il Partito democratico non è più un partito né liberale né riformista e la mia scelta, tanto sofferta quanto irrevocabile, è dovuta alla dolorosa presa d'atto del fallimento del progetto originario del Pd”.

    Nicodemo Petteruti, sindaco di Caserta, ha lasciato il Partito democratico il 9 febbraio del 2010.


    E in tutto questo che cosa dice il segretario? A chi lo accusa di aver dato il via a una modifica radicale dell'identità del Partito democratico, e a chi lo accusa di aver ormai rinunciato all'idea di formare un Pd capace di rappresentare tutte le anime del centrosinistra italiano, Pier Luigi Bersani risponde offrendo una versione dei fatti piuttosto chiara. Secondo il leader dei democratici, il progetto del Pd non può contemplare l'idea che vi sia un unico partito che si faccia portavoce di tutte le forze del centrosinistra ed è proprio per questo che la così detta vocazione maggioritaria (parola chiave del veltronismo) è di per sé un progetto perdente che porterebbe l'Italia a un rischio che in questo momento nessuno si potrebbe permettere. Ovvero: “Disperdere le forze del centrosinistra e non impegnarsi fino in fondo per favorire la nascita di una vera alternativa democratica”. In un certo senso, dunque, l'idea di Bersani – partito forte che diventa perno di una sterminata alleanza democratica che va dall'estrema sinistra all'estremo centro – è l'evoluzione perfetta di una vecchia teoria che costituisce da anni il cuore forte del pensiero dalemiano: dar vita a un partito in grado di mettere insieme le forze della sinistra e delegare a un partito più di centro la raccolta del consenso dei moderati. Domanda: ma davvero il Pd sta andando troppo a sinistra? “Io credo di sì – ci dice Giuseppe Fioroni, ex ministro dell'Istruzione e promotore con Walter Veltroni del famoso documento dei ribelli del Pd – e credo davvero che la tendenza a far scivolare il baricentro del partito sul suo versante più sinistro oggi sia un fenomeno difficilmente contestabile. E' vero, qualcuno oggi è convinto che il Pd sia simile al Pci. Io posso dire che mi auguro che il mio partito riesca a mantenere vivo lo spirito riformatore con cui nacque tre anni fa”.

    L'impressione che il Partito democratico si stia trasformando in una realtà le cui dimensioni elettorali presentano numerose analogie con quelle ottenute nel passato dal Partito comunista sembra essere però un'ipotesi tutt'altro che bizzarra. Come ammesso un anno fa persino dall'attuale vicesegretario del Pd Enrico Letta, nel suo libro “Costruire una cattedrale” (edito da Mondadori), “l'insediamento elettorale del Pd coincide in modo impressionante con quello del Pci di trent'anni fa”. E in effetti, se consideriamo le ultime elezioni a cui ha partecipato il Pd, i risultati dei democratici hanno finora registrato un'oscillazione simile a quella raggiunta nel passato dal Partito comunista. Un'oscillazione che va dal 33,2 per cento conquistato nel 2008 alle politiche al minimo del 26,1 delle ultime regionali. E a questo va naturalmente aggiunto che le uniche regioni italiane ancora governate dal Pd sono sempre quelle, sono sempre le stesse, sono sempre le regioni rosse: Toscana, Umbria, Emilia Romagna, Marche e Liguria. “Eh sì – racconta Giorgio Tonini, senatore dem –  i numeri del Pd di oggi non sono così differenti rispetto a quelli incassati anni fa dal vecchio Pci. Pensate alla grande avanzata del 1976, quando sotto la guida di Enrico Berlinguer il Pci ottenne il 34,3 per cento dei voti (ma magari fossimo come il Pci di Berlinguer!) e pensate soprattutto alle elezioni del 1987, quando sotto la guida di Alessandro Natta i comunisti toccarono quota 26,6 per cento. E' tutto qui, secondo me, il vero dramma del Partito democratico. Tutto nel non essere riusciti ad allargare i nostri orizzonti, nel non essere riusciti a migliorare la mappa territoriale del nostro consenso e nel non essere soprattutto riusciti a creare nuovi elettori. Insomma non prendiamoci troppo in giro: chi vota Pd oggi spesso lo fa soltanto perché riesce a rintracciare nel partito un tratto d'identità perduta, non certo perché vede nel Pd qualcosa di nuovo”.


    “In questo Pd non esiste più uno spazio effettivo per la presenza di una componente laica e riformista. E restare in questo partito, per me, non ha più senso”.
    Giovanni Fittante, consigliere comunale di Firenze, ha lasciato il Partito democratico il 2 agosto del 2010.


    Tra gli indizi in grado di testimoniare un possibile sbilanciamento del Pd sul suo versante più sinistro vi è tutto il capitolo legato alla complicatissima questione della collocazione europea. In Europa, si sa, il Pd fa ancora parte del gruppo parlamentare dei socialisti (Pse) e nell'attesa che questa posizione “transitoria” (diciamo) venga chiarita, i cattodemocratici hanno iniziato seriamente a borbottare. All'inizio dell'anno, sei di loro hanno rifiutato di iscriversi al gruppo Pse-Pd e hanno scelto di essere rappresentati in Parlamento da un altro gruppo (il Pde, il gruppo di Bayrou-Rutelli); e come ci conferma il senatore del Pd Mauro Ceruti, uno degli autori del manifesto dei valori del partito, “se nei prossimi mesi qualcosa non cambierà non è escluso che dal gruppo fuoriesca anche qualche altro deputato”. “Il nostro partito – continua Ceruti – era nato per promuovere l'incontro di culture politiche riformiste e riformatrici con radici diverse, ma la verità è che oggi il Pd rischia di trasformarsi in qualcosa di drammaticamente simile a una nuova socialdemocrazia”. A complicare la già confusissima questione della collocazione europea del Pd ci si è messo poi anche l'ex presidente del Consiglio Massimo D'Alema. Pochi mesi fa, il capo del Copasir è stato infatti nominato alla guida della più importante fondazione politica europea. Nel corso dei mesi D'Alema non ha mai perso occasione per rivendicare con orgoglio la mission dichiarata del think tank di cui oggi è presidente. Ovvero: “Riscrivere l'agenda dei progressisti europei ispirandosi a ciò che di buono ha lasciato in eredità la vecchia socialdemocrazia”.


    “Negli ultimi mesi ho vissuto la mia coerenza come una gabbia che mi costringeva in un partito sfinito da mille compromessi, il cui progetto è ormai fallito, mai nato, un partito in cui non credo più”.
    Rosa Suppa, responsabile del sud nel 2008 per la costituzione del Pd, ha lasciato il Partito democratico il 9 ottobre 2010.


    Ci dice con un sorriso un giovane
    parlamentare cattolico del Pd che per ovvie ragioni chiede di aver garantito l'anonimato: “Vedete, tutti coloro che nel Partito democratico sono estranei alla vecchia famiglia comunista, diessina o pidiessina, in questo momento fanno davvero fatica a sentirsi parte di un progetto unitario. La scelta per esempio di scendere in piazza con gli operai della Fiom, seppure a titolo personale, e di stringere alleanze con politici come Nichi Vendola non fa che rafforzare quella sensazione di sentirci un pochino prigionieri in questo strano Pd. Si parla spesso poi di tutti i dirigenti, i parlamentari, gli assessori, i consiglieri che in questi mesi hanno deciso di andare via dal Pd ma io credo che sarebbe opportuno notare anche chi sono quelli che negli ultimi tempi hanno deciso di rientrarci, nel nostro Pd. Penso per esempio a tre persone che tempo fa avevano scelto di non aderire al Pd perché diventato un partito ‘troppo poco di sinistra' e che ora hanno improvvisamente scelto di rientrare a casa. Due persone che nel Pci, nel Pds e nei Ds oggi ci starebbero da dio. Penso a Gavino Angius, che se non ricordo male fu uno di quelli più contrari allo scioglimento dei Ds nel Pd e penso soprattutto a Pietro Folena, che se non ricordo male era a capo della corrente più sinistra dei Ds di Fassino. Beh, ci manca solo il grande Achille Occhetto e qui abbiamo rifatto davvero il Pci”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.