Fascismo non totalitario, liberalismo corporativo. La revisione di Cassese

Marina Valensise

La tesi è pacifica, ma solo qualche anno fa poteva risultare insopportabile. Il fascismo non fu uno stato totalitario, come scrisse Giovanni Amendola e come ripeté Mussolini. Conservò parte delle istituzioni liberali, mantenendo la monarchia, il Senato, lo Statuto albertino, venendo a patti con la chiesa cattolica, riattivando vari lasciti della Destra storica. E parte della “Costituzione economica” fascista sopravvisse nel postfascismo e nella Repubblica nata dalla resistenza che mantenne le strutture della amministrazione parallela, dall'Iri, all'Imi.

    La tesi è pacifica, ma solo qualche anno fa poteva risultare insopportabile. Il fascismo non fu uno stato totalitario, come scrisse Giovanni Amendola e come ripeté Mussolini. Conservò parte delle istituzioni liberali, mantenendo la monarchia, il Senato, lo Statuto albertino, venendo a patti con la chiesa cattolica, riattivando vari lasciti della Destra storica. E parte della “Costituzione economica” fascista sopravvisse nel postfascismo e nella Repubblica nata dalla resistenza che mantenne le strutture della amministrazione parallela, dall'Iri, all'Imi; e conservò almeno due terzi delle vecchie norme amministrative fasciste: dalla legge bancaria del 1936, al Codice di procedura civile, dal Codice penale alla legge Bottai sulla tutela dei Beni culturali.

    A sviluppare oggi questa tesi, sostenuta nel 1951 da una filosofa della politica come Hannah Arendt e dagli storici Renzo De Felice e Alberto Aquarone, non è un revisionista in cerca di consensi o un polemista orfano di provocazioni, ma un giurista senza pregiudizi. Sabino Cassese, giudice costituzionale nominato da Carlo Azeglio Ciampi, amministrativista allievo del grande Massimo Severo Giannini, appartiene infatti a quella sinistra riformista che preferisce aprirsi alla dialettica con la destra, anziché arroccarsi nell'ostracismo per denunciare il vulnus della democrazia “sempre in bilico”. Da qui, la sua disinibita ricostruzione in un saggio breve ma di sicuro successo (“Lo Stato fascista”, Il Mulino, 150 pagine, 14 euro) che affronta temi ancora scabrosi come la concentrazione dei poteri, l'esecutivo forte, la personalizzazione istituzionalizzata, l'efficienza dello stato, riesumandone tutte le stratificazioni.

    Sensibile all'attualità (famosa la sua diagnosi su “Lo Stato introvabile”, Donzelli 1998), la messa a punto di Cassese nasce da un seminario alla Normale di Pisa, dove è ordinario fuori ruolo di Teoria dello stato. E infatti ha un'ambizione euristica: stabilire cioè l'interesse di una teoria per comprendere la realtà. Da questo punto di vista, il verdetto di Cassese è drastico: definire il fascismo uno stato totalitario non è di grande interesse e può essere addirittura fuorviante. E' vero che lo stato fascista fu una combinazione di elementi eterogenei. Riutilizzò gli strumenti dello stato liberale, depotenziandoli e riadattandoli; ne reintegrò le leggi in chiave autoritaria, per esempio in fatto di libertà di stampa e associazione, di pubblica sicurezza e difesa dello stato; modificò le forme del governo integrando partito e stato, disciplinando l'accesso al pubblico impiego, sopprimendo il diritto di voto, sostituendo le rappresentanze elettive con quelle organiche, trasferendo la conflittualità sociale nello stato e così pluralizzandolo. Crolla quindi l'idea del fascismo come parentesi, cara a liberali e antifascisti: “Corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una distanza tra il fascismo e se stessi che alla realtà dei fatti”, scrive Cassese, che ora ne estende la dimostrazione anche alla democrazia postfascista.

    L'ordine corporativo, in effetti, precede il fascismo e sopravvive alla sua fine. Gli ordini professionali, costituiti in forma pubblica con funzioni di governo del settore, erano una caratteristica dell'Italia liberale. Il fascismo se ne impadronì, per realizzare l'idea antiliberale di una nuova sovranità, di una società che amministra se stessa e si autoamministra: “Il corporativismo è l'economia disciplinata, e quindi controllata (…). Supera il socialismo e il liberalismo, crea una nuova sintesi”, diceva Mussolini nel 1933, prima di abolire la Camera dei Deputati e istituire quella dei Fasci e delle Corporazioni. Ma nel postfascismo fu il sindacalista socialista Bruno Buozzi a sostenere la necessità di strutture corporative democratiche.

    Il fatto è che le mentalità cambiano più lentamente delle istituzioni. E il corporativismo, lungi dall'essere uno “specchietto per le allodole”, come lo stesso Cassese ritenne a lungo sulla scorta dell'antifascista Gaetano Salvemini, in realtà offrì la copertura per accordi monopolistici, fu il luogo di pratiche collusive in cui difendere le posizioni dominanti e tutelare i monopoli invece che la concorrenza. Sta qui la principale novità di questo saggio. “Dopo anni, ho fatto mea culpa circa l'inefficacia della costruzione corporativa”, confessa Cassese, che si laureò nel 1956 con una tesi sul corporativismo. “Non parlo di rivalutazione, mi astengo da giudizi di valore, uso il ‘corporativismo' spogliato dalle connotazioni negative  come il bisturi di un chirurgo per capire certe realtà. Se insistiamo nell'usare come unico metro di analisi della politica italiana il modello schumpeteriano della concorrenza, e della competizione, finiamo per trascurare un aspetto essenziale della nostra tradizione culturale nazionale”.