Giustizia coranica e giustizia cristiana nel film sui monaci

Giuliano Ferrara

La comunità trappista è rappresentata attraverso le sue facce, straordinario casting, e le sue opere quotidiane, straordinario miracolo di pura umanità. Non contesto (sarei un demente) la convivenza benedicente degli otto religiosi con la popolazione musulmana.

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    Al direttore - I suoi giudizi non mi lasciano mai indifferente e per questo, a proposito del film “Des hommes et des dieux” (“Uomini di Dio”), voglio proprio capire se il granchio l'ho preso io entusiasmandomi e segnalandolo ai miei lettori come un film da non perdere, o l'ha preso lei bollandolo inesorabilmente come “un racconto irenista, bello e manipolatorio”. Secondo lei, infatti, sarebbe impossibile che quei monaci sgozzati dai terroristi algerini nel 1998 vivessero da anni con la popolazione musulmana dei villaggi maghrebini dell'Atlante un rapporto intenso e fecondo, costruito su una fiducia e una stima reciproca non fittizie. Possibile, si domanda lei, quando il Corano giustifica la doppiezza con l'infedele e, ultimamente, invita a forzarne la conversione all'islam anche con la violenza? Io credo che sia stato possibile. Per due ragioni, basate su fatti (e lasciando perdere l'eterna discettazione sulle altre sure del Corano che esortano invece al rispetto delle fedi bibliche). La prima mi risulta da una breve ricerca sulla sceneggiatura del film: è ricavata da una documentazione originale, costituita da diari e lettere dei monaci stessi, oltre che sulla testimonianza di due di loro sopravvissuti alla strage. La seconda ragione la traggo da una conoscenza diretta di alcuni ambienti  di vita nordafricani e del vicino oriente, dove ho potuto toccare con mano come la presenza dei cristiani rappresentasse spesso per le popolazioni musulmane un punto d'appoggio, un focolaio di umanità cui guardare come – è un'espressione usata da una donna islamica nel film – a un “ramo su cui stiamo posati noi stessi come uccelli”. Questo, certamente, prima del ciclone fondamentalista che ha seminato sgomento e morte innanzitutto tra la gente semplice dell'islam (e l'immane mattatoio algerino ne è un tragico esempio). Anche per questo (il martirio è in ogni caso una testimonianza feconda) ritengo che aver raccontato in cinema il sacrificio di questi trappisti – scavando peraltro mirabilmente con la camera dentro i loro cuori per rappresentarne la conversione e cioè il dialogo con Cristo – sia stata un'opera vera e bella e per nulla affatto, come scrive lei, un modo per infliggere loro una “seconda morte”.
    Claudio Mésoniat, Lugano

    Ho scritto bello. La comunità trappista è rappresentata attraverso le sue facce, straordinario casting, e le sue opere quotidiane, straordinario miracolo di pura umanità. Non contesto (sarei un demente) la convivenza benedicente degli otto religiosi con la popolazione musulmana, la neutralità politica (ovvia) dei monaci, il loro amare il nemico, la disponibilità al martirio umanamente connotata dalla paura. Bello. Ma anche irenista e manipolatorio, una seconda morte per i monaci. Forse quest'ultima è espressione troppo cruda, ingenerosa, e in questo lei può avere ragione. Ma il martirio è muto, si sente l'ingombrante presenza del complesso di colpa dell'occidente, il passato coloniale che non rende possibile fissare un confine di civiltà tra la giustizia coranica e la giustizia cristiana oggi: la prima proselitistica, intollerante, violenta, la seconda no. 

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.