Colpo di stadio a Belgrado
L'ultima volta hanno distrutto la città, che significa vetrine rotte, cassonetti in fiamme nelle piazze del centro e tanto lavoro per gli ospedali. Anche per questo, il governo serbo ha deciso di usare le maniere forti con i gruppi di tifosi arrivati al Maracanà di Belgrado per il derby di sabato tra la Stella Rossa e il Partizan, la sfida calcistica più attesa (e temuta) dell'anno.
L'ultima volta hanno distrutto la città, che significa vetrine rotte, cassonetti in fiamme nelle piazze del centro e tanto lavoro per gli ospedali. Anche per questo, il governo serbo ha deciso di usare le maniere forti con i gruppi di tifosi arrivati al Maracanà di Belgrado per il derby di sabato tra la Stella Rossa e il Partizan, la sfida calcistica più attesa (e temuta) dell'anno. Secondo i giornali c'erano cinquemila poliziotti nelle strade della capitale, ma l'impressione è che fossero molti di più. Hanno bloccato per ore ogni incrocio fra il Parlamento e la stazione ferroviaria, hanno preso le strade intorno allo stadio, hanno piazzato i blindati nei punti strategici della città. Una pattuglia numerosa ha protetto l'ambasciata americana e gli uffici del governo sul bulevar Oslobojenia. A piazza Slavia, la spianata enorme nella parte est della città, sono entrati persino negli alberghi. Sembrava davvero un coprifuoco.
Il calcio in Serbia non è uno sport come gli altri e gli hooligan sono un partito decisivo per gli equilibri del paese. A ottobre hanno portato a termine due azioni eclatanti: prima sono riusciti a fermare una manifestazione di attivisti gay, poi hanno invaso Genova e hanno interrotto l'incontro tra la loro Nazionale e quella italiana. Le immagini di Ivan Bogdanovic, il tifoso corpulento e tatuato che taglia una rete di protezione con il viso coperto da un passamontagna, sono diventate in fretta la fotografia del nuovo pericolo serbo. “Pensate davvero che gli attacchi siano arrivati per caso? – dice Blic, uno dei quotidiani più popolari in città – Queste sono le prove generali di un colpo di stato”.
A Blic conoscono gli hooligan meglio della polizia. La loro redazione è al decimo piano del palazzo Imex, un edificio di latta e cemento poco lontano dall'Università. Dentro è ancora permesso fumare e il numero delle giornaliste è decisamente superiore rispetto a quello dei colleghi maschi. Due reporter incontrano il Foglio ma chiedono di non essere citati perché è meglio “evitare la popolarità”. Gli hooligan, spiegano, hanno pianificato con cura l'attacco al Gay Pride del 10 ottobre. Erano centinaia e sono arrivati a Belgrado da ogni città della Serbia. Molti non avevano neanche diciotto anni ma si muovevano come i soldati di un esercito: alcuni combattevano in strada, altri attraversavano la città in scooter per garantire che i reparti restassero collegati. Il Gay Pride era soltanto una scusa per colpire obiettivi prestigiosi come la sede del Partito democratico sulla strada Krunska, che è andata a fuoco, il quartier generale dei socialisti sulla Simina, distrutto a colpi di spranga, e quello della televisione pubblica. Un deposito di armi è stato trovato poco lontano dall'ambasciata francese e le forze dell'ordine credono che ce ne fossero altri sparsi per la città. Durante gli scontri, 250 persone sono finite nelle camionette della polizia, ma i veri leader del movimento non erano in strada quel giorno. Ivan Bogdanovic non c'era, e non c'era neppure Marko Vuckotic, il capo dei tifosi della Stella Rossa. I giornalisti di Blic dicono che gli hooligan hanno mandato avanti i giovani, truppe fresche e disposte a tutto pur di mettersi in mostra. “Se avessero detto loro di andare a visitare la casa di qualche politico o di un uomo d'affari, quelli lo avrebbero fatto senza tante storie. E' così che funziona una rivolta”.
Gli investigatori serbi dicono che l'attacco contro il Gay Pride e quello di Genova hanno lo stesso mandante ed esecutori molto simili. La differenza è una: a Belgrado, gli hooligan hanno mandato avanti i giovani, ma in Italia sono arrivati i corpi speciali. Bogdanovic gode di grande rispetto negli stadi di Belgrado: si dice che una volta abbia convinto un giocatore della Stella Rossa a indossare una maglietta che chiede la liberazione di un tifoso condannato a dieci anni di carcere per aver ferito un poliziotto. E' davvero possibile che qualcuno pianifichi una sommossa contro il governo di un paese europeo? Secondo un professore dell'Università di Belgrado, Nebojsa Vladic, in Serbia può accadere. “Il nostro paese è pieno di ufficiali in congedo che hanno combattuto in Croazia, in Bosnia e in Kosovo, che hanno fatto i contractor in Iraq e in Afghanistan e in altri teatri di guerra – dice al Foglio – Sono professionisti, gente che conosce i campi di battaglia. Un'azione come quella del Gay Pride si organizza con duecentomila dollari. Credo che ci siano persone disposte a spenderli per mettersi in mostra nel mondo della malavita”.
Non sarebbe la prima volta: negli ultimi quindici anni, i gruppi di hooligan serbi hanno colpito molte volte a Belgrado e lo hanno fatto con precisione politica. Nel 2008, quando Washington ha riconosciuto l'indipendenza del Kosovo, hanno preso d'assalto la sede dell'ambasciata americana, che ora è sorvegliata come un fortino dalle squadre speciali della polizia. Ancora prima, i tifosi partecipavano alle manifestazioni contro il regime di Slobodan Milosevic. Persino il capo ultras Vuckotic, che oggi è considerato un pericolo pubblico dal governo di Belgrado, un tempo sfidava il dittatore nemico dei democratici. Negli anni di Milosevic era la polizia a picchiare, mentre ora accade il contrario. Gli hooligan tornano ora che Belgrado si avvicina all'ingresso nell'Ue: i Ventisette ministri degli Esteri europei hanno sbloccato ieri la richiesta di adesione serba, che sarà sottoposta all'esame della Commissione. Il futuro del dossier dipende dai progressi nella caccia a due criminali di guerra, Ratko Mladic e Goran Hadzic, che sono ancora latitanti. Il capo della Farnesina, Franco Frattini, ha detto che si tratta di un “giusto segnale” arrivato “al momento giusto per l'intera regione balcanica”.
Quando gli hooligan hanno cominciato la loro nuova campagna di violenza, i giornali europei hanno rivolto l'attenzione ai gruppi nazionalisti di Belgrado. Sono numerosi, hanno rapporti con alcuni partiti politici e godono di un certo seguito presso l'opinione pubblica. Durante l'attacco al Gay Pride, la polizia ha arrestato Mladen Obradovic, il leader del movimento Obraz, che si traduce con “orgoglio”. Gli agenti gli hanno trovato addosso una lista con trenta nomi di possibili affiliati. Non è una coincidenza, ma non significa che i nazionalisti dirigano la rivolta. I reporter di Blic pensano l'esatto opposto: da una parte ci sono Obraz e il Movimento 1389 con i loro programmi xenofobi, le manifestazioni piene di bandiere serbe e il continuo richiamo ai valori della cultura ortodossa; dall'altra gli hooligan, le squadracce di tifosi della Stella Rossa e del Partizan che sono al servizio della malavita. Oggi i due mondi restano separati: questa è una fortuna per il governo.
In un bar di piazza della Repubblica, il luogo in cui si danno appuntamento i giovani di Belgrado, Radoiko Ljubicic accetta di incontrare il Foglio. E' il leader del Movimento 1389, che prende il nome da una storica battaglia tra l'esercito serbo e quello ottomano. Veste di nero, beve tè e tiene in mano un blocchetto per gli appunti che consulta frequentemente. Il suo gruppo è uno dei più seguiti dalle autorità serbe: entro la fine dell'anno, la Corte suprema deciderà sulla proposta di mettere al bando il suo gruppo e Obraz. Non ci sono numeri precisi sulle dimensioni del Movimento 1389: il leader dice soltanto che “i sostenitori sono abbastanza” e parla di “sedi nelle principali città serbe e in alcuni centri bosniaci”. Secondo gli analisti, l'organizzazione riceve finanziamenti dall'estero e ha formato un'alleanza solida con i Nashi, il movimento giovanile vicino al premier russo, Vladimir Putin – Ljubicic conferma soltanto una parte della versione, ovvero la fratellanza con i Nashi.
“Non abbiamo collegamenti con le tifoserie, ma condividiamo alcuni dei loro valori – spiega al Foglio – Perché vi meravigliate se dicono che il Kosovo appartiene alla Serbia o se si oppongono al Gay Pride? Qui tutti la pensano allo stesso modo su certi argomenti, dagli hooligan ai preti. Organizzare una manifestazione omosessuale a Belgrado è come fare la festa del maiale a Teheran. E' una cosa assolutamente contraria ai valori del nostro popolo. Eravamo in strada anche noi il giorno del Gay Pride e abbiamo manifestato pacificamente com'è nostra abitudine. Lo dimostra il fatto che nessuno di noi è stato arrestato. Tutto questo baccano fa molto comodo al governo: il presidente, Boris Tadic, è riuscito a convincere l'Europa che il problema siamo noi e ora tutti lo sostengono quando dice che vuole chiudere i movimenti nazionalisti. Ma, in un anno di indagini, la Corte suprema non ha trovato alcuna prova contro di noi”. I nazionalisti di Ljubicic si oppongono all'ingresso del paese nell'Unione europea e non vogliono che la Serbia faccia parte della Nato.
Pochi pensano che abbiano il denaro e le capacità per organizzare una rivolta e gestire un esercito di hooligan. Chi ha intenzione di seguire un progetto simile ha bisogno di più soldi, di più carisma, di amicizie molto più influenti. E di un rifugio sicuro.
Negli anni Novanta, quando è cominciata la Guerra dei Balcani, un boss della mafia protetto dal governo ha radunato migliaia di giovani hooligan in una formazione paramilitare, la Guardia volontaria serba (Srpska dobrovoljaaka garda). Il boss si chiamava Zeljko Raznatovic, ma è passato alla storia come la “tigre” Arkan, uno dei criminali più spietati di quell'epoca. Il calcio, per lui, non era soltanto una passione ma uno strumento per fare soldi e guadagnare consensi. Dopo la guerra acquistò una società sportiva, l'Obilic, che prende il nome dal nobile serbo che uccise il sultano Murad I nella battaglia del 1389. Raznatovic morì nel 2000 in un agguato nella hall dell'InterContinental. Al suo nome sono legati alcuni dei fatti più tragici capitati in quegli anni. Raznatovic riuscì in una impresa singolare: mettere insieme i tifosi violenti e gli ultranazionalisti in una sola, gigantesca, organizzazione criminale. La sua milizia si è sciolta nel 1996, ma può essere “riattivata” in caso di emergenza.
Ancora oggi, la mafia ha grandi interessi nel mondo del calcio: i boss hanno osservatori che seguono le giovani promesse nei campetti della Serbia, si offrono di sostenere il loro percorso professionale e ottengono una ricompensa finanziaria in caso di cessione. La stampa europea ha parlato a lungo di Vladimir Stojkovic, il portiere del Partizan che ha ricevuto minacce da alcuni tifosi. Secondo alcuni, l'episodio è legato al passaggio del giocatore dalla Stella Rossa al Partizan, i due club più importanti di Belgrado. In realtà, la polizia sospetta che Stojkovic abbia rifiutato di pagare una commissione a Dejan Stojanovic, noto come Keka, un narcotraficante che gestisce gli affari da una località segreta in Sudamerica. Stojkovic è stato uno dei calciatori più bersagliati dai cori degli hooligan nella partita di Genova contro l'Italia. La partita di sabato tra la Stella Rossa e il Partizan è finita 1-0 per gli ospiti. Il gran numero di poliziotti schierati nelle strade e nelle piazze di Belgrado ha impedito che i tifosi attaccassero ancora i centri della politica serba. Poche ore prima che la gara cominciasse, il governo ha approvato un provvedimento di emergenza che permette di chiudere in cella per trenta giorni e senza processo i tifosi arrestati durante eventuali disordini. Per questa volta, la guerriglia ha lasciato il posto a un paio di striscioni mostrati nella curva della Stella Rossa durante l'intervallo. Uno diceva: “In Francia scontri e democrazia, in Serbia hooligan e fascismo”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano