Concorsi e ricorsi storici
Sbirri e malacarne, così il pentitismo mediatico ha ribaltato verità e ruoli
“Succede che i processi, questi riti difficili che semplificano tutto, non riescono più a semplificare nulla, e anzi ingarbugliano e si ingarbugliano per sempre”. Lo dice Massimo Bordin, ex direttore di Radio radicale – voce della rassegna “Stampa e regime” – e uno degli osservatori più attenti delle vicende giudiziarie e mafiologiche d'Italia. Si riferisce alle inchieste di Caltanissetta e di Palermo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza.
“Succede che i processi, questi riti difficili che semplificano tutto, non riescono più a semplificare nulla, e anzi ingarbugliano e si ingarbugliano per sempre”. Lo dice Massimo Bordin, ex direttore di Radio radicale – voce della rassegna “Stampa e regime” – e uno degli osservatori più attenti delle vicende giudiziarie e mafiologiche d'Italia. Si riferisce alle inchieste di Caltanissetta e di Palermo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza che gettano un'ombra d'infamia sull'agente dei servizi Lorenzo Narracci. Ma Bordin parla anche delle rivelazioni insinuanti di Massimo Ciancimino contro il generale Mario Mori, nuovamente accusato di fatti per i quali è già stato assolto. “In un universo ormai scardinato, i superpoliziotti di ieri sono i colpevoli di oggi, i superpolitici di ieri sono i mascalzoni di oggi, e i pentiti, anche i meno credibili, riscrivono la storia secondo un copione che ha già conquistato gli italiani”.
La trattativa stato-mafia? “Secondo loro Mori avrebbe negoziato con Riina. Ma allora com'è possibile che poi, proprio lui, lo ha arrestato? Così come è stato arrestato anche Provenzano. E questo famoso ‘papello'? Non una delle richieste si è realizzata. La fantomatica trattativa non ha avuto alcun esito”. I dichiaranti pentiti sono credibili non perché in grado di provare ciò che dicono, ma perché raccontano, in modo variopinto e a volte ridicolo, quel che abbiamo nel cuore e nel cervello, dice Bordin: “Retribuiti, ridistribuiscono a piene mani la verità di un popolo senza più passato che cerca la propria comunione intorno alle aule di giustizia trasformate in ring. A dispetto della logica, della consequenzialità dei fatti, dei rapporti di causa e di effetto. Certi pentiti raccontano i rapporti tra la politica, lo stato e la criminalità secondo gli schemi della fiction cinematografica. Come fosse la ‘Piovra'”.
Narracci e Mori, secondo la traiettoria che accomuna, pur con sfumature diverse, l'azione delle procure di Caltanissetta e di Palermo, e che si basa anche sulle dichiarazioni di Spatuzza e Ciancimino, avrebbero avuto un ruolo nel negoziato tra lo stato e la criminalità organizzata. Spatuzza accusa Narracci di “assomigliare” a una persona che avrebbe incontrato per pochi minuti, più di diciotto anni fa, nel corso del nauseante rituale con il quale in un garage di Palermo veniva confezionata l'autobomba che il 19 luglio 1992 ha poi ucciso Paolo Borsellino. Sono spicchi della teoria giudiziaria che disegna la “trattativa stato-mafia”. C'è chi non ci crede. “La polizia e i servizi di intelligence, in molti casi, nei rapporti con la mafia si muovono su un crinale scivoloso. Ma un negoziato con lo stato è altra roba”, dice lo storico Salvatore Lupo. “E' sempre successo che la polizia avesse rapporti con i criminali. E' fisiologico, o patologico, a seconda dei casi. Nell'800 non sarebbe mai successo che un magistrato decidesse di inquisire un poliziotto per questa ragione. Il primo caso credo sia stato intorno al 1870. Il giudice Diego Taini incriminò il questore di Palermo, Albanese. Come andò a finire? Il magistrato venne trasferito, ma poi si fece eleggere dall'opposizione in Parlamento e creò grande scandalo”. Dunque è possibile che ci sia stata una trattativa con la mafia negli anni Novanta? “Quando si parla di trattativa stato-mafia mi viene da sorridere. Può esserci un singolo funzionario che per qualche motivo, di servizio o per collusione, coltiva dei rapporti con una fazione della mafia. Ma lo stato cosa c'entra? I rapporti non sono mai apicali. Non lo sono mai stati.
La grande politica non c'entra nulla anche se i mafiosi, persino in buona fede, credono che sia così. Credo sia vero che Stefano Bontade dicesse ai suoi uomini frasi del tipo: ‘Tranquilli, ci penserà Andreotti'. Ma questo non significa che Andreotti fosse mafioso o avesse rapporti diretti con loro. Erano semmai i mafiosi a essere andreottiani. Gente volgare, non certo stupida, ma che ragiona in maniera rozza”. Il professore esce di metafora: “Le bombe le ha messe Riina. E' stato lui a prendere la decisione. Era funzionale alla sua strategia, che è poi quella che aveva imparato dai suoi predecessori e che lui stesso aveva già applicato in precedenza. Gli omicidi di Falcone e Borsellino non sono diversi da quelli di Dalla Chiesa e di Chinnici, due personaggi di prima grandezza. Riina era in difficoltà, puntava sull'annullamento del maxiprocesso e avviò le stragi”. Eppure la teoria giudiziaria, forse più avvincente, è un'altra. Sembrano pensarla come quel personaggio di Sciascia: “La vera mafia non dovete cercarla a Palermo, è a Roma che abita il capo di tutte le mafie”.
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