In Italia ci sono troppi scrittori nuovi, e nessuno legge più quelli recenti

Alfonso Berardinelli

C'è un tale affollamento di nuovi scrittori, tutti iperproduttivi e ansiosi di tenere la scena, che il passato letterario recente, per esempio quello italiano di trenta o cinquant'anni fa, è come se non esistesse. All'inizio si pensò che quel passato venisse evocato con intenzioni autoritarie, repressive e ricattatorie, come volendo dire: Ah, i bei tempi in cui c'era Sciascia, c'era Calvino, c'erano tutti gli altri! Voi non siete niente al confronto!

    C'è un tale affollamento di nuovi scrittori, tutti iperproduttivi e ansiosi di tenere la scena, che il passato letterario recente, per esempio quello italiano di trenta o cinquant'anni fa, è come se non esistesse. All'inizio si pensò che quel passato venisse evocato con intenzioni autoritarie, repressive e ricattatorie, come volendo dire: Ah, i bei tempi in cui c'era Sciascia, c'era Calvino, c'erano tutti gli altri! Voi non siete niente al confronto! Perciò, si disse, se il passato diventa un ricatto, evitiamo di parlarne. Poi, ora, si è cominciato a capire che per gli scrittori italiani defunti proprio non c'è posto.

    Non c'è posto neppure per gli autori che hanno superato i settanta o gli ottanta. Il rapporto che i nuovi autori considerano decisivo non è con scrittori italiani che li hanno preceduti di qualche decennio: non è con Volponi, con Moravia, con Gadda, con Parise, con Giudici; non è neppure con Garboli o La Capria, che pure fino a poco fa sono stati letti con una certa passione, scoperti o riscoperti. Il rapporto che conta è con gli editori e con quello che si aspettano, è con gli scrittori statunitensi, è con i romanzi più venduti, con i festival e con le fiere del libro.
    Problema morale o culturale? No, anche in letteratura il problema è soprattutto quantitativo. Se gli autori e gli scriventi italiani che hanno fra i venticinque e i cinquant'anni sono diverse centinaia, si capisce che non c'è spazio né tempo per chi li ha preceduti. Il filo della letteratura nazionale si è spezzato. Il passato prossimo sembra un passato remoto e solo una dozzina di critici, per deformazione o per dovere, leggono, studiano e cercano di capire che cosa è successo nella nostra cultura con l'ultimo mezzo secolo. Anche in questo, niente di nuovo. Il tempo storico facit saltus. Le sue svolte e i suoi zig zag creano vuoti di memoria e di interesse. E' più facile che si legga il riassunto di un poema epico indiano di millenni fa piuttosto che un libro di poesia di Vittorio Sereni. L'universalismo globalizzato e l'insegnamento delle letterature comparate orienta verso gli autori e le opere monumentali. Anche nella critica i guru universali come Harold Bloom e George Steiner si occupano quasi esclusivamente di classici antichi e moderni: Dante, Shakespeare, Baudelaire, Nietzsche, Joyce, Borges. Solo da noi poteva venire fuori un prodotto genuino, intraducibile e non commerciabile come Cesare Garboli, che passò anni a studiare Giovanni Pascoli, Roberto Longhi, Sandro Penna e Antonio Delfini. I suoi scritti su Molière sono pressoché ignorati anche dagli specialisti di letteratura francese.

    Mi è arrivato “Stella variabile”,
    l'ultimo libro che Vittorio Sereni pubblicò poco prima di morire, ora ristampato nella collana “bianca” Einaudi e mi sembra di sognare. Uscì nel 1981 e lo recensii. Ricevetti persino una sensibile lettera dell'autore, che in due fitte pagine manoscritte, con assoluta discrezione, cercava di spiegare o perfino di giustificare certe caratteristiche del suo stile che forse non avevo apprezzato… Questa ristampa di Sereni è accompagnata da una prefazione di un poeta di oggi, Fabio Pusterla. Dunque a quello che dicevo ci sono eccezioni. Anche la nuova collana Marsilio, Biblioteca Novecento, ripropone Radiguet con prefazione di Nicola Lagioia, e Carlo Coccioli con prefazione di Marco Lodoli. E' una strategia che spinge a rileggere ciò che poteva sembrare acquisito una volta per tutte e invece era semplicemente dimenticato. Il modo che ha Sereni di scrivere poesia può essere spigoloso, quasi goffo o stentato, come per una foga improvvisa che spinge a parlare dopo un lungo silenzio: e viene fuori una specie di mezza prosa spezzata che sa di improvvisazione, o invece si libra in un verso o due perfettamente felici che arrivano da chissà quale rimuginazione segreta. Cito due strofe da poesie diverse : “A certi che so non gli basta / di volermi morto. Tale mi sperano: morto, ma con infamia. Non sanno / che ho fatto di peggio che li ho / miniaturizzati nel ricordo”. O invece: “Quei suoi occhi morati dorati dall'ultimo sole. / Di botto in fianco a lei si è accesa / la città s'imporpora / s'intopazia si smeralda”.
    A che serve dire che Vittorio Sereni, come dicevano una volta le storie letterarie, è un post-montaliano? Certo non serve a leggerlo.