Dopo duemila anni, al Qaida caccia i cristiani dal medio oriente?
Secondo un comunicato diffuso su Internet da al Qaida in Iraq, “tutte le chiese e le organizzazioni cristiane e i loro capi sono un obiettivo legittimo dei mujaheddin”. A quattro giorni dall'attacco alla cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora del perpetuo soccorso di Baghdad – costato la vita ad almeno 58 persone, tra cui tre sacerdoti – i terroristi che si riuniscono sotto la bandiera dello Stato islamico dell'Iraq battono di nuovo sullo stesso pretesto per aggredire i cristiani in medio oriente.
Secondo un comunicato diffuso su Internet da al Qaida in Iraq, “tutte le chiese e le organizzazioni cristiane e i loro capi sono un obiettivo legittimo dei mujaheddin”. A quattro giorni dall'attacco alla cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora del perpetuo soccorso di Baghdad – costato la vita ad almeno 58 persone, tra cui tre sacerdoti – i terroristi che si riuniscono sotto la bandiera dello Stato islamico dell'Iraq battono di nuovo sullo stesso pretesto per aggredire i cristiani in medio oriente. A essere sotto accusa è la chiesa copta egiziana, che avrebbe rinchiuso in un convento le mogli di due sacerdoti copti – Camilia Chehata e Wafa Constantine – come punizione per la loro conversione all'islam.
La notizia della doppia apostasia è stata smentita da tutti, anche dai Fratelli musulmani, ma lo Stato islamico tira dritto: “E' scaduto l'ultimatum che abbiamo lanciato per la liberazione delle due donne musulmane prigioniere. Non abbiamo avuto alcuna risposta e ora siete tutti coinvolti nella guerra all'islam, per cui state attenti alle anime dei vostri seguaci”.
Un portavoce di al Qaida ha detto che l'attacco di domenica a Baghdad è servito ad “accendere la miccia della campagna contro i cristiani”. L'annuncio, purtroppo, è nei canoni dell'ordinario per i fedeli della chiesa irachena, che vent'anni fa erano quasi un milione e mezzo e nel 2003, all'inizio della guerra, erano stimati dall'Onu attorno alle 700 mila persone – il tre per cento della popolazione. Durante il conflitto, quasi 400 mila cristiani sono scappati dal paese, spesso verso la Siria, dove rappresentano il 15 per cento dei rifugiati. Nell'editoriale di ieri, il Monde parlava della “più grande emorragia degli ultimi decenni in medio oriente”, il cui traguardo è segnato: “L'esilio dei cristiani orientali”. Sarebbe la fine dei duemila anni di storia di una comunità cristiana che rivendica con orgoglio la sua discendenza diretta dagli apostoli (attraverso san Tommaso), rifiutando lo status di “terra di missione”.
Secondo l'Onu, “molti cristiani sono il bersaglio di attacchi sistematici e non sono più sicuri qui”. Eden Naby e Jamsheed K. Choksy, dell'americano Foreign Policy, hanno scritto che “c'è la possibilità allarmante che, entro la fine del secolo, non ci sia più una presenza significativa di comunità cristiane in Iraq o in Iran. Le scuole cristiane, gli spazi delle loro comunità, i siti storici e le chiese sono in corso di espropriazione da parte del governo centrale e delle autorità provinciali, delle organizzazioni musulmane finanziate dal governo e dei gruppi islamici radicali. Chi si converte all'islam ottiene in cambio incentivi economici e personali”.
Quando sente queste analisi, monsignor Shlemon Warduni, vescovo cattolico di Baghdad e guida spirituale dei caldei, si infervora: “Invece di fare pubblicità a chi attacca la pace e la sicurezza inneggiando all'estinzione dei cristiani, dovrebbero aiutarci a riottenere i nostri diritti”, dice al Foglio monsignor Warduni, “dove sono la libertà e la democrazia per cui sono venuti a combattere?”. Monsignor Warduni è determinato a resistere – “questo è il nostro paese, qui siamo nati e qui vogliamo essere seppelliti”, dice con fermezza – ma sente di essere stato abbandonato da quelli che chiama genericamente “gli occupanti”: “Quelli che hanno occupato l'Iraq sono venuti e se ne sono andati senza avere alcuna cura della sicurezza del nostro paese, senza lasciarci una vera democrazia. Se vogliono aiutarci a ottenere quello per cui sono venuti devono fare di tutto per riportare la sicurezza nei luoghi cruciali, che poi sono la Palestina, l'Iraq e direi anche il Libano”.
La democrazia potrebbe fare un passo avanti il prossimo lunedì, quando il fragile Parlamento iracheno eleggerà il proprio presidente. Un voto che, a otto mesi dalle elezioni del 7 marzo scorso, potrebbe preparare la strada alla creazione di una coalizione di governo, ancora in bilico tra il vincitore ufficiale, Iyyad Allawi, e il premier uscente, Nouri al Maliki – con lo zampino rumoroso del leader radicale Moqtada al Sadr e del regime di Teheran. Le speranze avare della politica irachena, però, non fanno molta presa su monsignor Warduni, che osserva: “Io non sono preoccupato, l'Iraq è un paese molto proficuo e pieno di possibilità, se ci sarà garantita un po' più di sicurezza sociale la chiesa tornerà a fiorire. Noi cercheremo di garantire un minimo di sorveglianza almeno attorno alle chiese principali. Per il resto, io tra mezz'ora celebro la messa, come tutti i giorni. Chiederò l'aiuto al Signore, che è molto meglio di quello degli uomini”.
Da vescovo ausiliare di Baghdad, monsignor Warduni è al centro dell'offensiva martellante di al Qaida. Ma, assicura, “non è semplice dire con chiarezza perché i terroristi ce l'abbiano con noi. Di sicuro i cristiani non hanno fatto male a nessuno: le loro case sono aperte a tutti, le chiese sono pronte ad aiutare chiunque ne abbia bisogno. I fanatici religiosi, che sono aumentati durante la guerra, ci prendono di mira per diversi motivi. A volte ci collegano agli occidentali, come se non fossimo sempre stati qui. Ma, a dire la verità, a volte i terroristi di al Qaida ci attaccano semplicemente perché non vogliono vedere nessuno vivere in pace. Loro pensano che la nostra umiltà e il nostro amore siano una debolezza. E forse lo pensano anche certi governi occidentali, che non sono sempre stati molto svelti nel condannare gli attentati contro la comunità cristiana”.
Gli oltre settecento fedeli che hanno affollato i funerali delle vittime dell'attacco di domenica hanno confortato monsignor Warduni, che è determinato a fare “come Gesù nel giardino degli ulivi: poteva fuggire ma non l'ha fatto. Noi non scappiamo, non per fanatismo ma per principio. Dobbiamo essere pronti anche alla Croce”. Chiedere ai cristiani di non lasciare l'Iraq, esortandoli a vivere con lo spettro quotidiano della morte violenta e del martirio, non è facile, osserva monsignor Warduni: “Certo, un uomo che fugge non è proprio quello che io chiamerei un coraggioso. Noi diciamo alla gente di non andarsene, di restare, ma la cosa è molto difficile. Quando noi diciamo ‘stiamo fermi qui e seguiamo Cristo', spesso i fedeli ci rispondono ‘ma Cristo si può seguire anche altrove'. Ma noi rispondiamo: ‘Ci ha voluto qui, e quindi noi restiamo qui'”. Monsignor Warduni sa di rappresentare quello che resta dell'esigua minoranza non islamica dell'Iraq, ma non teme per il futuro della sua chiesa: “I terroristi qualche volta se lo dimenticano, ma noi siamo qui da prima di loro, come fiori nel giardino dell'Iraq”.
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