L'asso italiano

Lanfranco Pace

Las Vegas, mezzogiorno del 17 luglio. Nella sala principale del Rio Casino comincia il day 8 del massimo evento delle Wsop, le World Series, il campionato del mondo di poker. Si gioca da sette giorni con furore, al ritmo di dodici ore e più al giorno. Dei 7.319 iscritti sono rimasti in ventisette, su tre tavoli. Sono per lo più giocatori professionisti, grandi campioni. Uno di questi ha ancora faccia da adolescente ma occhi vivaci e aria impunita da sbruffone. Porta il solito cappellino da baseball con la visiera rivolta all'indietro.

    Las Vegas, mezzogiorno del 17 luglio. Nella sala principale del Rio Casino comincia il day 8 del massimo evento delle Wsop, le World Series, il campionato del mondo di poker. Si gioca da sette giorni con furore, al ritmo di dodici ore e più al giorno. Dei 7.319 iscritti sono rimasti in ventisette, su tre tavoli. Sono per lo più giocatori professionisti, grandi campioni. Uno di questi ha ancora faccia da adolescente ma occhi vivaci e aria impunita da sbruffone. Porta il solito cappellino da baseball con la visiera rivolta all'indietro. Cuffie da cui ascolta un brano di Bruce Springsteen, sempre lo stesso, ossessivo, fino allo stordimento. Per proteggersi dall'aria condizionata indossa un maglione a strisce orizzontali azzurre e nere che forse non sa di fresco: lo porta da una settimana, come un feticcio. E' notte inoltrata quando sotto gli occhi delle telecamere il giovane spizza le due carte che ha in mano: cinque e sette di picche. Non è gran che, a dire il vero non è niente. Ma siccome ha temperamento aggressivo, rilancia lo stesso. Un avversario da destra rilancia a sua volta, pesantemente. Si chiama Joseph Cheong, è un coreano trapiantato negli Stati Uniti. E' uno che fa paura: perché è uno dei più forti giocatori in circolazione e perché si porta appresso una faccia patibolare che non sfigurerebbe in un film di gangster. Il giovane lo guarda, guarda le proprie carte, poi ancora l'avversario.

    L'adrenalina è in circolo, il cuore s'imballa, il cervello gira a mille. Deve decidere in fretta, il ragazzo. Sa che la teoria raccomanda vivamente di evitare situazioni del genere e, nel caso, di limitare i danni passando senza esitare. Sa anche però che in quel particolare momento e a quel particolare tavolo mollare sarebbe interpretato come segno di grande debolezza, il predatore si trasformerebbe in preda, lo squalo in pollo. Quasi li sente, gli altri, mentre frullano la lingua e pensano a come spartirsi le sue spoglie. Bui, contro-bui e ante, puntate preliminari e obbligatorie, salgono di livello ogni due ore e ora sono molto alti. Il giocatore che non riesce a rubare almeno un piatto ogni giro, rischia di andare, come si dice in gergo, in erosione: le sue chip sarebbero come risucchiate da un vortice e lui cadrebbe nel baratro. E' una sporca guerra, il Texas hold'em senza limiti di puntata, la specialità del poker ormai più diffusa al mondo: bisogna colpire al momento giusto, razziare ogni piatto che non ha legittimo proprietario, attaccare chi ha meno gettoni ed evitare chi ne ha di più fino a che non si ha forza superiore. Il giovane ha davanti molto meno di Cheong ma non sembra disarmato: è come convinto che anche questa volta non sarà eliminato, non crede sia ancora giunta la sua ora. E decide di impegnare quasi un terzo di quello che ha vedendo il rilancio dell'avversario. Il dealer gira le prime tre carte comuni, il cosiddetto flop: sei di picche, sei di fiori, cinque di quadri. Il ragazzo ha chiuso una doppia coppia di sei e cinque, è già qualcosa ma non molto. Dice check, lascia l'iniziativa all'avversario. Che non ci pensa su nemmeno un attimo e spara all in, l'arma assoluta: come dire, se vuoi vedere cosa ho in mano, ragazzo, devi avere fegato e giocarti tutto ma proprio tutto, sennò vai a cuccia. Anche quando non sono gridate ma sussurrate, anche quando a dirle sono fior di belle donne, quelle due parole sanno sempre di tracotanza virile, di insolente aggressività: sono lo specchio di un mondo a parte, fondato sul mito dell'uomo della frontiera. Giocarsi tutto e perdere tutto, d'un solo colpo, alzarsi dalla sedia mentre sui tabelloni luminosi scorre il proprio nome o il proprio numero con accanto la scritta player out è più di una semplice sconfitta, più della fine di un'illusione: è un'umiliazione che brucia fin nelle viscere e nessuno riesce a mascherare.
    Il giovane ha capito che sta davvero rischiando.

    Quel terribile coreano
    proprio qualche giorno prima aveva chiamato all in con asso e otto, centrando un miracoloso otto al flop e mandando a casa un avversario che con asso e re lo dominava nettamente e avrebbe dovuto vincere il piatto, come vorrebbero la statistica e un senso minimo di giustiza. Ma il poker non è equo, anzi è profondamente iniquo. Il ragazzo sa che Cheong potrebbe essere andato all'attacco anche con niente in mano, con lo strapotere di quella montagna di gettoni che ha davanti. In questo caso anche quelle due coppiette, accompagnate da un vago, vaghissimo progetto di scala o di colore, potrebbero andare bene. Nemmeno i grandissimi campioni allenati a mantenere nervi saldi e il controllo di sé per ore, per giorni, fanno sempre la scelta giusta. A volte, la ragione suggerisce di fare una cosa, l'istinto un'altra, il guaio è che nessuno capisce prima se è istinto di morte o di sopravvivenza. Così mentre il ragazzo ripete a se stesso “passa, Fil, passa”, quasi si sorprende ad alzarsi in piedi e a dire “vedo”. E' showdown. Le carte vengono girate. Cheong scopre coppia di assi, asso e asso, la combinazione di partenza più forte in assoluto. Il giovane ha un gesto di sconforto, impallidisce. Ha letto male la mano, non ha capito nulla, ha preso fischi per fiaschi, lucciole per lanterne. Ha tredici probabilità di vincere contro ottantasette, è praticamente nella fossa. Il dealer scopre la quarta carta comune, il cosiddetto turn: è un otto. In sala il pubblico grida: è la carta peggiore per Cheong, ora il ragazzo ha un progetto di scala bilaterale, aperta dai due lati, potrebbe vincere anche con un quattro o un nove, non più solo con un cinque. Le sue probabilità di vittoria rimangono al di sotto del cinquanta per cento ma sono comunque in crescita. Si scopre la quinta carta comune, il “bloody river”, il fiume rosso del sangue dei tanti che vi cadono con onore. E' un quattro. Nella sala è la bolgia. Un quattro, come le rose che, in quel preciso istante, in un ristorante all'altro capo del mondo, il padre sta offrendo alla madre.

    All'alba, alle 5 e 40, il tavolo viene chiuso. Il ragazzo ha difeso fino alla fine la vincita insperata. Chiama casa, “mamma stavolta l'ho fatta davvero grossa”. Già, è semplicemente entrato nella storia: a soli ventisei anni, è nato a Cagliari nel 1984, Filippo Candio è il primo italiano che accede al tavolo finale di un campionato del mondo. E' nel club dei “november nine”, dei nove giocatori, che da sabato prossimo, sempre al Rio di Las Vegas, si affronteranno per il titolo, per il braccialetto di platino che ne è il simbolo e per un primo premio di nove milioni di dollari. Al nono classificato, di dollari, ne andranno poco più di ottocentomila. La televisione Espn e i media che danno largo spazio alle World Series e sono sempre alla ricerca di personaggi, si sono incapricciati di “Fil” Candio. Quel momento di follia, che pure ha fatto discutere e scatenato i blogger, in fondo è piaciuto: l'incoscienza, la sfrontatezza di un ragazzo nei confronti della sorte è sempre un'immagine che passa bene. Lo hanno soprannominato “dark horse”, così i bookmaker chiamano i cavalli sbucati dal nulla, di cui non è facile fissare le quote perché non si conoscono le prestazioni precedenti. In Sardegna, fra i tanti sicuri che diventerà una bandiera più di quanto lo sia stato Giggirriva “Rombo di Tuono” (che poi è nato a Varese) c'è anche chi con leggera perfidia dice che cavallo oscuro un cavolo, anzi che in questa storia tutto è chiaro: Candio ha “tentu cullu, cullu e cullu”. Nella finale del campionato italiano 2009, fu lui a chiamare all in con una coppia di dieci. L'avversario ci pensa e ripensa, poi va a vedere con asso e nove, il flop fila via liscio che è una bellezza, donna otto e tre, ma al turn c'è l'intoppo. Cade asso, l'altro passa in testa. “Fil” ormai ha solo due carte a favore in tutto il mazzo. Il river gli regala un dieci con cui vince centoquarantamila euro e il titolo nazionale.

    Quando parlano della sua fortuna, Candio non se la prende affatto, anzi sorride. In una intervista in due parti che va in onda domani e lunedì, alle 19, su PokerItalia 24, canale 222 di Sky, e in chiaro sul digitale terrestre, dice che se in carriera qualcosa ha vinto, se quando varca la porta di un casinò di Las Vegas gli dicono “hello, mister november nine”, delle due l'una: o è davvero l'uomo più fortunato del mondo oppure è anche abile. Riconosce che la sorte in qualche modo la accarezza, è scaramantico fino alla patologia. Quando vede che le cose girano per il verso giusto, ripete lo stesso rituale. Maniacalmente, in ogni dettaglio. Si veste nello stesso modo, ascolta la stessa musica, chiede sempre lo stesso taxi e la radio a bordo deve essere sintonizzata sulla stessa stazione. Lui e il canadese Jonathan Duhamel, attuale chipleader dei Nine, si erano ripromessi che se fossero arrivati entrambi al tavolo finale, si sarebbero sfidati in un match di lotta libera in dodici riprese. All'alba, smesso di giocare, anziché andare a nanna, sono saliti in camera e se le sono date di santa ragione. Pare che sia finita dodici a zero per l'Italia. Comunque, dice lui, “io alla fortuna non credo: credo solo alla volontà di Dio”. 
    E' un talento naturale e figlio d'arte. Il padre Roberto è un noto avvocato di Cagliari ma con il soprannome dell'Avvocato è uno dei personaggi più noti nel circuito dei casinò italiani. Il primo a parlargli delle potenzialità del figlio è stato un parente, eminente professore universitario che lo aveva incrociato su Internet. Il padre comincia a seguirlo, lo incoraggia, lo sostiene quando lo sponsor, uno dei più grandi siti mondiali di gioco online, gli volta le spalle e lui va in crisi, l'ego ferito e la sensazione di non ritrovare più la fiducia in sé. La madre, che pure giocatrice non è, lo sostiene senza riserve: quando lo vede ciondolare per casa, stravaccato sul divano senza fare letteralmente nulla, gli dice “ma che fai non giochi?”, con il tono dell'educatrice severa che vuole raddrizzare il figlio scapestrato. Anche la sorella maggiore è una sua fan scatenata. Come gli amici di una vita, che non lo hanno mai abbandonato. E Francesca con cui ha allacciato una relazione per la prima volta seria.

    E' in questa tana che Candio è riuscito a correggere i difetti e a ricostruirsi. Ha letto, studiato matematica, statistica, calcolo delle probabilità, i testi dei grandi campioni, scaffali interi che il padre ha comprato in francese, la lingua dei borghesi della sua generazione. Ma se è arrivato così in alto, è perché prima di ogni altra cosa Filippo Candio è sardo. Intimamente, totalmente, modernamente sardo. Con predilezioni mirate. Il diritto più che la politica, il “buon” Francesco Cossiga piuttosto che Soru e Cappellacci, che niente hanno fatto e niente stanno facendo per la sua isola, Marcello Fois più di Grazia Deledda. Sogna casinò e hotel ovunque per dare lavoro e ricchezza alla sua gente, non ci crede che se venissero costruiti l'ambiente soffrirebbe, nel suo girare per il mondo ha visto che si possono fare proteggendo la natura e tutelando l'ambiente. Benché il nonno paterno, eroe di guerra e pilota acrobatico fosse di origine milanese, lui si sente figlio di questa terra che ha alle spalle secoli di cultura. Così si è fatto più sardo dei sardi, la testa più dura della pietra, coraggioso fino alla temerarietà, un orgoglioso che vuole contare solo sulle proprie forze. Chi lo conosce bene giura che è affettuoso e generoso, anche se fa di tutto per non riuscire simpatico al primo approccio, fra il cliché dello stallone e quello del futuro padre-padrone.

    Un giorno gli capita tra le mani
    “L'arte della guerra”. Legge il ritratto che Sun Tzu fa del grande generale, il condottiero che pianifica la battaglia fin nei minimi particolari ma, quando qualcosa modifica le previsioni, non esita a gettare al macero tutti i piani e con decisioni rapide sa adattarsi alle novità traendone vantaggi. Il giovane rimane folgorato: la cura per le sue ferite, il rimedio ai suoi guai è proprio in quelle pagine scritte venticinque secoli addietro. Si convince che il gioco non può essere solo irruenza e aggressività. E' anche finta e schivata, simulazione e dissimulazione, pazienza e duttilità. Comincia a studiare i giocatori più forti di lui, ne legge i tells, i segnali del corpo, involontari e volontari, comincia a trasmetterne a sua volta di falsi. Un giocatore giovane, nel pieno della forza fisica che non beve, non fuma, sta attento a cosa mangia, fa sport, ha carattere e grinta, sa di avere talento, padroneggia la teoria e per di più sa essere duttile, non può che diventare fortissimo. Un asso. Come l'asso che ha tatuato sulla spalla. Come un november nine.
    Quando ha detto al padre che quest'anno avrebbe provato le World Series, lui voleva che andasse a Las Vegas sei mesi prima per imparare dagli americani, dai maestri della disciplina. Filippo ci è andato soltanto due mesi prima. Vicino ai grandi ha imparato a comportarsi da grande. Non ha fatto scene da stadio italiano quando è scoppiata la bolla, è stato cioè eliminato il 748esimo giocatore e i superstiti avevano la certezza di andare a premio e di recuperare quantomeno i ventimila dollari dell'iscrizione: “Al mio tavolo erano tutti professionisti, nessuno ha battuto ciglio e mi sono adeguato”. Ormai è talmente calato nella parte che preferisce vincere un torneo piuttosto che uscire a cena con Giovanna Mezzogiorno, suo vecchio idolo. Il padre questa volta lo raggiungerà in America. Sta già facendo congetture sulla strategia da seguire: sul tavolo ci sarà un controvalore di più di centoquaranta milioni di dollari. Il leader, Duhamel, che ne ha quasi 66, non ha ancora la certezza di arrivare al testa a testa finale, e dovrà aprirsi, la situazione sarà fluida e Filippo, con i suoi 16,4 milioni, potrà giocarsi le sue chance. Sempre che non abbia qualcosa da obiettare il giocatore che con 23,5 milioni è attualmente il terzo in classifica. E' un coreano trapiantato negli StatiUniti. Si chiama Joseph Cheong. E pare che sia ancora molto incazzato.

    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.