La Lega nel girone sanità

Cristina Giudici

Forse ha ragione il governatore Luca Zaia quando scandisce il suo motto: “Prima il Veneto”. Perché è proprio nel Nordest (dove spesso si anticipano esperimenti politici ed economici) che è cominciata la guerra per vincere la partita politica ed economica più importante nel nord: quella per il controllo del sistema sanitario.

Leggi la seconda puntata Chi governa la salute al nord

    Forse ha ragione il governatore Luca Zaia quando scandisce il suo motto: “Prima il Veneto”. Perché è proprio nel Nordest (dove spesso si anticipano esperimenti politici ed economici) che è cominciata la guerra per vincere la partita politica ed economica più importante nel nord: quella per il controllo del sistema sanitario. Una partita molto complessa, il cui esito potrebbe trasformare il federalismo fiscale prossimo venturo – giovedì 4 novembre si riunirà nuovamente la Conferenza unificata stato regioni per discutere di costi e fabbisogni standard – in un boomerang, almeno iniziale, proprio per le regioni guidate dalla Lega nord, che stanno iniziando a fare i conti con i propri deficit. Non è un caso che anche i leghisti, Roberto Calderoli tra gli ultimi, abbiano più volte affermato che per la determinazione dei costi standard i modelli di riferimento dovranno essere due regioni che non guidano, Lombardia e Toscana. Allo stesso tempo la Lega sa che, se vorrà governare a lungo nei suoi “territori” – dopo aver ottenuto il benedetto federalismo, ma ancor più se la situazione politica dovesse precipitare costringendo la Lega a una strategica “ritirata” nei suoi territori – dovrà imparare a maneggiare con cura il vero tesoro, che è anche un po' una mela avvelenata, cioè la sanità.

    Per questo si è iniziato a parlare tanto di deficit. Deficit che, anche per le regioni “virtuose”, sono spesso diversi da quelli certificati dal ministero delle Finanze o verificati dalla Corte dei conti: perché fino a ora le regioni li hanno ripianati, e in verità nessuno sa interpretare bene i bilanci delle aziende ospedaliere, che talvolta nascondono sprechi, acquisti “impropri”, investimenti sbagliati, gare di appalto truccate, illeciti amministrativi, ammortamenti non accantonati. Non fosse così, non si capirebbe come mai ora che i decreti attuativi del federalismo sono in dirittura d'arrivo (“cinque settimane”, ha detto lunedì Umberto Bossi, facendo gli scongiuri sulla crisi di governo) e con i decreti anche la definizione dei costi standard e della soglia di riparto della spesa sanitaria, oltre alla quale dal 2013 non sarà più possibile andare, molte Asl hanno cominciato ad autodenunciare il proprio “buco”.

    A cominciare appunto dal Veneto, dove da un mese si assiste a un balletto delle cifre assolutamente incomprensibile, visto che l'assessore alla Sanità, Luca Coletto, parla di un deficit di 25 milioni di euro, mentre il governatore Zaia denuncia una voragine: addirittura “una miliardata”, che riguarderebbe soprattutto il capitolo degli ammortamenti non accantonati. Un enigma che può essere svelato solo leggendo fra le cifre, incomprensibili ai profani, della battaglia politica per il controllo dell'80 per cento dei budget regionali. Si tratta complessivamente di 105 miliardi e 148 milioni di euro, nel 2010 (di cui 8 miliardi e 137 milioni di euro trasferiti dallo stato al Veneto), che secondo il Patto sulla salute firmato nel 2009 dalla Conferenza stato regioni e il governo (confluito nell'ultima Finanziaria di Tremonti) dovrà essere razionalizzato, nonostante la spesa sanitaria nazionale aumenti ogni anno circa del 2,8 per cento (nel 2011 i milioni di euro saranno 107.303 e nel 2012 110.344) per preparare le regioni e province autonome all'asticella dei nuovi costi standard.

    A Venezia, il 14 ottobre scorso
    si è tenuto un Consiglio regionale straordinario, che è si è trasformato in una trasparente rappresentazione teatrale della lotta politica in corso. Luca Zaia ha infatti davanti a sè tre sfide prettamente politiche da vincere, che girano tutte attorno alla Sanità: deve regolare i conti con le truppe dei direttori generali delle Ulss, fedeli all'ex governatore Giancarlo Galan; deve sottrarre terreno al sindaco di Verona Flavio Tosi, gran nemico interno nella Lega, che, da ex assessore alla Sanità proprio con Galan, tenta di guidare la sanità a distanza anche da Verona. Infine deve provare a riequilibrare i conti in rosso, che gli fanno tremare i polsi. Il puzzle è complicato. Dopo che un potentissimo direttore generale di una Ulss veneziana, Antonio Padoan (che non poteva più contare sulla protezione di Galan e temeva, pare, gli esiti di un'indagine della Corte dei conti) ha scritto una lettera al segretario regionale alla Sanità veneta, Domenico Mantoan, per chiedere come mai la regione gli abbia vietato di mettere a bilancio come attivo i 208 milioni di debiti ancora non ripianati dall'ente (e ha ricevuto un secco rifiuto dal governatore, che deve affrontare situazioni simili in altre aziende sanitarie venete). E dopo che il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, veneto pure lui, si è messo a sventolare le tabelle degli sprechi veronesi.

    E' a quel punto che tutti si sono chiesti: cosa sta succedendo? “Il Veneto ha scoperto di non poter più annoverare la sua Sanità fra quelle virtuose? Poi, gradualmente, gli arcani sono stati svelati: il Veneto ha un sistema sanitario con alcune zone d'ombra che probabilmente sono state un po' sovrastimate, anche per mettere in difficoltà politica la cordata di Flavio Tosi, ex uomo forte del comparto. Che sta cercando di condizionare la politica sanitaria attraverso un gruppo di fedelissimi: la moglie Stefania Villanova, che lavora nella segreteria della Sanità, l'assessore in carica Luca Coletto e il suo consulente Michele Romano, ex direttore generale dell'azienda ospedaliera di Verona nonché consigliere della fondazione Cariverona. E infatti il presidente della commissione Sanità in Consiglio regionale, Leonardo Padrin, ha sintetizzato così il braccio di ferro sui presunti debiti: “Il disavanzo? E' uguale agli anni precedenti. Di 250 milioni di euro, che prima venivano ripianati grazie all'addizionale Irpef (eliminata da Galan alla fine del suo mandato, per fini elettorali) e se siamo qui a discuterne oggi è solo perché è stata innestata una polemica dovuta a personalismi interni alla maggioranza”. Infatti durante il Consiglio regionale straordinario dedicato ai debiti sanitari l'assessore Coletto ha cercato di difendere la virtù veneta. Peccato che sia stato smentito mezz'ora dopo dal governatore, che invece ha ribadito l'esistenza di una voragine, “ma non verremo commissariati, risolveremo tutto”, ha promesso, sostenuto dal segretario generale della Sanità, Domenico Mantoan, nominato apposta per bonificare l'eredità di Galan e contrastare Tosi.
    In effetti il discorso di Zaia in consiglio regionale sembrava un discorso di opposizione. Al suo assessore ovviamente. E assomigliava molto a quello fatto da Diego Bottacin, ex consigliere fuoriuscito dal Pd per costruire il movimento centrista Verso nord e membro della commissione regionale Sanità. Bottacin è convinto che i debiti siano addirittura superiori al miliardo di euro e verranno alla luce quando le aziende ospedaliere saranno governate con criteri aziendali: “La sanità è sgovernata da molti anni”, ha dichiarato.

    Per sapere come stanno le cose veramente in Veneto
    , che visto dall'esterno si presenta invece come un sistema virtuoso, anzi uno dei laboratori chiamati ad anticipare la riforma federalista, bisognerà aspettare il libro bianco promesso da Zaia: si capirà forse anche chi e dove ha operato male, o addirittura in modo illecito. E cioè se il deficit è così grande. Mantoan parla di 560 milioni di euro sulla carta, “il doppio se si vanno a leggere con più attenzione i bilanci delle Ulss,”, ha detto al Foglio, “che hanno dilazionato molte spese e molti pagamenti per nascondere i loro debiti o non hanno accumulato le rate necessarie per ripagare investimenti non proprio oculati”. O se invece i conti in rosso siano stati parzialmente sovrastimati per far saltare alcuni importanti equilibri economici e politici. Infatti pare che, davanti al veto di Bossi alla sua candidatura alla guida della regione, Flavio Tosi abbia ottenuto due cose, in cambio della sua rinuncia: poter aspirare alla guida della Liga veneta al posto di Gian Paolo Gobbo, sindaco di Treviso (ma tutti sono disposti a scommettere che ciò non avverrà) e poter mantenere una sorta di guida a distanza della Sanità. Con una clausola, determinante per lui che è stato assessore alla Sanità di Galan, senza poter condizionare il sistema degli appalti: e cioè ottenere per il suo uomo fidato, l'assessore Coletto, anche la delega dell'edilizia sanitaria, che nell'era Galan era governata dall'assessorato ai Lavori pubblici, in modo da creare un sistema chiuso che aveva favorito un numero molto ristretto di imprese, che progettavano e costruivano strutture sanitarie. E aveva riservato alla Lega delle cooperative il 72 per cento degli appalti per la “sanificazione” (la pulizia) degli ospedali. Un dato rilevante; in Toscana la Lega delle cooperative, per gli stessi appalti, non è mai riuscita a superare la soglia del 52 per cento. Ed ecco perché, secondo alcune indiscrezioni di fonti attendibili, dopo la vittoria di Zaia ci sarebbe stato un incontro informale durante il quale Galan avrebbe chiesto a Zaia di non modificare gli assetti per gli appalti e Tosi – che ancora qualche giorno fa ha negato l'esistenza della voragine denunciata da Zaia – gli avrebbe risposto che la Lega si comporterà esattamente come aveva fatto il Pdl con gli esponenti del Carroccio veneto. E cioè riserverà agli uomini di Galan le briciole degli appalti sanitari.

    Dietro a questo scenario di lotte intraleghiste e di controllo reale del sistema sanitario e del suo indotto, Zaia ha però un problema vero, che sembra voler affrontare con piglio decisionista, anche perché è decisivo per il futuro del federalismo. Cioè della “mission” stessa della Lega. Il problema è quello di ridurre il deficit prima che arrivi il federalismo fiscale. Ecco perché nel suo discorso (durissimo) in Consiglio regionale straordinario, ha dichiarato guerra a tutti quei direttori generali di strutture sanitarie che hanno accumulato debiti. I loro mandati scadono fra due anni, “ma alcuni potrebbero essere commissariati”, ci hanno fatto notare alcuni leghisti che hanno lavorato nell'assessorato. Anche perché dietro questo scontro c'è un elemento comune a tutte regioni del nord a guida leghista, o dove i leghisti dirigono le politiche sulla Sanità. E cioè l'ordine di scuderia di Bossi, che è quello di creare una sanità padana che regga l'impatto del federalismo e aumenti il peso politico del proprio partito all'interno del sistema sanitario, che drena l'80 per cento dei bilanci pubblici. Insomma la Lega vuole imitare (parzialmente) il modello della Lombardia di Roberto Formigoni: una delle poche regioni ad avere i conti a posto grazie al contributo delle strutture private accreditate, che rappresentano il 45 per cento del sistema regionale. Anche se pubblicamente la Lega demonizza il concetto della privatizzazione.

    Una scorciatoia, secondo i fautori del sistema sanitario pubblico, che però rappresenta l'unica strategia possibile per arginare i debiti creati dagli ospedali pubblici, anche dai più efficienti, che non riescono a gestire l'aumento progressivo della spesa sanitaria. Ed è infatti per questo motivo che il governo della regione Veneto vorrebbe trasformare la case di riposo, alcune commissariate con i conti in rosso, in fondazioni private. Ufficialmente per risanare i loro debiti. In realtà per modificare il modello sanitario veneto, per ora quasi interamente pubblico. Basta leggere fra le righe ciò che ha detto il presidente della commissione regionale Sanità, Leonardo Padrin, un passato nella Compagnie delle Opere, parlando dell'apporto minimo dei privati, che dovrebbero essere messi in condizione di offrire maggiori servizi al sistema sanitario pubblico semplicemente perché è più conveniente. Così come si dovrebbe ragionare su quel passaggio di Zaia, trascurato dai cronisti, in cui il governatore, parlando dei servizi sociali che in Veneto sono integrati con quelli ospedalieri, ha dichiarato: “Non possiamo sederci accanto ai lombardi e fare i tontoloni con il nostro debito, dicendo che noi siamo più civili perché spendiamo 260 milioni di euro extra per i Lea (i servizi elementari di assistenza) solo perché crediamo nel sociale”.
    Insomma, come ha detto il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, l'introduzione dei costi standard nella Sanità rappresenta con il federalismo una novità “assolutamente rivoluzionaria”, che migliorerà “la qualità del servizio sanitario nazionale”. Ma la strada per arrivarci non è così semplice. Nemmeno per la Lega.

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