La meglio vecchiaia

Stefano Di Michele

Un giorno di alcuni anni fa, fin quassù, fin sul tetto di Palazzo Doria, volò un pavone. Salì dal giardino di sotto – e come salì, nessuno fu mai capace di spiegarlo. Restò lì, con tutta la sua arcaica bellezza – ché ha solo la Bellezza, un pavone. Però è anche tutto, la Bellezza. Duddù guardava il pavone, con la sua cometa di occhi e stelle adagiata sulle tegole, il pavone guardava i goffi umani che cercavano di catturarlo.

    Un giorno di alcuni anni fa, fin quassù, fin sul tetto di Palazzo Doria, volò un pavone. Salì dal giardino di sotto – e come salì, nessuno fu mai capace di spiegarlo. Restò lì, con tutta la sua arcaica bellezza – ché ha solo la Bellezza, un pavone. Però è anche tutto, la Bellezza. Duddù guardava il pavone, con la sua cometa di occhi e stelle adagiata sulle tegole, il pavone guardava i goffi umani che cercavano di catturarlo. Ma mai inutilmente un pavone appare – un messaggero, un dono, uno stupore. La “reverente soggezione”, cita silenziosamente Duddù, mentre osserva la Bellezza volare sui tetti di casa, e un giornalista lì di fronte gli sta domandando qualcosa proprio sulla Bellezza. Billi, così si chiamava il pavone fuggitivo – e se la Bellezza fugge, sempre per conservarsi lo fa. E Billi chiude così, libero e grandioso, il libro di Duddù La Capria “L’estro quotidiano” – libro, quasi diario, di vecchiaia ma non di (troppi) dolori, di vita (ancora) non certo di morte. E di domande – solide come risposte. Il mito della “bella giornata” che persiste anche dentro il tramonto – e dentro la luce del tramonto, un pavone d’oro e di smeraldo lo saluta. Duddù ora ha ottantanove anni, nove in più dell’età in cui morì suo padre – che aveva trascinato fin nella borghese e asfittica quiete di via Giuseppe Ferrari il rimpianto e gli odori e le voci di Palazzo Donn’Anna, laggiù a Napoli, “con le sue ombre spettrali e la sua luce fulminante”. Ha uno sguardo di misurata meraviglia, Duddù, per ogni cosa che sente – forse perché è un essere felice, o forse perché certe cose poco le sente, e allora tende l’orecchio goloso, distratto mai. E in quello sguardo di meraviglia ha il pavone Billi alto sul tetto, il cane Guappo allegro e perso, le immagini di quel ragazzo bellissimo nell’aria, tra il cielo e il mare di Capri – il corpo teso, il corpo raccolto, il corpo libero: Duddù giovane e perfetto e con lo sguardo felice. In una foto di qualche anno dopo, sono insieme, lui e Ilaria: Duddù meno giovane, magari meno perfetto, ma di nuovo felice dopo un lungo dolore. Fuori dalle finestre, oggi, non si vede il pavone Billi – ricatturato, la sua coda cometa di nuovo tristemente posata sulla terra – ma due gabbiani, che ogni giorno puntuali arrivano e fanno scena, e sempre e per ore il buffo teatro di ogni animale che vuol compiacere l’umano (“lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te”, canterebbe Paolo Conte: e innamorato certo no, non è il gabbiano, ma sa che da dietro quei vetri arriverà prima o poi una certa comprensione e un po’ di cibo): Duddù osserva se stesso che vola lungo il muro dello studio e si tuffa nel mare più amato, alza lo sguardo e sorride: “Ecco, questo lo posso ben dire: sono vecchio, ma sono stato giovane…”.

    Tutto è relativo. Più di ogni altra cosa, la vecchiaia lo è – non è questione che possa essere messa nelle mani ragionieristiche né di un Inps né di un Istat. Ben altro ci vuole, e lo stesso ben altro non basta. I quaranta inverni shakespeariani che assediano la fronte amata “e nel campo della tua bellezza scaveranno trincee profonde”, così da instradare la vecchiaia che avanza e la giovinezza che muta in “cencioso panno tenuto in poco conto”, ancor pochi sembrano se confrontati con la definizione di “vecchio” che si può trovare in un raro “Dizionario dei sinonimi della lingua italiana per S. P. Zecchini”, stampato a Torino nel 1860 e azzardatamente dedicato “alla gioventù studiosa di tutte le scuole d’Italia”. A pagina 693 (tra le definizioni di “varietà” e “velocità”, due parole che dalla vecchiaia sembrano fuggire), si legge: “Avanzato in età è chi tocca la metà del periodo ordinario della vita umana. Attempato mi pare un po’ più, abbenchè nel Tommaseo si dica che è meno dell’altro: a un uomo di quarantacinque anni circa dirò che è avanzato in età, non che è attempato; lo chiamerò così ai cinquanta, ai cinquantacinque e poco oltre; poi, vecchio”. E lì, nei giorni di Cavour, il piano inclinato dell’esistenza umana si fermava. Oggi no. “Prima si è vecchi, poi arriva la decrepitudine”, ricorda Guido Ceronetti. Una coda che si allunga di decennio in decennio, quella della vecchiaia – ormai televisivamente assalta il palco delle velone, s’inerpica sul trono del tronista che fu ventenne. Gli anni si dilatano – e quando tiene il femore, e se la testa tiene, qualcosa che stupisca e riempia i giorni ancora necessita. Arrivano tempi in cui c’è un gusto quasi sovversivo tanto nel frantumare le consuetudini quanto nel conservare (e nel ripetere e nel prolungare e nel riprodurre) la “bella giornata” che altri, come La Capria, ha evocato e attraversato. Meno gregari dei giovani – quando la maggior parte di ciò che poteva essere è dietro le spalle e “quel che resta del giorno” (come il bellissimo titolo del bellissimo libro di Kazuo Ishiguro) è un terreno dove, insieme a mille paure, molte nuove libertà sono possibili. “Uno dei pochi vantaggi che riconosco al fatto d’invecchiare consiste nella possibilità di gettar la maschera in ogni cosa”, dice il saggio Adriano della Yourcenar. Abbiamo vissuto l’epica (sociologica, giornalistica, cinematografara) della “meglio gioventù”: proveremo per qualche settimana, attraverso storie e interviste e racconti, a raccontare il sensato paradosso della “meglio vecchiaia”: c’è molta da dire, prima di finire la lunga passeggiata terrena.

    Duddù guarda Ilaria, Ilaria guarda Duddù. I gabbiani, oltre i vetri, guardano l’uno e l’altra. Dal terrazzo di Palazzo Doria Roma è uno spettacolo di cupole e pini e luce come di corallo pallido. A volte, Duddù – lieve nei maglioni colorati, sfacciatamente colorati però, e nei trionfi di foulard vezzosamente annodati al collo – si guarda allo specchio, sempre nuovi segni trova, e lo stesso, nel suo felice godersi il quotidiano estro dell’esistenza, pubblicamente ne dà conto, “quale nero uccellaccio s’è aggrappato coi suoi artigli ai lati della bocca? E quale vampiro ha succhiato e sbiancato le mie labbra ora così sottili?”, osserva i capelli diradati mentre il fatal pettinino trova la strada sempre più sgombra, e così risistema e riposiziona, “più che capelli sembrano il piumaggio di un uccello spennacchiato”. Ha una curiosa quieta felicità, Duddù. Senza affanni – felicità dal regolare sospiro. Come quella di Ilaria, con le sue lunghe sigarette bianche – e il sorriso da donna (da nonna?) intelligente, quella che tutto capisce, persino che per capire non è sempre necessario dire (così fa, in “Mine vaganti”: la meglio vecchiaia non ha l’urlo strozzato e minaccioso della verità da esigere come controprova di ogni parola detta). Cinque gatti vagano per l’appartamento – perfettamente felini, allora quasi umani: così c’è quello imbranato e quello prepotente, quello lamentoso e quello coccolone. Quello sempre nascosto, quello sempre tra i piedi. Ilaria sorride – tra il fumo e i gatti: “Non sono la brava nonna, non sono la brava moglie, non ho le angosce della vecchiaia, sono sempre imprudente, sono sempre dubbiosa…”. In quel che del giorno resta, c’è anche ciò che il resto del giorno ormai esclude per sempre. Ma non è mica una privazione: è l’impossibilità (umana, dunque stupita) di contenere tutto dentro la propria esistenza. “C’è un modo di affrontare la vita, né rassegnazione né distanza dalle cose”. Rimarrà sempre un libro non aperto, un viaggio non fatto, un animale non accarezzato. Qualcun altro lo farà: pure questo lasciare qualcosa d’incompiuto consola. Ilaria, tra mille cose fatte, mille sipari che si sono alzati e mille che sono calati, avrebbe voluto essere ancora la locandiera goldoniana, la vispa Mirandolina, il furbo femminile districarsi tra amore e amato. “Adesso non posso più, non lo posso più fare, non me lo posso più permettere. Da qualche anno non faccio più parte del carrozzone teatrale…”. E scrive e dedica alcune pagine, Duddù, “a Ilaria e alla durevole sua beltà” – e tutto è detto: essenziale e completo. E’ bellissimo complimento alla vecchiaia dell’essere amato, l’annotazione sulla sua “durevole bellezza”. Scrive Duddù di Ilaria che “è più bella adesso, perché vittoriosa sugli anni, di quando la sua bellezza trasformò il nostro primo incontro in un fiasco che ancora la fa sorridere e ancora un po’ m’umilia”. E le dice che è bella, di come sia ancora così bella, Ilaria – “che la propria bellezza ha sempre trattato con noncuranza” – e con noncuranza (ma forse di quella noncuranza che somiglia alla certezza: dell’amore che resta, con la sua bellezza, intatta anch’essa agli occhi di chi ama) lei alza le spalle e sorride: “Acqua passata”. E adesso, finito il pranzo, mentre il fumo della sigaretta accarezza il dorso di centinaia e centinaia di volumi, lei dice: “Non voglio essere una bella vecchia, voglio essere vecchia… Anzi, non voglio neppure dirla, la parola vecchia…”.

    Sono due persone amabili, lo Scrittore e l’Attrice – dalle parole sussurrate, dai gesti lenti, dagli sguardi ancora incuriositi (quasi quelli dei loro gatti, ché bestie e umani imparano e insegnano). Qualche mese fa, uno scrittore inglese, Martin Amis (probabilmente scambiandosi, in un eccesso di generosità, con Jonathan Swift) avanzò una proposta: eutanasia di massa per tutti i settantenni, con un Martini e una pillola per ben morire – così, tanto per riequilibrare, su cataste di cadaveri, lo squilibrio demografico. A Duddù la faccenda, si capisce, avendo già largamente sforato l’orizzonte ultimo fissato dal funereo collega inglese, piacque pochissimo. E dalle colonne del Corriere della Sera rispose per le rime. “Questi diciotto anni sono stati per me un dono del cielo, importanti anche per la mia formazione, perché ho imparato e visto e sentito cose che non immaginavo. Caro Martin Amis, bevilo tu, se così ti piace, il tuo cocktail mortifero. Se lo avessi bevuto io non avrei scritto tre o quattro libri che a scriverli mi hanno dato qualche soddisfazione, non sarei stato tante volte felice, di una felicità diversa e più pacata anche quando molte ombre l’attraversavano, non avrei conosciuto altri Paesi, non avrei nuotato nei mari tropicali e visto le meraviglie di una barriera corallina, e così via”. Non avrebbe giocato con Guappo, non sarebbe stato sorpreso dal pavone Billi, non avrebbe avuto nemmeno quel dolore al cuore – ma il dolore è andato, il cuore di Duddù è restato. Ride, contento: “Siamo belli vispi, la vita si è allungata, si arriva facilmente ai cent’anni…”. Sorride, ironico: “L’arrivo delle ucraine ha dimostrato l’utilità dei vecchi, certe velleità che prima ce le sognavamo”. C’è che quando corrono i decenni, i tempi diventano più pazienti. Fu “Un giorno d’impazienza”, il primo romanzo del giovane La Capria – impazienza è parola adesso assai difficile da trovare nei suoi scritti. E’ la lentezza, uno dei guadagni degli anni: da far durare, quel che resta, non da bruciare. “Io mi vedo un vecchio senza l’imponenza dell’età, mi vedo come un adolescente invecchiato di colpo e che non ha avuto nemmeno il tempo di convincersi – di essere proprio convinto – che è vecchio”. E’ come quel villaggio (prossimo, improvvisamente prossimo, di colpo) evocato da Kafka, il meravigliato vagare di Duddù dentro la sua vecchiaia: tanto lontano, pareva, e invece ci siamo già.
    Ma Duddù lo stesso vaga per la città, passeggia e passeggiando si cita la passeggiata per “le care note strade” di Robert Walser, guarda le insegne dei negozi, attraversa vie e marciapiedi – persino, cittadino civile di una metropoli piuttosto incivile, prende carta e penna e scrive ai giornali: una fermata d’autobus cancellata, una piazza stupenda devastata dal cattivo uso, una ripetuta maleducazione. E quando c’era ancora Guappo, quante camminate – dieci chili in meno, pesava Duddù, che usciva tre volte al giorno e seguiva le corse del suo cane allegro, e persino le puzze che lui tanto amava nel fossato del Mausoleo fanno ora nostalgia. E’ una vecchiaia attraversata da un sorriso con una venatura di gratitudine, quella di La Capria – per ciò che ancora ha, per ciò che ha avuto. E di ogni cosa – pensiero, sogno, cane, mare, amori – ha scritto, ha raccontato, ha conservato e consegnato agli altri. “Per ogni cosa che scrivo – racconta mentre attraversa la luce della sua casa – cerco un’immagine.

    Ogni scoperta di tipo intellettuale, per essere espressa bene, va racchiusa in un’immagine: solo se racchiudi il pensiero in un’immagine, questo arriverà agli altri”. E’ una vecchiaia gentile, poi, oltre che curiosa e allegra, Sinatra o Armstrong sotto la doccia, il ritmo di Duddù che resiste, pur sempre innamorato di quella “immonda confusione” della vita che tanto doleva al filosofare ciceroniano. (Allegra, questa vecchiaia, anche nei momenti di abbandono, e c’è sempre il grosso amico che racconta di quando un paio di anni fa lesse un suo articolo sul Corriere, e quell’articolo era molto triste, tra il respiro che andava e l’afa che lo accorciava, un gatto forse morto, una tristezza da finale di partita. Quell’amico, in vacanza in Bretagna, tra alghe morte e sublime assenza di scocciatori, chiamò preoccupato: “Duddù, ma che c’è? Come stai? Torno subito, non ti preoccupare…”. Ma ecco che, mentre parlava, ebbe una strana sensazione: come uno sciabordìo di onde, come un rumore di mare. Anzi: esattamente uno sciabordìo di onde, un rumore di mare. “Duddù, ma dove stai?”. “Sto ’ncopp’ a nu motoscafo, a Capri”. “Ma stavi così male…”. “Aggio nu poco esagerato…”. Una conversazione che ha dentro tutta la bellezza, e la gratitudine, per i “capaci di meravigliarsi” che più di tutti gli altri Duddù ama). A sessant’anni, Duddù si comprò una casa a Capri, duecento gradini a salire e duecento a scendere, limoni e aranci, mandorli e mimose – e poi finì, ma ancora adesso, dentro i suoi lievi ottantanove anni, più che il rimpianto per qualcosa di perso si avverte la gratitudine per qualcosa che ha avuto. Proprio così ha scritto: “Ogni idillio è destinato a finire. Io lo sapevo già quando acquistai questa casa. Perciò l’ho lasciata senza rimpianti, grato di ciò che avevo ricevuto”.

    “Tutto è passato”, mormora mentre con il dito indica una foto, un mare, un disegno dell’amatissimo Palazzo Donn’Anna, un vaso di fiori di Soffici, “lo vedi quel rosso, li vedi quei colori?”. La vecchiaia ha questo, soprattutto: il peso (ma lieve, lo stesso inevitabilmente nostalgico) dei ricordi: tempi passati, amici andati, case chiuse. Seduto nella piazzetta di Capri, fatica Duddù a mettere a fuoco quel volto, “i tratti in rovina di un ex bel ragazzo della mia età”. Domanda: “Li fai ancora i bagni d’inverno, a prima mattina?”. E quello: “Come no? Guardo nel giornale la pagina dei necrologi, e se quel giorno non c’è il mio nome, mi immergo”. Tra quel che resta, a ottantanove anni, il ricordo si fa quasi dovere. Duddù scava, sorride quando ritrova un gesto o una battuta o un lungo bagno in mare, e allora scrive e riporta in vita e salva (magari solo momentaneamente) un volto amato dall’oblio. Così ha fatto con il suo amico Giovanni Urbani, per esempio – e il suo amato Lord Jim riapre e persino il suo profumo al vetiver che continua a mettere, salvò. Così per mille altre facce, così che le sue pagine si riempiono di tante figurine, come certi quadri di Bruegel – nell’assenza, però, senza il sole di Napoli: piuttosto certi paesaggi nordici di gelo e immobilità.

    Dei giorni che bruciano i giorni che restano, Duddù non ha timore. Apparentemente, almeno. E nel suo “L’estro quotidiano” liberamente ne parla – degli altri che vanno, di lui che un giorno andrà. Via. Dove. Chissà. (Ma Guappo, ah come Duddù vorrebbe ancora giocare con Guappo, chissà dove, lassù…). Sette anni fa ricevette una lettera del suo amico Manlio Cancogni, che festeggiava l’ottantasettesimo compleanno (intanto ha felicemente superato i 94 anni). Gli scriveva del caldo, e di una certa artrite cervicale che gli impediva “di fare il giovanotto”. Sfottò ironico, in chiusura: “La vecchiaia, caro mio, non risparmia i dandies”. Pensò a lungo, Duddù, alla lettera del suo amico e alla faccenda dei dandies quasi inabili, fece un po’ di conti di (ancora) presenti e di (già) assenti, s’immaginò come sarebbe andata per lui. “Una sera, al tavolo di un ristorante romano qualcuno che avrà letto sul Corriere della Sera l’elezeverino di circostanza dirà: ‘Avete letto, Duddù se n’è andato’. Oppure, se non mi conosce di persona dirà: ‘La Capria, quello che vinse per caso quel premio, quando fu? in quale anno?’. La conversazione continuerà per stabilire l’anno, e senza cambiar tono uno dirà: ‘Questo vino sa di tappo’. Un altro: ‘Pare anche a me’. Chiameranno il cameriere, chiederanno di cambiare la bottiglia, casualmente tra una amatriciana e una puttanesca ritornerà il mio nome…”. Così, racconta Duddù – con lievità estrema, anche l’estremo suo salto. Quasi figurandosi la scena, quasi osservando dal buco di chissà quale serratura. Con stupore, sempre. Perché lo stupore, dice, innanzi tutto va conservato. “Sai, è come viene detto in quella bellissima pagina di San Gregorio di Nissa: ‘Solo lo stupore conosce’. Così è”.
    Ilaria ascolta, scompare, riappare. Sorride anche lei, quando parla della “botta di vita artistica, del molto successo” degli ultimi tempi, dal film di Ozpetek a “Mar Nero” – e qui è donna odiosa, arida, cattiva – persino la fiction televisiva. “La vecchiaia non può essere allegria…”. E da tanti anni di palcoscenico, di quel rumore inconfondibile di tacchi sulle travi di legno, emergono gli “Spettri” di Ibsen, emerge soprattutto Liliana (la vittima, la sgozzata, l’infelice moglie) del “Pasticciaccio brutto di via Merulana”, quello di Gadda, fatto con Luca Ronconi. Alzata di spalle: “Adesso non posso più…”. Ma l’alzata di spalle è accompagnata da un altro sorriso. Quassù in alto – niente rumori, e dunque le voci sottili si sentono benissimo – niente mette fretta, lentezza felina, lentezza umana. Solo i gabbiani, oltre il vetro, urlano impazienti. Dice La Capria che da giovane si pensava un po’ come Fabrizio Del Dongo, che “attraversa il campo di battaglia di Waterloo, senza accorgersi di quello che stava avvenendo intorno a lui”, ma ora è diverso, “andare a comprare il giornale, leggerlo in poltrona come un rito e un legame con le cose che accadono, vedere ogni tanto un amico, sfogliare un libro, guardare un film e persino la televisione (col gatto accucciato in grembo e il cane ai tuoi piedi), questo tipo di abitudine può essere come una ninna nanna che ti aiuta ad addormentarti nel sonno finale”. Ma piano, non esiste fretta, non esistono campi di battaglie desolate da attraversare correndo – ma neanche per un secondo cessa il necessario stupore: caro a san Gregorio, carissimo a Duddù.
    Duddù, già, Duddù: così da ottant’anni, dai tempi di scuola, e i compagni canzonavano, “canto / quel ritornello che mi piace tanto / e che fa dùdu dùdu / dùdu dùdu / duddùuuuu”, e Raffaele ogni tanto si domandava se “può uno scrittore serio chiamarsi Duddù?”. Può. Il mare, l’acqua, le superfici immense e azzurre – la vita e lo scrivere di La Capria sono passati per intero dentro questo elemento. Nuota, nuota, nuota. Sogna di nuotare. Scrive di nuotare. “Com’è bello nuotare a ritmo lento, senza stancarsi, avendo ottant’anni!” – quando ottant’anni aveva, ma lo stesso ora poco è mutato. In piscina, lì nella casa di Arezzo, o nel Mediterraneo, in cento luoghi, persino nei mari tropicali si è tuffato, quando ormai da un pezzo, secondo il collega inglese, avrebbe dovuto accopparsi, “vedevo i fondali come forme in movimento, svarianti e complesse, fantastiche, ora chiare nella luce abbagliante delle trasparenze, ora scure nelle misteriose cupezze blueggianti”, e poi rifare il percorso, “dall’acqua passo alla terra, come fece all’origine ogni creatura” – e dal bordo dell’acqua rimirare un cipresso, “penso ai suoi anni e li confronto con i miei che stanno per finire, penso all’eternità”. Fuori dalla finestra i gabbiani gridano ancora. Ilaria li guarda paziente. Duddù osserva di nuovo le foto di lui giovane che si tuffa. Nel mare – nella vita. Sa che ancora non ha visto tutti i colori laggiù nascosti – e allora a ottantanove anni Duddù va in cerca di stupore.