Pompei città aperta

Marina Valensise

Mentre l'opposizione fomenta la leggenda nera dell'incuria, i tecnici al governo ridimensionano (“fissarsi col crollo di un muro antico è eccessivo”) e i pragmatici già pensano a come rimediare. Il muro della Scuola di Pompei venne scavato ai primi del Novecento, bombardato durante la guerra, e restaurato alla fine degli anni Quaranta col cemento armato, “quando se ne ignoravano gli effetti disastrosi sulle strutture antiche”, dice l'ex soprintendente Nicola Spinosa. “Il crollo non è frutto di incuria recente".

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    Mecoledì alle 11 il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, riferirà in Parlamento sul crollo della Scuola dei gladiatori a Pompei. Il Pd ha annunciato una mozione di sfiducia. E mentre l'opposizione fomenta la leggenda nera dell'incuria, i tecnici al governo ridimensionano (“fissarsi col crollo di un muro antico è eccessivo”) e i pragmatici già pensano a come rimediare. Il muro della Scuola di Pompei venne scavato ai primi del Novecento, bombardato durante la guerra, e restaurato alla fine degli anni Quaranta col cemento armato, “quando se ne ignoravano gli effetti disastrosi sulle strutture antiche”, dice l'ex soprintendente Nicola Spinosa. “Il crollo non è frutto di incuria recente, ma è solo uno dei tanti crolli possibili sotto le intemperie, in un'area da sempre priva di un sistema di manutenzione preventiva”, avverte Andrea Carandini, l'archeologo nominato da Bondi presidente del Consiglio per i Beni culturali.

    Il problema risale all'Unità d'Italia. E nonostante le tante azioni meritevoli, nessun governo, né di destra né di sinistra, è mai riuscito ad affrontare il monitoraggio dell'area”. “Non si può tamponare la falla senza prima conoscere le fragilità”, insiste Carandini. “Servirebbe non solo la pianta, ma un rilievo dettagliato della città, con la mappatura completa degli elevati. Invece Pompei con i suoi 98 isolati (porzione di città circondata da quattro strade), resta sostanzialmente inedita”. Per questa mappatura ci vorrebbero tra i cinque e i dieci anni di lavoro stima Carandini; “basterebbe molto meno tempo con gli strumenti satellitari”, dice invece Spinosa che pure conviene sull'investimento: “Costerebbe meno di quanto costerà intervenire ora rapidamente. I soldi per la Muraglia cinese e la città imperiale ci sono e per Pompei e Paestum no? Un po' di buon senso, per favore”.

    Il fatto è che Pompei è una città di 15 mila abitanti, sepolta sotto il fango e la cenere per l'eruzione del Vesuvio descritta da Plinio il vecchio. “E' una ferita aperta da quando nel 1748 si iniziò a scavare, e da allora è esposta alle intemperie”, spiega Carandini. “E' come il corpo di un vecchio malato bisognoso di cure pacate”, aggiunge Spinosa. Copre un'area di circa 80 ettari, di cui 50 di scavi aperti, altri 20 coperti e altri 15 di uffici e servizi. Nel giugno 2008, a fronte del degrado dovuto all'abbandono degli scavi, all'assenza di regole, ai servizi fatiscenti, alle irregolarità vistose, il governo, di comune accordo col governatore campano Bassolino, proclamò lo stato di emergenza nominando un commissario. Il soprintendente dell'epoca, l'archeologo Pietro Guzzo, denunciò “l'ingerenza” della politica. Ma si dovette arrendere di fronte alla carenza di fondi, ma soprattutto di buona amministrazione.

    Con due milioni e mezzo di visitatori l'anno, Pompei produce circa 25 milioni d'euro l'anno. Ma non ne spende più di 8. Tanto che si sono accumulati 40 milioni di euro residui”, dice al Foglio, sotto vincolo di anonimato, un dirigente del settore che ha conoscenza diretta del caso Pompei. Come mai? “Per le difficoltà di gestione”, prosegue, “i soprintendenti, sublimi studiosi di archeologia e storia antica, sono incapaci di stilare un contratto o redigere un capitolato d'appalto. Non studiano diritto commerciale, ignorano il diritto amministrativo, e spesso restano prigionieri delle stesse società che si aggiudicano le gare. Il turista che viene da Malmö, per esempio, non può acquistare on line il biglietto d'ingresso, perché il soprintendente non ha voluto gravare il prezzo di un euro”.

    Il rimedio, dunque, consisterebbe nel “ripristinare”, accanto al tecnico con compiti di tutela, la figura del manager, già introdotta a suo tempo e poi abolita dal ministro Rutelli nel 2008, dopo che i suoi predecessori di centrodestra, Urbani e Buttiglione, avevano nominato alla guida di Pompei il direttore del Museo civico di Mondragone (una sola stanza) e improbabili altre personalità. Per ripristinare il manager accanto al soprintendente, sostiene il sindacalista della Uil-Cultura Gianfranco Cerasoli, non serve trasformare la soprintendenza in fondazione (“utile solo a moltiplicare prebende”): basterebbe dare più poteri alla soprintendenza e raccordarla a provincia e comune.

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