Il modello Bollate

Celle aperte e lavoro fuori, così si riformano le carceri

Giulia Pompili

Per la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria l'80 per cento dei detenuti italiani è malato, uno su tre ha problemi di tossicodipendenza e il 4 per cento ha l'Hiv. Questi sono gli ultimi dati che si sommano alle emergenze delle carceri italiane, dal sovraffollamento, alla violenza, ai suicidi. Problemi che sembrano lontani dal penitenziario di Bollate, punto di riferimento in Italia per un sistema sperimentale di regime di detenzione che prevede la massima libertà del carcerato.

    Per la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria l'80 per cento dei detenuti italiani è malato, uno su tre ha problemi di tossicodipendenza e il 4 per cento ha l'Hiv. Questi sono gli ultimi dati che si sommano alle emergenze delle carceri italiane, dal sovraffollamento, alla violenza, ai suicidi. Problemi che sembrano lontani dal penitenziario di Bollate, punto di riferimento in Italia per un sistema sperimentale di regime di detenzione che prevede la massima libertà del carcerato. Ne parla al Foglio Lucia Castellano, quarantacinquenne napoletana, direttrice della casa di reclusione di Bollate, con esperienze a Scampia, Eboli e San Vittore: “Non siamo un'isola felice. Anche qui c'è la violenza, ci sono le evasioni, e siamo ancora fuorilegge: per esempio non abbiamo le cucine sui piani, le docce in stanza, tutte cose previste dal regolamento del 2000”. Castellano spiega infatti che “la legge italiana stabilisce che nel carcere debba essere garantito al detenuto il massimo della libertà, compatibilmente con il muro di cinta. E' un modello che si discosta dalla consuetudine, ma non dai regolamenti”. Quindi, celle aperte dalla mattina alla sera, autodeterminazione, libertà di movimento e di organizzazione. In cambio il detenuto si impegna in un progetto che prevede tappe, verifiche, obblighi.

    La seconda casa di reclusione di Milano-Bollate
    viene aperta nel 2000 come istituto a trattamento avanzato teso al recupero sociale dei detenuti, attualmente ospita circa cento persone in meno rispetto ai posti previsti. “Il regolamento di Bollate – dice Castellano – nasce da un'idea di Luigi Pagano, già direttore di San Vittore e ora provveditore agli istituti di pena lombardi. Pagano ideò questo tipo di carcere seguendo semplicemente il dettato costituzionale che chiede il rispetto della dignità della persona”. Secondo i dati della Fondazione Cariplo (che ha appena stanziato un milione di euro per i progetti di “misure alternative alla detenzione”) la recidiva, in posti come Bollate, scende fino al 19 per cento, a fronte del 68 per cento di chi sconta la pena esclusivamente in carcere. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, almeno il sedici per cento dei carcerati soffre di depressione o altri disturbi psichici. Per Lucia Castellano anche i suicidi dipendono da come ci si rapporta con l'uomo colpevole: “L'annullamento della persona, nelle carceri moderne, è semplicemente una pena aggiuntiva. Oggi gli istituti si riempiono di figli della povertà e della solitudine. Se hai poca speranza da libero, ne hai ancora meno nel vuoto esistenziale che ti dà la cella. In carcere è difficile essere riconosciuti e ascoltati: non si può mantenere l'individualità in mille in un carcere che può contenere solo cento persone”. Poi il concetto di tempo, che in cella è spazializzato: “Il periodo della pena non può essere un tempo vuoto – prosegue la Castellano – il tempo sospeso non è della rieducazione, è quello dell'annullamento. In carcere non si fanno gli auguri di compleanno, perché ‘quello dentro non è un anno che passa'. Io vorrei una galera dove si festeggiano i compleanni, dove il tempo è compresso ma espressivo, perché quella è la rieducazione. Il nostro è un mestiere di cura, per questo anche le donne lo fanno bene”.

    La soluzione non è costruire nuovi “contenitori”,
    ma concepire una riforma istituzionale che ripensi alla pena come ultima risposta dopo una serie di sanzioni.
    Anche sul caso Cucchi, il ragazzo romano morto un anno fa dopo un arresto per droga, la direttrice di Bollate parla chiaro: “Prima di tutto, quel ragazzo non sarebbe dovuto essere in carcere. Proprio pochi giorni fa ho incontrato la sorella. E' stato un caso drammatico, ma non dimentichiamo le persone che lavorano bene, nell'ombra degli istituti. Dire che tutti i poliziotti picchiano i detenuti è come dire che tutti quelli che hanno un permesso premio sono degli Angelo Izzo. L'altro problema al quale le istituzioni devono guardare è l'incapacità dell'amministrazione di comunicare e di vivere il carcere come un servizio”. La decarcerizzazione è uno degli obiettivi di Bollate: “I detenuti hanno un rapporto con la città che li ospita. Questo permette loro di scontare la pena all'esterno, che non significa non scontarla, ma scontarla in mezzo agli altri. La sera devi tornare in cella con i tuoi piedi”.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.