Inchiesta sulla scuola che non protesta/ 3
Perché l'educazione non è un'arma politica
Tor Bella Monaca, una delle periferie più disagiate della capitale. In un edificio all'interno di un parco comunale alcuni insegnanti della zona, con alcuni giovani universitari, aiutano i ragazzi che lo desiderano a studiare. Fuori, un piccolo presidio protesta contro la decisione del comune di tagliare i fondi pubblici destinati al verde. Daniela, 23 anni, studia lettere a Tor Vergata ed è alle prese con un ragazzo di seconda e una versione di latino.
Leggi la prima puntata - Leggi la seconda puntata
Tor Bella Monaca, una delle periferie più disagiate della capitale. In un edificio all'interno di un parco comunale alcuni insegnanti della zona, con alcuni giovani universitari, aiutano i ragazzi che lo desiderano a studiare. Fuori, un piccolo presidio protesta contro la decisione del comune di tagliare i fondi pubblici destinati al verde.
Daniela, 23 anni, studia lettere a Tor Vergata ed è alle prese con un ragazzo di seconda e una versione di latino. La professoressa D'Antrassi, docente di italiano e latino al liceo di zona, l'Amaldi, ci dice di aver lasciato lo studente in ottime mani: “Daniela è una in gamba, bravissima”.
Nel centro studi di Tor Bella Monaca non si danno semplici ripetizioni, c'è il significato globale del significato di andare a scuola. “L'altro ieri, spiegando Pascoli, abbiamo citato De Benedetti, un critico letterario, che dice che la poesia dell'autore nasce dallo stesso atteggiamento che ha un bambino nel bosco senza padre. Ho preso spunto da questo e ho domandato: ‘Se voi avete un problema di matematica a chi lo chiedete?'. ‘Al professore', mi hanno risposto in coro. ‘E se avete il problema di chiedere il senso delle cose, di alcuni fatti capitati nella vostra vita?'. C'è stato un silenzio incredibile. Poi mi hanno risposto in ordine sparso: la maggior parte a nessuno, qualcuno ai nonni, due o tre agli amici. Poi uno serissimo è sbottato: ‘Ma perché di questa cosa si può parlare?'. Mi ha entusiasmato, perché mi sono resa conto che domanda ha rimesso in gioco sia me che tutti i miei alunni”.
Non si può entrare in classe parlando del problema delle elezioni, o della polemica sui politici, sui tagli, sui soldi: “Uno va a scuola, accetta la fatica di un cammino, degli insuccessi e delle correzioni proprio nella prospettiva che la vita sia presa sul serio reciprocamente, dagli alunni e dai docenti”. Quello dell'istruzione è un problema di prospettiva educativa: “La scuola è il luogo in cui la questione della prospettiva dovrebbe essere messa a tema, ma non viene mai toccata da nessuno. Se non prendiamo sul serio questo, di noi rimane solo un mucchietto di cose da fare: il Pof, la programmazione, le verifiche”. In questo modo entrare in classe può uscire dalla solita routine: tra ritmo da riprendere, manifestazioni a cui partecipare, vertenze sindacali da diffondere. “Il mestiere più bello del mondo è diventato routinario – osserva la professoressa D'Antrassi – un coacervo di diritti da sbandierare. La questione principale è al contrario che nel rapporto con un altro tu metti a tema la tua vita”. Non sono solo teorie, atteggiamenti da applicare. E' anche, e soprattutto, esperienza: “Nel corso degli anni vedi persone incredibili – ci spiega la D'Antrassi – Uno con cui ho litigato tutto l'anno ha detto che è cambiato crescendo nel rapporto con me. Io direttamente non ho avuto nessun riscontro di questo. Ma se uno è leale con sé stesso il riverbero di questo sfonda la routine e dà frutti nel tempo”.
Questo non significa negare problemi che ci sono: “Quello del precariato è un dramma, ci sono in giro per l'Italia situazioni economiche gravissime. Non è sufficiente immaginare il proprio lavoro come un posto fisso o uno sbandierare dei diritti. C'è una confusione di livelli. Il rapporto educativo non può essere usato come arma politica”. Anche la professoressa Ferrante parte dalle stesse considerazioni: “Ieri ho avuto un dialogo con un mio alunno, e mi diceva che sarebbe andato a scioperare con la Cgil ‘perché i fondi sono pochi, professoré'. E' bello che avesse voglia di mettersi in mezzo alla questione, perché normalmente prevale l'indifferenza. Non sa le volte che i pochi che entrano in classe quando c'è uno sciopero mi dicono ‘A professorè, gli altri stanno a casa a dormì!'. A quel ragazzo ho chiesto: ‘E' vero che c'è il problema dei fondi, ma è solo questo?' Alla fine ha deciso di andare. Gli ho detto di andare e poi di raccontarmi se al centro della manifestazione c'era quello a cui teneva veramente”.
Una vita al Levi Civita, passata anche lei tra i banchi dell'Amaldi, vera e propria scuola di frontiera, a insegnare storia e filosofia. Idee chiarissime: “Il problema dei fondi c'è, ma non è la scarsità: sono gestiti in modo superficiale dalle scuole. Pochi docenti si chiedono lo scopo della propria iniziativa per la quale chiedono denaro. Ma più in generale manca una riflessione sullo scopo dell'insegnamento che il problema sindacale fa solo perdere di vista. In classe tutto si gioca nell'ora di lezione, perché lì si gioca per me e per loro l'occasione del capire qualcosa della vita”.
Al contrario, nota la professoressa Ferrante, “c'è un standardizzazione del nostro lavoro. I programmi, la valutazione... Oggi gli insegnanti trattano le materie come qualcosa d'astratto, sembrano ministeriali che devono portare a termine il programma. Perdiamo lo scopo di quello che facciamo. Invece nelle classi c'è un fortissimo interesse per la realtà e se non ce ne accorgiamo non abbiamo capito nulla del nostro lavoro”.
Leggi la prima puntata - Leggi la seconda puntata
Il Foglio sportivo - in corpore sano