Per il sociologo della “santa ignoranza” è l'incultura a minacciare le fedi

Marco Burini

Nel libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, “La luce del mondo” (tra pochi giorni in libreria), Benedetto XVI fa mea culpa sul discorso di Ratisbona. Non certo perché ne ritratta i contenuti ma perché riconosce di aver sottovalutato l'impatto delle parole che pronunciò il 12 settembre 2006, durante la sua visita in Germania. “Per lui doveva trattarsi di un discorso eminentemente scientifico”, ha ricordato ieri sul Foglio Seewald.

    Nel libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, “La luce del mondo” (tra pochi giorni in libreria), Benedetto XVI fa mea culpa sul discorso di Ratisbona. Non certo perché ne ritratta i contenuti ma perché riconosce di aver sottovalutato l'impatto delle parole che pronunciò il 12 settembre 2006, durante la sua visita in Germania. “Per lui doveva trattarsi di un discorso eminentemente scientifico”, ha ricordato ieri sul Foglio Seewald. E' il rammarico del professore che parla di cultura ma resta invischiato nella politica per colpa della religione. Eppure quella lectio magistralis, nella sua università, resta l'emblema di un pontificato. “Quello di Ratisbona non fu propriamente un discorso sull'islam, ma su alcune interpretazioni dell'islam. E a ben guardare il vero interlocutore era l'illuminismo – ci dice il politologo Olivier Roy, grande esperto di islam – In effetti Benedetto XVI sta tentando di tenere insieme fede e ragione, è il suo chiodo fisso. Forse però è troppo tardi…”.

    Invitato dal Centre for the Study and Documentation of Religions and Political Institutions in Post-Secular Society dell'Università di Roma Tor Vergata, Roy ha riassunto i termini della questione che ha analizzato in profondità in un saggio tradotto da Feltrinelli l'anno scorso, “La santa ignoranza”. Se negli anni Sessanta e Settanta l'avvento della secolarizzazione sembrava avesse decretato la fine della religione, oggi si constata un ritorno del sacro che si manifesta in molte forme. Secondo Roy, però, non si tratta di un revival delle religioni tradizionali ma dell'esplosione di movimenti con una storia piuttosto recente: evangelici, ebrei ultraortodossi, salafiti, pentecostali…, che non sono una reazione alla secolarizzazione quanto un loro prodotto. E' una religione mutata, senza cultura e senza territorio, che persegue una purezza mitica – la santa ignoranza, appunto – e rifiuta la religione dei padri. Questa “deculturazione”, come la chiama Roy, estingue la dialettica fede-ragione in favore di una religiosità tutta emotiva, letterale. Un fondamentalismo che al professore francese, un protestante della vecchia guardia passato per l'ubriacatura maoista (come racconta con ironia nel libro) e poi diventato consulente del governo francese e dell'Onu, evidentemente non piace. Ma che si sforza di decifrare con atteggiamento pragmatico. “Mi interessa l'impatto politico e sociale di queste nuove religioni”, ci dice. La cosa interessante è che, malgrado i pogrom in atto qua e là per il pianeta, le grandi religioni “tendono ad assomigliarsi sempre di più” in un gioco di adeguamenti reciproci. Una “formattazione”, come la chiama Roy, dovuta alla circolazione globale delle merci e degli uomini. “L'islam spesso viene visto come un'eccezione, come una religione che mantiene un'identità forte e alternativa. Invece anche loro si stanno uniformando: la moschea viene presentata come una chiesa e l'imam come un prete, quando storicamente non è così”.
    Secondo Roy, il multiculturalismo è fallito perché “è un'illusione, un modo artificiale per definire come culturale ciò che non ha più a che fare con la cultura”. E il dibattito pubblico, ancora troppo “ideologico e teologico” (l'islam è compatibile con i valori occidentali? la cultura confuciana è compatibile con la democrazia? il concetto moderno di stato democratico è indissolubilmente legato alla storia del cristianesimo?), è evidentemente “in ritardo sulla realtà”. L'integrazione, confusa e drammatica quanto si vuole, è un fatto.

    In questo marasma il cattolicesimo, dotato di un apparato istituzionale che le altre confessioni cristiane hanno ormai ridotto ai minimi termini, si trova di fronte a “un dilemma fondamentale”: come tenere insieme una vocazione universale e una realtà di minoranza? Due anni fa, intervistato dal Monde, Roy evocava proprio il discorso di Ratisbona. “Il Papa parla sempre più di cultura e sempre meno di aborto. Ricorda regolarmente che il cristianesimo si è ‘formattato' sull'ellenismo, che le radici dell'Europa sono cristiane… Ma si scontra con una contraddizione: come dire contemporaneamente che la cultura europea ha perso Dio e che è cristiana? E come difendere a livello universale un cattolicesimo associato alla cultura occidentale, nel momento in cui il cattolicesimo si rovescia a sud?”. Come ricorda Roy nel suo saggio, nel periodo postconciliare aveva preso piede l'“inculturazione”, l'idea di una chiesa che si inserisce nelle culture e traduce il messaggio evangelico, elaborata dai gesuiti guidati da Pedro Arrupe e ratificata da Giovanni Paolo II nell'esortazione apostolica “Catechesi tradendae” (1979). Un processo rischioso: “Inevitabilmente, valorizzando le culture non cristiane, si finisce per valorizzare le religioni a esse legate passando da un relativismo culturale a un relativismo religioso che finisce per divenire il tratto tipico del dialogo interreligioso”, nota Roy. Ecco perché, nella prefazione al libro di Marcello Pera “Perché dobbiamo dirci cristiani”, Benedetto XVI ha scritto che “un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo”.
    A una giornalista di Jesus, il mensile dei paolini, che pochi mesi fa gli chiedeva se “il grande sconfitto da questa santa ignoranza è il Concilio Vaticano II”, Roy rispondeva: “Il punto è che sono coloro che sono usciti dal Vaticano II a essere oggi dei conservatori. Il Concilio proponeva questo rapporto tra religione e cultura, ma ha ottenuto il risultato contrario: la religione si è perduta”. Nella persona di Joseph Ratzinger si compie la parabola della chiesa cattolica nel Novecento. E si aprono scenari nuovi.