Rivoluzione nel clan Sarkozy
Parlerà ai francesi stasera. Per un'ora e mezza risponderà alle domande dei giornalisti delle principali reti televisive. Parlerà del ruolo della Francia e della presidenza di turno del G8 e del G20. Parlerà della sfida vinta, le pensioni, e di quella da vincere, la fiscalità: cercherà di convincere i francesi dell'urgenza di allinearsi sulla Germania la cui economia va come un treno anche perché il patrimonio non è tassato e le imposte delle impresesono più basse.
Parlerà ai francesi stasera. Per un'ora e mezza risponderà alle domande dei giornalisti delle principali reti televisive. Parlerà del ruolo della Francia e della presidenza di turno del G8 e del G20. Parlerà della sfida vinta, le pensioni, e di quella da vincere, la fiscalità: cercherà di convincere i francesi dell'urgenza di allinearsi sulla Germania la cui economia va come un treno anche perché il patrimonio non è tassato e le imposte delle impresesono più basse. Parlerà del secondo atto del quinquennato che è appena cominciato con il varo del nuovo governo, il Fillon III.
Un gabinetto di guerra: il presidente ha messo le truppe in ordine di battaglia e stasera darà di fatto il via alla campagna elettorale in vista del solo appuntamento che conti in Francia: le elezioni presidenziali che si terranno nell'aprile e nel maggio del 2012. Diciotto mesi sembrano molti ma per risalire la china e provare a recuperare più di venti punti di popolarità perduta, bastano appena. Non parte dunque in anticipo e sa di non avere più diritto all'errore né di forma, né di immagine, né di sostanza. Il presidente e il suo nuovo governo sono chiamati a fare un percorso netto, sans fautes. Per questo non ha rispettato la legge non scritta che vuole che la poltrona di Matignon sia la più insicura, la più traballante, la più ingrata della Quinta Repubblica, per questo ha voltato le spalle alla tradizione secondo cui se il presidente va male è il primo ministro che salta. E ha deciso di tenersi accanto il primo ministro che l'accompagna dall'inizio: ha capito di non poter fare a meno di questo erede del gollismo sociale che sa indorare la pillola e riesce a dire in modo rotondo quello che lui dice in modo tranciante. La spalla ideale, per tempi di bonaccia e di burrasca, come si è visto nel braccio di ferro con i sindacati e la piazza sulle pensioni. E che per di più è molto popolare: colui che a norma di Costituzione sarebbe un fusibile è oggi una ciambella di salvataggio.
L'equivoco che i due fossero destinati a separarsi nasce più o meno a maggio. Allora comincia a girare la voce che i giorni di Fillon sono contati, che il presidente è deciso a puntare su altri per dare nuovo slancio alla maggioranza e più smalto all'azione del governo e a se stesso maggiori possibilità di recupero.
Poi viene l'estate. Di fuoco, virulenta. Con il ministro dell'Interno fedelissimo del presidente che va personalmente a caccia di rom da espellere e di giovani delle banlieue a cui insegnare educazione civica a colpi di matraque. L'identità nazionale che fin lì era materia di fumosi dibattiti e feroci polemiche si materializza addirittura in competenza ministeriale delegata al titolare dell'Interno.
In quel momento sembra a tutti evidente la strategia del presidente per il 2012: la stessa che ha messo a punto nel lontano 2002 e lo ha portato alla vittoria, nel 2007, sfondare a destra, convincere a muso duro gli elettori del Front national a votare utile fin dal primo turno delle presidenziali. Il primo ministro allora nicchia, morde il freno, ogni tanto critica. Sempre più sicuro di essere prossimo al capolinea si smarca pubblicamente dal suo mentore, forse si vede come candidato di riserva della destra in caso di fallimento del piano sarkozista di riconquista.
E invece no: l'ultimo atto del quinquennato, comincia ancora da quest'uomo che sa fare uso di diplomazia a tutto campo, che sa dialogare con tutti, pronto ad aprire tavoli ma anche a rovesciarli quando l'essenziale è in gioco.
Il presidente è rientrato da Seul nella notte fra venerdì e sabato e il rimpasto era praticamente fatto. Claude Guéant, segretario generale dell'Eliseo e uomo di fiducia del presidente e l'ex neo primo ministro, di conserva, avevano limato la lista per tutto il pomeriggio, chiusi in una stanza dell'Hotel Matignon .
Ne è venuto fuori un gabinetto ristretto e rifondato sullo zoccolo duro del sarko chiracchismo come un vero gabinetto di guerra. Ventidue ministri anziché trentasette, quindici con portafoglio e sette delegati, due soli “ministri di stato” il ministro della Difesa Alain Juppé e quello degli Esteri Michèle Alliot-Marie, rispettivamente numero due e numero tre nella gerarchia del nuovo esecutivo.
L'opposizione ha tuonato, denunciando un presunto spostamento a destra. Ed è vero che il Fillon III richiude la parentesi sulla cosiddetta ouverture. Sono stati fatti fuori i socialisti e assimilabili entrati subito e volentieri a corte. A cominciare da Bernard Kouchner: il ministro degli Esteri era in Afghanistan e stava per incontrare il presidente Karzai quando ha saputo di essere diventato ex. Morto in scena come Molière. Il capostipite dei French doctors, il teorico del diritto d'ingerenza umanitaria, l'uomo di mondo marito di una celebre star dell'informazione, il pirotecnico Bernard era da tempo evanescente. Pare che vivesse male, si sentisse stretto tra l'imbarazzo del rimanere in un governo di cui non condivideva più l'ispirazione e l'evidente attaccamento agli onori della funzione: recentemente in un'intervista radiofonica per spiegare perché si ostinasse a rimanere nella squadra se ne uscì con un surreale “dimettersi è disertare”.
Jean Marie Bockel, l'ex socialista e fondatore della Gauche moderne con cui entrò nella maggioranza presidenziale, ha appreso di essere stato fatto fuori per telefono, tre quarti d'ora prima che venisse diffusa la lista dei nuovi ministri.
Resta invece Frédéric Mitterrand, ministro della Cultura e comunicazione, intoccabile per la competenza che gli riconoscono e per il nome che porta. Resta anche Eric Besson: l'ex sodale di Ségolène Royal e François Hollande, passò dall'altra parte durante la campagna del 2007 ma a rigore non può nemmeno più essere considerato un traditore: ha stracciato la tessera socialista e in tasca ha quella del partito del presidente, l'Ump.
Che si tratti di un gabinetto di guerra lo si capisce anche dalla misera fine fatta fare ai centristi. A cominciare dal più famoso della compagnia, Jean-Louis Borloo. Faccia da eterno scugnizzo, vaga rassomiglianza con Massimo Ranieri e capelli spesso in battaglia, dice che tutti gli intoppi che ha trovato sul suo cammino di ministro dell'Ambiente e del rinnovo urbano sono venuti dall'infrastruttura, cioè dagli alti gradi dell'amministrazione e dagli enarchi, che i non enarchi sono soliti additare a simbolo del mal francese. Non aveva mai fatto mistero di detestare Fillon, che gli avrebbe tirato addosso non poche fialette puzzolenti, trattandolo da ministro spendaccione, confusionario, con un certo penchant per la bottiglia, insomma da mezzo babbeo. “Ebbene sì sono uno strano babbeo che crede a quello che fa”, si è difeso Borloo e fino all'ultimo il presidente ha cercato di tenerselo buono proponendogli gli Esteri, la Giustizia o addirittura un ministero su misura comprendente l'occupazione e le ristrutturazioni industriali. Quando è apparso chiaro che si sarebbe sentito appagato solo se super ministro dell'Economia, ovvero primo ministro ombra con gli onori ma senza gli oneri della carica, il presidente ha fatto un passo indietro e l'ha scaricato, tra gli applausi del gruppo parlamentare che di vederlo ancora ministro non aveva proprio alcuna voglia. A mettergli l'ultimo chiodo sulla bara, poi, è stata la disinvoltura con cui il suo direttore di gabinetto aveva dichiarato che non c'erano problemi per i rifornimenti di carburante, mentre almeno in quattro regioni le colonne dei tir si allungavano a vista d'occhio.
Fuori Hervé Morin, l'altro centrista con sensibilità sociale e cristiana. Che però sembra essersi consolato in fretta: ha già fatto sapere che sarà uno dei candidati alle primarie del 2012.
Esce per evidenti ragioni di opportunità Eric Woerth, buon ministro del Lavoro, autore della decente riforma delle pensioni, ma pessimo collettore di fondi pizzicato con le mani nella marmellata della signora Liliane Bettencourt, vedova del fondatore dell'Oreal e donna più ricca di Francia. Sono state messe da parte Fadela Amara, segretario di stato alla città e Rama Yade, titolare dello Sport. Non sono nomi altisonanti ma si trova sempre un Dominique de Villepin per farne un caso, come dire, di alto valore simbolico. L'ex primo ministro di Chirac voleva fortemente la nomina di Borloo a primo ministro solo per poter denunciare Sarkozy come becchino del gollismo. Siccome non è andata così, ha cambiato rapidamente fucile di spalla e si è messo a sparare su un “governo che manca di visione politica perché sbarca tutti quelli che come Borloo e Rama Yade incarnano la fibra sociale e umana”. Il bello è che nel nuovo governo è entrata anche una sua seguace, anzi la sola deputata su cui può contare in Parlamento, ma pare che la cosa non interessi più di tanto al focoso poeta e all'eroico uomo d'azione.
Il ritorno in prima fila di Alain Juppé, sindaco di Bordeaux, dopo la condanna per gli scandali finanziari del municipio di Parigi dell'era Chirac e il periodo di interdizione dai pubblici uffici, rafforza il presidente: Juppé ha prestigio, è competente e non è più impopolare come nel 1995, quando tutta la Francia in lieta allegria si strinse attorno a ferrovieri e dipendenti dei metro per fargli rimangiare il suo progetto di riforma delle pensioni. Juppé che è uno dei fondatori dell'Ump nel 2002 si schierò contro Sarkozy ma oggi in altro contesto rivendica il diritto di cambiare idea e si fa da consigliori all'attuale presidente.
Xavier Bertrand, peso massimo del sarkozismo, torna alla testa di un grande dicastero che comprende lavoro e sanità. Lascia la presidenza del partito, funzione in cui gli subentra Jean-François Copé che a sua volta non è più capogruppo dell'Ump al Palais Bourbon.
E' una virata rivoluzionaria, “totalmente rivoluzionaria perché la caratteristica della rivoluzione è fare un giro a 360 gradi, con l'imperativo della solidità e della professionalità” ha detto Christine Lagarde che resta l'indiscussa “patronne” dell'economia. Ma ha visto giusto Martine Aubry, la leader socialista, che ha definito il rimpasto “clanico”. E che c'è meglio di un clan per fare fronte al futuro, di un inner cercle con Juppé Fillon, Bertrand e Copé che tra cavalli di razza richiamati in servizio, talenti riconfermati e premiati, giovani ambizioni canalizzate e messe sulla rampa di lancio, si proietta verso il 2012 e in caso di vittoria, oltre, a raccogliere l'eredità del sarkozismo. Si potrà dire tutto del giovane Nicolas ma non che non abbia fatto il possibile per vincere di nuovo e preparare per tempo addirittura la sua successione.
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