Fabio dei languori

Mariarosa Mancuso

Torna, caro De Amicis, tutto è perdonato. Potresti mettere insieme un gruzzoletto chiedendo la partecipazione agli utili. Torna, caro Edmondo. “Vieni via con me” aveva tutto, nel settore retorica e buoni sentimenti: invece del racconto mensile, che in “Cuore” interrompe le cronachette dell'anno scolastico, il monologo di Roberto Saviano. Poco dopo, un rosario di banalità equamente diviso tra Fini e Bersani.

    Torna, caro De Amicis, tutto è perdonato. Potresti mettere insieme un gruzzoletto chiedendo la partecipazione agli utili (oltre nove milioni di spettatori, e il 30 per cento di share fanno invidia anche allo scrittore che nell'Ottocento era il più letto d'Italia). Torna, caro Edmondo, perché gli originali sono meglio delle copie, soprattutto quando l'originale ha la data del 1888 e la copia del 2010. Se dobbiamo avere in scena la maestrina dalla penna rossa, il muratorino, il buon Garrone, il piccolo patriota, il figlio della venditrice di erbaggi “con il braccio morto appeso al collo”, perché accontentarci delle imitazioni? Promettiamo di non sfotterti mai più, caro De Amicis, riciclando la frase carducciana “Edmondo dei languori”. Ormai il titolo nobiliare spetta di diritto a Fabio Fazio (nello stemma, una lacrima).

    “Vieni via con me” aveva tutto, nel settore retorica e buoni sentimenti (gli stessi che un tempo la sinistra, per bocca di Umberto Eco, sfotteva celebrando il malvagio Franti, l'infame che rise). Invece del racconto mensile, che in “Cuore” interrompe le cronachette dell'anno scolastico, il monologo di Roberto Saviano, nella seconda puntata dedicato agli scomodi bunker della camorra (siamo pur sempre il paese dove i mafiosi vengono acchiappati perché non trovano più mutande pulite nel cassetto). Poco dopo, un rosario di banalità equamente diviso tra Gianfranco Fini che pronuncia le parole eroi e patria, mentre Fabio Fazio lo guarda con approvazione, e Pier Luigi Bersani che parla dei deboli e di quanto è brutto morire attaccato a un tubo, ottenendo dal conduttore gli stessi sguardi di intesa. L'uomo di destra chiama “eroi” Falcone e Borsellino, l'uomo di sinistra chiama “eroe” il maestro che riporta a scuola l'allievo figlio di immigrati clandestini, l'uomo della tv annuisce a entrambi.

    Nell'elenco delle cose che avremmo mai immaginato – letto con qualche impaccio da Silvio Orlando – questo mancava: una bella rifrittura di temi, palpiti, bandiere, discorsi, ideali educativi, positivismo scientifico di fine Ottocento. Purtroppo mancava una suffragetta, le femmine presenti erano tutte in ruoli ancillari, bisognerà che gli autori ne tengano conto per la prossima puntata. Lo slancio ogni tanto era smorzato da problemi tecnici. Ospiti che uscivano in ritardo dalle quinte, o non sapevano da che parte abbandonare la scena. Don Andrea Gallo avrebbe dovuto lanciarsi in un elogio dell'eutanasia, quando al microfono incautamente lasciato aperto ha affidato le più prosaiche parole: “C'è la pubblicità adesso?”. Non abbiamo sentito una sola parola che De Amicis – o anche una dama di carità qualunque – non avrebbe potuto far sua. Solo che poi l'Edmondo, stufo della melassa da lui stesso prodotta, si toglieva la maschera e in un altro racconto descriveva i ragazzini come crudeli torturatori di un vecchio cartolaio torinese. Possiamo solo sperare che Fazio strapazzi i suoi autori chiedendo: “Ora basta con De Amicis! Almeno copiate da Luciano Ligabue”.