Libro malinconico e intelligente: la fede di B-XVI trova meno seducente la ragione
Del nuovo libro del Papa colpisce il tono introverso, con qualche venatura malinconica. Il rinvio risoluto alla fede, nella forma della “priorità di Dio” e della testimonianza cristiana sulle cose ultime (1), mette inevitabilmente in ombra l'apologetica razionale del cristianesimo, fin qui un marchio teologico molto ben definito del professore, del cardinale e del magistero pontificio al suo inizio.
Del nuovo libro del Papa colpisce il tono introverso, con qualche venatura malinconica. Il rinvio risoluto alla fede, nella forma della “priorità di Dio” e della testimonianza cristiana sulle cose ultime (1), mette inevitabilmente in ombra l'apologetica razionale del cristianesimo, fin qui un marchio teologico molto ben definito del professore, del cardinale e del magistero pontificio al suo inizio. Alla prova della pastoralità, che tempera inevitabilmente il fuoco dell'invenzione teologica e del giudizio filosofico, si ridimensiona un poco l'ardimentoso esperimento di Illuminismo cristiano, sulla linea di confine tra fede e miscredenza, alla ricerca puntigliosa delle ragioni del credere e di una buona vita che sappia fondare devozione e obbedienza sulla libera creatività dell'intelligenza umana (i temi del dialogo con Jürgen Habermas).
Il sedimento della colossale lezione di Ratzinger è vivo anche in questa ultima conversazione, e continua ad essere una ragione seminale del pontificato di Benedetto XVI, ma il paradigma è cambiato. Così almeno pare a me, lettore come sempre incantato dal carisma dell'intelligenza tanto copioso in questo straordinario prete venuto dalla Baviera, e dalla sua signorile spiritualità.
Il trionfalismo restauratore e rinnovatore di Giovanni Paolo II, il suo spirito giubilare, aveva nel teologo di riferimento di Wojtyla quel sostegno in mancanza del quale sarebbe stato impossibile restituire alla chiesa dei cristiani cattolici una funzione di contraddizione e di guida nel mondo moderno, postmoderno (contraddizione e guida, si badi: l'obiettivo è la rilevanza del cristianesimo in occidente, non la sua egemonia).
All'abbassamento postconciliare, una retromarcia troppo brusca e carica di equivoci modernisti rispetto agli eccessi di infallibilismo e ai severi principi antimoderni insegnati dal Vaticano I, fu posto un argine. Come Ratzinger aveva spiegato a Peter Seewald nel 1996 (Il sale della terra, pagine 146-147), testimoniare la fede cristiana voleva dire “porsi fuori da questo strano consenso dell'esistenza moderna”. Per i moderni Dio può anche essere, ma non può esserci, deve mantenere caratteristiche ineffabili di tipo orientale, New Age, non può “contare nella condotta degli uomini”, perché “la responsabilità di fronte a Dio e al suo giudizio è sostituita dalla responsabilità dinanzi alla storia, all'umanità”, e alla fine non v'è alcuna istanza di responsabilità al di fuori dell'opinione pubblica, dei suoi giudizi e dei suoi tribunali (che possono essere atroci)”.
Il cambiamento di paradigma non riguarda tanto i vari aspetti della morale sessuale e delle questioni di genere, dal casto celibato del clero ai suoi peccati, dagli anticoncezionali alla procreazione e alla vita, fino all'ordinazione delle donne e alla condizione ecclesiale dei divorziati risposati: nel 1996, allo stesso intervistatore, Ratzinger rispondeva, a parte la ovvia delineazione di una concezione sponsale dell'amore, che quando si parla di contraccezione e peccato bisogna discutere il problema “con una guida spirituale”, perché simili dilemmi “non si possono considerare astrattamente”. Ratzinger ha sempre avuto tatto, e stile, nel non sovrapporre un messaggio di minaccia a uno di speranza, senza rinunciare tanto alla prospettiva della grazia quanto al giudizio (“In taluni passi del vangelo si parla del giudizio in termini tanto drammatici che possono davvero far rabbrividire, e questo non va taciuto” (Il sale della terra, pagina 211).
Il salto è altrove. E' nella fede, quel fondamento di ciò che si spera e prova delle cose che non si vedono; il salto è in quel fondamento ultrarazionale che tende a ridiventare una inespugnabile fortezza, protetta dal possente muro della testimonianza di vita anziché dal più fragile discorso, dal logos umano disincarnato. Il discorso razionale resta sullo sfondo ma assume una veste ancillare di difficile comprensione per i laici extra ecclesiam. Intendiamoci, Benedetto conferma nel suo ultimo libro, con la consueta forza argomentativa, il dissenso cristiano da alcuni tratti insopportabili dell'esistenza moderna, ma la ricetta nella sostanza cambia: il teologo e filosofo proponeva che il secolo si comportasse “come se Dio ci fosse”, una formula pascaliana, paradossale e intellettualistica, al confine tra agnosticismo e fede, mentre il pastore, che resta comunque un impareggiabile cacciatore di lupi, oggi si rivolge al suo gregge con un più prudente appello alla fede nel Dio vivente.
Benedetto resta un maestro per la minoranza del suo discepolato laico, che non fa parte del gregge e ne rispetta e ama la fede, ma le linee del suo insegnamento pastorale perdono in parte quell'attrazione trasgressiva, quel vigore provocatorio e quell'aura di sfida al secolo, sul suo infido terreno, che ci hanno fino a ieri fatto ragionare, magari anche un po' delirare e, in un certo senso, credere di poter credere.
1. “Credo che oggi, dopo che sono state chiarite alcune questioni di fondo, il nostro grande compito sia in primo luogo quello di rimettere di nuovo in luce la priorità di Dio. La cosa importante, oggi, è che si veda di nuovo che Dio c'è, che Dio ci riguarda e ci risponde” (Luce del mondo, pagine 99-100).
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