Sorry, niente replica del Sessantotto, siamo (studenti) inglesi

William Ward

Per poco meno di quarantotto ore, due settimane fa, in Inghilterra si è avuta l'impressione diffusa che stesse per prendere forma una consistente ondata di proteste studentesche, paragonabile (nella mente di chi la prevedeva) alle grandi contestazioni francesi e italiane degli anni Sessanta e Settanta. Nel Regno Unito non esiste una tradizione di protesta estrema e violenta come altrove in Europa. Nonostante i ripetuti tentativi di alcuni scrittori, drammaturghi e registi cinematografici di evocare un clima di lotta sistematica e strategica fra oppressi e oppressori in alcuni punti nevralgici della società britannica, il fatto semplicemente non sussiste.

    Per poco meno di quarantotto ore, due settimane fa, in Inghilterra si è avuta l'impressione diffusa che stesse per prendere forma una consistente ondata di proteste studentesche, paragonabile (nella mente di chi la prevedeva) alle grandi contestazioni francesi e italiane degli anni Sessanta e Settanta. Testate londinesi che vivono un po' all'ombra dei miti continentali del radicalismo giovanile, come il Guardian, l'Independent e Newsnight – l'autorevole ammiraglia dell'approfondimento della seconda rete della Bbc Tv – hanno subito invocato i fantasmi suggestivi di quegli anni, mischiati a qualche reminiscenza dello sciopero a oltranza dei sindacati britannici contro il programma di chiusura delle miniere carbonifere voluto dal governo Thatcher nei primi anni Ottanta.

    A dare consistenza all'impressione di un crescente movimento spontaneo potenzialmente rivoluzionario erano le dichiarazioni compiaciute di molti docenti delle università e dei college inglesi – in Scozia non c'è alcuna retta, pagano soltanto gli inglesi, malgrado il contribuente inglese contribuisca per intero ai massicci sussidi per l'istruzione pubblica gratuita scozzese –, nonché di qualche deputato laburista e di qualche rappresentante dei sindacati più militanti. La smorfia di sfida e strafottenza del 27enne Luke Cooper, lecturer in Relazioni internazionali alla prestigiosa University of Sussex, che con il simbolo di Batman pitturato sulla fronte sghignazzava ingigantito sulle prime pagine dei giornali, insieme alle sue dichiarazioni tetre e profetiche sulla lotta imminente in tutti gli atenei inglesi e gallesi, ha subito fatto pensare ai lettori a un ritorno al caos studentesco degli ultimi anni Sessanta. Le dichiarazioni con cui John Wadsworth, presidente dell'Unione dei lecturer al gettonatissimo Goldsmiths College, si congratulava con “staff e studenti per le magnifiche gesta durante la manifestazione anti tagli”, imitate quasi subito dai colleghi in diverse altre università, hanno poi dato ulteriore spessore al clima intenso di scontri generazionali abissali.

    “A rendere davvero violenta questa situazione non è certo qualche vetro distrutto”, chiosa con impeccabile logica trotzkistico-patologica una lettera firmata da oltre cento accademici inglesi, “bensì dall'impatto distruttivo dei tagli e delle privatizzazioni che saranno inevitabili se si decideranno gli aumenti delle rette universitarie” – riferendosi ai piani del governo britannico, che intende incrementare il tetto della tassa annuale sui laureati che in futuro troveranno un lavoro ben retribuito – dalle tremila sterline attuali (introdotte dal governo laburista nel lontano 1999) a un massimo di novemila sterline. Passate le emozioni viscerali del momento critico, sono subentrate le riflessioni più ponderate e approfondite: persino coloro che in un primo momento avevano caldeggiato l'ipotesi di una sorta di maggio francese, di soixante-huit londinese si sono resi conto che si trattava di un fenomeno soltanto epidermico, di scarsa consistenza, le cui scene più choccanti erano frutto più di un imbarazzante errore strategico della Metropolitan police che dell'esplosione di un forte sentimento ideologico.

    Del resto, nel Regno Unito non esiste – né è mai esistita, dalla seconda metà dell'Ottocento a questa parte – una tradizione di protesta estrema e violenta come altrove in Europa. Nonostante i ripetuti tentativi di alcuni scrittori, drammaturghi e registi cinematografici – inglesi e non – di evocare un clima di lotta sistematica e strategica fra oppressi e oppressori in alcuni punti nevralgici della società britannica, il fatto semplicemente non sussiste. Purtroppo la società britannica è sempre stata troppo liberale per dare i natali a un vero clima di lotta sociale – tant'è vero che la polizia britannica non è mai stata armata e da sempre funziona in base a un contratto sociale di “consensual policing”, secondo il quale gli agenti sono formalmente “public servants” e non una razza a parte di cui i cittadini hanno paura.
    Non è mai stato facile fomentare una ribellione contro “the pigs” (termine preso in prestito dall'America degli anni Sessanta, dove invece i poliziotti sono armati a dovere) in una società dove il cittadino, nel rivolgersi al poliziotto, gli dà del tu mentre l'agente gli dà del lei. Nessuno, infatti, a parte i commessi di alcuni negozi di lusso dall'atmosfera retrò, usa ancora i termini cortesi “sir”, “ madam” e “miss”, a parte la polizia britannica.

    Una società così aperta e rispettosa della privacy e dell'autonomia dell'individuo rispetto al collettivo, con un sistema giuridico così attento ai diritti dei cittadini – con un'enfasi particolare sui diritti di proprietà – dove c'è il diritto a vestirsi o comportarsi come meglio si crede, lontana dal concetto mediterraneo di “bella figura”, era – e rimane – un terreno fondamentalmente sterile per le suggestioni insurrezionali a livello politico e sociale. Al posto di una chiesa universale unica, c'è un arcipelago pletorico di chiese, sette e scissionisti occasionali, dove ogni possibile convincimento religioso o etico – o il suo totale rovescio – viene da secoli accolto allegramente sotto l'ombrello di “benign neglect” dalla formale chiesa di stato (anch'essa, a sua volta, un arcipelago di sette), privandolo della possibilità di costituire un casus belli anti establishment.

    Come le gerarchie della chiesa anglicana, anche i membri della famiglia reale e della vecchia aristocrazia si sono sempre adeguati ai cambiamenti sociali e culturali, partecipando alle spesso sbarazzine novità culturali con grande entusiasmo o nonchalance. Come si poteva manifestare con forza contro i simboli dell'establishment quando la figlia della sovrana – la principessa Anna, all'epoca una bella ragazza con una stupenda chioma di capelli lunghi – andava, nel 1968, a vedere il prorompente musical “Hair” e si trovava a ballare sul palcoscenico, insieme agli attori nudi, a fine spettacolo? O dove alcuni rampolli delle principali famiglie aristocratiche erano amici intimi dei Beatles, dei Rolling Stones e degli Who e, assieme a loro, dei grandi protagonisti del fenomeno culturale del decennio, la Swinging London?

    Mancava anche una generazione di leader studenteschi radicali capaci di convincere, o persino indottrinare, i giovani inglesi riguardo ai meriti di una società rivoluzionaria ispirata agli idoli delle piazze francesi, tedesche o italiane. L'unico nome spendibile all'epoca era un pachistano di famiglia alto borghese e molto benestante, Tariq Ali, noto più che altro per sembrare un quinto Beatle, che tutt'ora parla con un languido accento aristocratico che stona decisamente rispetto alle sue tesi (le professa ancora, a distanza di quarant'anni). L'attenzione dei milioni di potenziali giovani rivoluzionari era quasi interamente occupata dalla stupenda cultura musicale e sartoriale che da sempre caratterizza il paese dei Beatles, di Mary Quant (inventrice della minigonna) e della Mini.

    I veri radicali irriducibili, quali Tariq Ali e gli aderenti all'unico gruppuscolo vagamente terroristico anarchico della storia britannica, The Angry Brigade, quattro gatti in tutto, non riuscivano a essere presi sul serio da una generazione edonista e scanzonata che era dispostissima a passare quattro giorni nel fango all'isola di Wight a sentire Bob Dylan e Jimi Hendrix immersi in una nuvola di hashish, ma che difficilmente riusciva a decidersi a occupare le piazze cittadine o le aule dei propri atenei.

    Bisogna contare anche un'altra tradizione culturale, storicamente ancora più radicata nella società britannica: la satira. E' dai primi del Settecento che i grandi scrittori satirici inglesi sfottono i propri leader, quasi sempre senza venire sanzionati in alcun modo dalla censura ufficiale. Agli albori della “rivoluzione culturale giovanile” britannica degli anni Sessanta (quella pop, s'intende) la Bbc già trasmetteva “That Was The Week That Was” (TWTWTW), un irriverente schiaffo televisivo settimanale all'establishment, scritto e presentato da un gruppo di comici appena usciti dall'Università di Cambridge. Gli sfottò di TWTWTW contro il premier dell'epoca, Harold MacMillan, erano talmente feroci che Downing Street se ne era lamentata con la Bbc, la quale (molto bacchettona in quegli anni) aveva risposto ricordando che il premier non ha alcun potere sulla programmazione dell'emittente di stato. Stessa cosa dicasi per il settimanale satirico Private Eye, fondato nei primi anni Sessanta e tuttora in edicola, che da allora distrugge la reputazione dei potenti con precisione chirurgica. Gli inglesi – di tutte le età – amano sfottere la propria classe dirigente, e cambiarla regolarmente alle urne quando se ne sono stancati. Perché, poi, fare come i francesi e scendere sempre in piazza contro quelli che hanno eletto?

    Non è quindi una coincidenza il fatto che il secondo atto delle proteste studentesche contro l'aumento delle rette annuali si sia svolto con violenze minori, e soprattutto con molta meno attenzione da parte dei media. Moderati e pragmatici ora come lo erano quarant'anni fa, mercoledì i leader del sindacato degli studenti si sono spesi ancora di più per scoraggiare atti violenti.
    Citando una memorabile frase dell'allora premier Margaret Thatcher a proposito dell'Ira, il ministro dell'Istruzione, Michael Gove, ha pregato i media nazionali di “non dare l'ossigeno della pubblicità” ai manifestanti violenti. E così è stato: nonostante il numero di studenti fosse imponente (forse 150 mila), giornali e telegiornali hanno capito che – a differenza di quello che si diceva a Parigi nel 1968 – “ce n'etait pas qu'un début”, ma solo una pallida replica della volta scorsa. Tra tutti i quotidiani, solo il Guardian ha messo la notizia in prima pagina, ma solo per la curiosità sociologica della forte presenza di allievi liceali che hanno marinato la scuola per una mezza giornata di emozioni forti. Mercoledì, con tempismo impeccabile, è stato processato per direttissima uno studente diciottenne che ha scaraventato un estintore dal tetto della Millbank Tower (si è poi scusato con la corte per “le sue azioni stupide e infantili”). Ancora una volta, il buon senso e l'innata moderatezza degli inglesi hanno vinto, e la rivoluzione non ci sarà.