L'affare Cassano

Beppe Di Corrado

Certe vittorie complicano la vita più delle sconfitte. Riccardo Garrone seduto su una poltroncina dello stadio di Lecce. Da solo. Silenzioso. Gli occhi al campo e il cervello tra i suoi pensieri: vendo? Non vendo? Cassano? I principi? I soldi? Il futuro? I figli? La città? L'onore? L'orgoglio? L'onestà? Tre gol di Pazzini confondono invece di risolvere. Perché mezza Genova, o quasi, comunque la parte sampdoriana, è in crisi d'identità pallonara. Non è gioco, che non c'è e però uno se ne fa una ragione.

    Certe vittorie complicano la vita più delle sconfitte. Riccardo Garrone seduto su una poltroncina dello stadio di Lecce. Da solo. Silenzioso. Gli occhi al campo e il cervello tra i suoi pensieri: vendo? Non vendo? Cassano? I principi? I soldi? Il futuro? I figli? La città? L'onore? L'orgoglio? L'onestà? Tre gol di Pazzini confondono invece di risolvere. Perché mezza Genova, o quasi, comunque la parte sampdoriana, è in crisi d'identità pallonara. Non è gioco, che non c'è e però uno se ne fa una ragione.

    Non sono i risultati, che ci sono sì e no, e però anche di quelli uno si può accontentare. Manca l'idea di futuro, adesso. E' una sensazione che circola nell'aria, un sentimento inespresso e sotterraneo, una specie di paura collettiva della quale non si parla per evitare che si autoavveri, ma che lascia anche il sospetto opposto: che si possa autoavverare proprio perché nessuno ne parla. Quella mezza città, o quello che è, vive quasi senza pensare: il caso Cassano forse è soltanto la punta estrema di un problema più complesso. I capo di Buona speranza di questa storia è quella frase pronunciata da Garrone dopo Parma-Sampdoria: “Se trovo qualcuno che mi dà 200 milioni di euro per la squadra, la cedo subito”. E poi il giorno dopo: “Mi sono sbagliato. Duecento sono anche troppi. Mi accontento di meno”.

    Possibile che l'amarezza per la maleducazione di Antonio Cassano sia sufficiente a far dire cose così? C'è una parte del pubblico che sta con il calciatore, ce ne è un'altra che sta col presidente. Poi dipende da quanto finisce la partita ogni domenica. Però uno che ha preso una squadra di calcio in B e l'ha portata fino alla Champions League, uno che sta nel mondo degli affari da quando è nato, uno che conosce le polemiche perché spesso nella vita le ha create lui, può mandare tutto all'aria perché un pezzo della tifoseria sta dall'altra parte? Garrone che pensa allo stadio di Lecce deve voler dire qualcosa di più dell'amarezza legittima per la storia di Antonio. Genova ragiona, Genova interpreta. C'è qualcosa di strano anche nell'esultanza dell'allenatore Di Carlo dopo i tre gol di Pazzini e soprattutto alla fine della partita. Gesti che sembrano non voler dire niente e spesso dicono tutto: la tensione, le paure, le angosce. Chi ricorda la Sampdoria dell'anno scorso vede tante cose diverse: non c'è Cassano, certo.

    Ma non è soltanto questo: sembra un incantesimo rotto, pare un mondo diverso pieno di nuvole e di lampi, con il nervosismo che affiora alla prima possibilità, con i sorrisi che non ci sono più, con quella sensazione da “vorrei ma non posso” che arriva durante e dopo le partite. La tranquillità l'anno scorso era il pane sul quale s'adagiava il companatico del pallone: Genova era la città perfetta, con lo stadio più bello d'Italia sempre pieno, con l'idea di essere la sorella minore economicamente, ma comunque competitiva di tutte le altre città con due squadre: Roma e Milano, perché Torino no. C'era il Genoa e c'era la Samp: un derby che non valeva più soltanto per la città, per Levante o Ponente, per la Liguria, ma per tutto, per l'Italia e per il campionato. Quest'anno siamo indietro: il Genoa ha addirittura esonerato Gasperini, la Samp viaggia nervosamente a intermittenza. C'è una tensione diversa, uno stress supplementare, un logorio fisico e mentale che trasforma la città in un condensato di ansie. Solo che il Genoa sta lavorando per scrollarsele di dosso, la Sampdoria no.

    O meglio: forse sì, ma non ci riesce. Tutti a ripetere che il problema sia solo quello: Cassano. Possibile? Un fantasma che alimenta dubbi e difficoltà, uno spettro che danneggia l'umore collettivo e che spacca la gente: ci sono i buoni-buonisti che vorrebbero il perdono del giocatore per il bene del collettivo e di se stessi. Ci sono i cattivi-cattivisti che vorrebbero vedere il giocatore altrove a ogni costo, anche se il club dovesse rimetterci soldi. Perché la questione da quando è cominciato questo tira e molla è sempre quella: chi ci rimette di più? Cassano che rischia di non giocare per tutto l'anno e quindi di perdere forse per sempre la Nazionale e la gloria? O il club che non avrà più un campione e che perderà i soldi di una potenziale vendita? Le domande oggi sono senza risposte: ci sono fiaccolate sotto casa di Tonino e striscioni allo stadio; poi, però, ci sono anche trecento tifosi che passano la notte sotto l'albergo della squadra prima della partenza per Lecce. Come a dire: voi siete la squadra e noi siamo con voi. Ci si divide, perché con Cassano è sempre così: o con o contro. Solo che a continuare su questa direttrice forse il rischio è perdere di vista quello che ci potrebbe essere oltre. Perché non può essere solo il caso Cassano ad agitare le notti della parte doriana di Genova. E se stesse per finire il sogno? Il timore inconfessabile, quello del quale nessuno parla per evitare che si autoavveri, è che dietro il momento di sconforto temporaneo ci sia la voglia di mollare, di rimettere le cose al loro posto, di tornare a fare una vita che col calcio non c'entra affatto.

    Perché il pallone, per Duccio Garrone, è una questione d'onore che ha sempre faticato a diventare amore. “Non fu una libera scelta. Doveva acquistarla un principe saudita, poi però sparì. Io e la mia famiglia eravamo coinvolti e, per il nome che portiamo, ne facemmo una questione di credibilità”. Che il calcio non era neppure un hobby: Garrone ha sempre preferito il golf, la caccia, il tennis. Poi l'arte. La palla non ha mai avuto dignità di passione, ma è stato sempre un grande investimento. Nell'88 arrivò la sponsorizzazione della Samp. La scritta Erg sulla maglietta blucerchiata e quella definizione di “compagno di viaggio” di Paolo Mantovani che nessuno gli ha mai tolto. Il presidente voleva vincere. Aveva bisogno di aiuto. Garrone ne parlò così: “Il calcio? Da giovane facevo la mezzala. Erano i tempi del liceo, all'Andrea Doria. C'erano Paolo Villaggio, Mauro De Andrè, Paolo Fresco. Campi di terra. Ho smesso per darmi al tennis, però sponsorizzare la Samp fu un vero affare. Mantovani era un giocatore e anche superstizioso, diceva che il marchio portava fortuna e non mi ha mai chiesto una lira più della prima volta. Noi però, grazie a quel business, siamo arrivati a 2.200 punti vendita in tutta Italia, vicini ad Agip ed Esso. Se ci avessimo provato con la pubblicità, avremmo dovuto investire venti volte di più”.

    Anche dopo è stato un affare: per prendersela la Samp, Garrone ha pagato un euro. Un simbolo, perché i Mantovani non ce la facevano a tenere in piedi la società e per non farla morire la diedero via senza chiedere nulla, se non di accollarsi la gestione e gli ingaggi dei calciatori. Cinquanta milioni in tutto. “E comunque ora la squadra vale molto di più”.
    Non era preparato, il petroliere, però. Non sapeva bene cosa aspettarsi. Quando aveva deciso di intervenire, cominciò a sondare il terreno: “I tifosi devono abituarsi all'idea che per salvare il calcio in questa città, c'è bisogno della fusione di Genoa e Sampdoria”. Ci credeva sul serio, perché in fondo lui è un genovese che non ha mai capito Genova. La ama, la odia, la respinge, si allontana e poi si riavvicina. Una volta la raccontò così: “E' assistita, una realtà addormentata da trent'anni”. Per lui Genova è uno stato mentale. Ricorda molto i versi di Paolo Conte: “Con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così, che abbiamo noi mentre guardiamo Genova, e ogni volta l'annusiamo e circospetti ci muoviamo, un po' randagi ci sentiamo noi”.

    E' anche una questione geografica: i Garrone sul mare ci sono arrivati dall'entroterra. Riccardo, poi, ha fatto il processo inverso: ha riportato gli affari sui monti del basso Piemonte dove il nonno faceva il notaio. “Genova non aveva spazio e allora abbiamo costruito un oleodotto. Il fatto è che si sarebbe dovuto costruire un oleodotto più grande, per far circolare le idee e le persone”. L'andirivieni l'ha fatto lui che è andato e tornato: presidente dell'Associazione industriali della Liguria per tre mandati. Non gli è bastato per capire che il pallone a Genova non si fa mettere in mezzo dal futuro. “Una volta fui messo in castigo perché avevo picchiato un compagno di scuola: era genoano e coppiano, io sampdoriano e bartaliano”. La follia di una fusione era tutta in questa storiella vissuta da ragazzino: è impossibile per Genoa e Sampdoria diventare la stessa cosa, anche oggi. Garrone l'idea la buttò così perché anche quello poteva essere un affare: abbattere i costi e moltiplicare i ricavi. C'era in mezzo una rivalità incancellabile, però. Oggi non lo direbbe più, anzi non l'avrebbe detto più appena sei mesi dopo.

    Tanto per dare il segnale che aveva compreso la gaffe, il giorno della nomina a presidente della Sampdoria, si sbottonò il doppiopetto per mettersi comodo: “Mi è appena nato l'undicesimo nipote. Chiederò che come secondo nome abbia Doriano”. Il pareggio con la coscienza, per lavare anche un'altra cosa molto facile da rinfacciare nell'eterno bisticcio del tifo genovese: nel 1978, Riccardo Garrone, “sampdoriano da sempre”, stava per comprare il Genoa. “Sì, presi in seria considerazione l'idea di comprare il Grifone da Fossati. Era il 1978. Il presidente rossoblu mi diede tutti gli elementi necessari, li tenni chiusi in un cassetto per molti mesi. Era un ottimo investimento, ma decisi di non farne nulla perché in quel periodo in consiglio comunale si stava discutendo della raffineria di San Quirico e sarei stato accusato certamente di cercare privilegi con un'operazione popolare. Non volevo che sembrasse un'arma di pressione sui molti genoani presenti nell'amministrazione pubblica”.

    Aveva già avuto problemi con la politica. Una vecchia storia di finanziamenti ai partiti di centrosinistra. Era l'inizio degli anni Settanta. Garrone, però, ne ha voluto parlare solo molto tempo dopo. In perfetto sincronismo con la campagna antitangestista dei primi anni Novanta. “Il denaro veniva ripartito in proporzione tra i partiti di governo, ma non so esattamente come. Io parlavo solo con il segretario della Dc, Micheli. Il Partito repubblicano italiano? Eh sì, faceva parte della coalizione e riceveva la sua quota. Allora c'era Ugo La Malfa che si meravigliò moltissimo per gli assegni incassati dall'apparato amministrativo del partito. I soldi servivano per le spese territoriali”. Perché i petrolieri pagavano? “Di fatto eravamo obbligati. Non è un caso che negli anni Settanta, Shell e Bp lasciarono l'Italia. Non sopportavano più di essere taglieggiati. Ma quello che accadeva allora era niente rispetto a quello che accade oggi”. Oggi era anche il tempo della politica attiva. In quello stesso anno, il 1992, il petroliere era candidato al Senato nelle liste del Partito repubblicano. A Garrone la politica gli è sempre piaciuta. La presidenza di Assindustria Liguria, le aspirazioni da sindaco dopo i 31 mila voti presi al Senato, insufficienti a garantirgli una poltrona a Palazzo Madama.
    C'entra tutto, anche se non sembra. Perché adesso che la situazione è quella che è, che lui ha la faccia che ha, che girano le voci che girano, c'è il sospetto che Duccio e la sua famiglia abbiano deciso di lasciare. Allora il passato conta. Conta perché se finisce una storia devi rivederla tutta per poterla giudicare. Duecento milioni, o forse meno, per ora sono comunque troppi. Non ci sono acquirenti alle porte, ma c'è la volontà di vendere e tanto basta ad alimentare questa stagione di tensioni genovesi. In fondo, Duccio il mondo del calcio l'ha sempre ritenuto un'azienda a metà: nel 2002, all'inizio della sua presidenza della Samp raccontò di detestare i comportamenti dei calciatori. Era in tribuna, perdeva tre a zero con l'Ancona, si voltò verso un ex tecnico della Erg: “Sai che cosa avrei fatto, anzi cosa farei se mi trovassi nella mia azienda gente così? Li caccerei a calci nel culo”. Non ha cacciato nessuno, ancora. Spera di farlo con Cassano, ex figlio prodigio e ora ripudiato per manifesta maleducazione.

    Non è la prima volta che ci sono stati problemi con Antonio. Quel che è cambiato adesso è il clima. In città girano voci di riunioni familiari con i figli di Duccio che avrebbero chiesto espressamente al padre di vendere. Poi, per la verità, girano anche quelle opposte. Cassano ha destabilizzato un ambiente che evidentemente non era poi così stabile. Nel senso che a Garrone del pallone non stanno bene diverse cose e una in particolare: avere oggi la certezza di non poter più costruire il nuovo stadio. Era una fissazione. Lo disse per la prima volta appena nominato presidente: “Dobbiamo cambiare stadio”. Genova ha l'impianto più bello d'Italia, ha un pezzo di storia del pallone che non vuole abbandonare e uno dei pochi esperimenti riusciti nel disastro del mondiale del '90. Garrone, però, il calcio lo porterebbe altrove: “In un posto dove si possa costruire una struttura polifunzionale”. Ha cercato di convincere il Genoa a trovare un accordo. Insieme per chiedere l'aiuto del comune. Anche Preziosi aveva l'idea di fare un impianto tutto nuovo. Progetti, carte, ipotesi. Punto. Perché i tifosi non vogliono, la città non ha i soldi, le squadre nemmeno: ci ha provato, Garrone. Voleva fare da solo, visto che il comune nicchiava. Ha dovuto desistere. E questo adesso conta più della maleducazione di Cassano. Antonio e le sue intemperanze sono arrivate nel momento giusto. Sul principio il presidente ha ragione: il calciatore che insulta il suo datore di lavoro è imperdonabile, se i tifosi si schierano con il giocatore, allora vuol dire che per il pallone non c'è speranza di diventare migliore. La gente fischia la Samp che senza Cassano non vince? Garrone s'arrabbia, anzi di più s'amareggia. E si sfoga: “Vendo”. E' un gioco psicologico che finirà soltanto quando uno dei due mollerà. O il pubblico o il presidente. E' la stagione della tensione, questa. E' un labirinto mentale, nel quale entrano tutti: gli altri giocatori, l'allenatore, i tifosi, il resto del club. Mezza Genova, o quello che è, ha perso la felicità. Anche quando vince.