La cara salma a Bruxelles
Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha festeggiato ieri il suo primo anniversario alla testa dell'Unione. Esattamente un anno fa entrava in vigore quel Trattato di Lisbona che doveva assicurare all'Europa un presidente e un ruolo più forte nel mondo e dare agli europei un volto e un leader in cui riconoscersi. All'epoca, i Ventisette scartarono l'ipotesi di una leadership forte, incarnata dall'ex premier britannico Tony Blair.
Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha festeggiato ieri il suo primo anniversario alla testa dell'Unione. Esattamente un anno fa entrava in vigore quel Trattato di Lisbona che doveva assicurare all'Europa un presidente e un ruolo più forte nel mondo e dare agli europei un volto e un leader in cui riconoscersi. All'epoca, i Ventisette scartarono l'ipotesi di una leadership forte, incarnata dall'ex premier britannico Tony Blair. A un “president” visionario, i capi di stato e di governo dell'Ue preferirono una figura grigia, un tecnocrate pragmatico, dedito alle mediazioni. Insomma, un “chairman” in grado di coordinare le posizioni dei leader europei, senza far loro ombra. Chi meglio di un primo ministro belga, ignorato perfino dai suoi concittadini, ma abituato a trovare compromessi tra fiamminghi e valloni in un Belgio sulla via della scissione? Dodici mesi dopo, l'uomo che era stato soprannominato “Mister chi?” rimane un perfetto sconosciuto alla maggioranza dei cittadini del continente. Mentre, tra guai dell'euro e irrilevanza globale, l'Europa vive “una crisi esistenziale” – come ha riconosciuto lo stesso presidente del Consiglio europeo, salvo rinnegare le proprie parole – che ha tratti analoghi a quella che vive il Belgio e di cui Van Rompuy è solo l'impersonificazione.
La mancanza di leadership di Van Rompuy è riassunta dalle sue recenti esitazioni sulla crisi della moneta unica, che ha segnato tutto il primo anno di mandato. Martedì 16 novembre, mentre l'euro tremava a causa dei pericoli di contagio provenienti dall'Irlanda, per la prima volta il presidente del Consiglio europeo usciva dal suo riserbo per lanciare un messaggio forte: “Siamo in una crisi di sopravvivenza. Dobbiamo lavorare insieme per sopravvivere nella zona euro perché, se non sopravviveremo, non sopravviverà nemmeno l'Unione europea”. Applausi dagli europeisti. Fischi dai mercati, che sobbalzano a ogni parola di troppo dei leader europei. Due giorni dopo, di fronte alla caduta dell'euro e ai rimbrotti di alcuni capi di governo, Van Rompuy ha rettificato: “Sono fiducioso che supereremo gli attuali problemi. Il riferimento alla crisi di sopravvivenza è stato interpretato male. Una dichiarazione radicale da un uomo cauto (come me) sarebbe stata una vera sorpresa!”. Una settimana dopo sono stati i tedeschi – la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro delle finanze, Wolfang Schäuble – a dichiarare che, con la crisi dell'Irlanda, “è in gioco il futuro stesso dell'euro”.
“Questa crisi ha fatto apparire una debolezza di leadership collettiva e di esilità politica nella generazione di dirigenti attuale”, dice al Foglio Thomas Klau, direttore dell'ufficio di Parigi dell'European Council on Foreign Relations. “Uno dei rari buoni leader in Europa oggi è Jean-Claude Trichet”: il presidente della Banca centrale europea ha saputo attraversare la crisi senza farsi condizionare dal panico dei mercati e dei politici. A maggio Trichet ha tenuto testa al presidente francese, Nicolas Sarkozy, che voleva dettare la politica della Bce; a novembre si è scontrato con Merkel sul coinvolgimento nel meccanismo permanente di stabilizzazione della zona euro. Herman Van Rompuy, per contro, si è fatto dettare l'agenda dalla crisi e dagli umori degli altri leader: in febbraio l'inizio dei guai in Grecia; in maggio il salvataggio di Atene e un fondo da 750 miliardi per gli altri paesi della zona euro in difficoltà; in ottobre l'elaborazione di un nuovo Patto di stabilità; in novembre le modifiche dei trattati per coinvolgere gli investitori privati nel default di un paese.
A differenza di Trichet, il presidente del Consiglio europeo “si è trasformato nel centralino telefonico dei suoi due grandi elettori”, scherza con il Foglio un funzionario europeo. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy – i due leader che lo avevano voluto alla testa dell'Ue al posto di Tony Blair – hanno usato Van Rompuy come mediatore con gli altri partner europei. Salvo escluderlo ogni volta che si doveva arrivare a un compromesso tra Parigi e Berlino. “Il povero Van Rompuy ci ha confessato di aver letto dalle agenzie il contenuto dell'accordo di Deauville”, quello con cui il 19 ottobre Merkel e Sarkozy si accordarono sulle modifiche al Trattato di Lisbona, racconta al Foglio un ambasciatore di un altro grande paese: “Francia e Germania non hanno nemmeno la decenza di prendere accorgimenti formali” per rispettare le istituzioni europee e i partner.
Il dominio franco-tedesco sugli affari europei è uno dei molti elementi della crisi esistenziale dell'Ue. “Lo spirito di Deauville viene vissuto con molto malessere e disagio” dalle altre capitali, si lamenta l'ambasciatore. Ormai “c'è chi lo dice apertamente nelle riunioni del Consiglio, e c'è chi lo dice in altri modi”. Un esempio è il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha lanciato l'idea di creare un gruppo dei Sei grandi dell'Ue per evitare che le decisioni siano “precotte” da Parigi e Berlino. Secondo l'ambasciatore, Francia e Germania stanno “indebolendo le istituzioni dell'Unione. Alla lunga non può durare”. Anche perché, come dimostra l'andamento dei mercati, i risultati lasciano a desiderare.
Nonostante l'accordo raggiunto domenica dai ministri delle Finanze dell'Ue sul salvataggio dell'Irlanda e il meccanismo permanente di stabilizzazione della zona euro, martedì i mercati hanno confermato la bocciatura di lunedì: la moneta unica europea continua a cadere, gli spread tra i bond dei paesi periferici e i bund tedeschi continuano a salire. Tutti gli indicatori del contagio segnalano allarme rosso. Portogallo e Belgio hanno visto salire i tassi di interesse sui loro titoli di stato. Il premio chiesto dagli investitori sui bond spagnoli e italiani è salito a livelli record dall'introduzione dell'euro: rispettivamente 2,90 e 2,04 per cento. I credit default swap – i contratti di assicurazione contro l'ipotesi di default di un paese – sono ai massimi. Secondo Gary Jenkins, analista di Evolution Securities a Londra, “con i mercati che si stanno muovendo rapidamente verso Spagna e Italia, è possibile che i too big to fail diventino too big to bail”. In altre parole, i paesi “troppo grandi per lasciarli fallire” (salvo provocare una crisi sistemica) sono anche “troppo grandi per essere salvati”. L'incubo di un'implosione dell'Unione monetaria torna a riaffacciarsi.
Il problema, secondo alcuni analisti, è che l'Ue ha cercato di mettere una pezza a seconda delle difficoltà contingenti dei singoli paesi, senza mai riuscire a trovare una soluzione strutturale alla crisi del debito sovrano. Per la Grecia è stato adottato un piano di salvataggio apposito da oltre 100 miliardi provenienti dai paesi della zona euro e dal Fondo monetario internazionale. Al salvataggio dell'Irlanda sono stati chiamati a contribuire anche Regno Unito e Svezia, che sono fuori dall'Unione monetaria. Creando il fondo da 750 miliardi di euro a maggio, si è sottovalutato “l'azzardo morale” che spinge gli investitori a speculare sui titoli di stato a rischio, coperti dalle garanzie dell'Ue. Per porvi rimedio, a ottobre si è deciso di imporre ai privati di assumersi i rischi dei loro investimenti, ma l'ipotesi di “default controllato” ha innescato la crisi dell'Irlanda. Ora ci si accorge che i 750 miliardi messi in campo dai paesi della zona euro e dal Fmi potrebbero non bastare per salvare la Spagna o l'Italia.
Le incertezze e le contraddizioni dei leader europei hanno alimentato lo scetticismo dei mercati. Le esitazioni tedesche sul bailout della Grecia ne hanno aumentato i costi. Le difficoltà a trovare un compromesso tra Parigi e Berlino hanno indebolito il nuovo Patto di stabilità. La confusione che circonda il “Meccanismo europeo di stabilità” annunciato domenica – in base al quale le clausole di azione collettiva nell'ambito di una ristrutturazione del debito saranno attivate “caso per caso” – ha incoraggiato il fuggi fuggi dai mercati. Van Rompuy è stato incapace di mettere a tacere la cacofonia degli altri leader e di chiarire i dettagli dei piani europei. “Più perdura l'incertezza degli investitori sulle modalità della loro partecipazione ai costi, più forte è la probabilità che si ritirino dai mercati”, ha detto a Handelsblatt Mohamed el Erian, numero due del fondo di investimento americano Pimco.
A Bruxelles qualcuno si interroga sulla reale volontà della Germania. “C'è perplessità sulla saggezza di chi tira le fila a Berlino”, dice al Foglio un diplomatico Ue. Il sospetto è che la Germania voglia arrivare a un'implosione dell'euro, per spingere fuori dalla moneta unica i paesi periferici incapaci di reggere i ritmi tedeschi. Hans-Olaf Henkel, presidente della Confindustria tedesca tra il 1995 e il 2000, ha chiesto che la moneta unica venga spaccata in due: un euro nordico forte e un euro meridionale debole. Al di là delle speculazioni, i dati economici mostrano già una zona euro divisa in almeno due blocchi. “Bisogna riconoscere che c'è un certo dualismo economico in Europa”, ha ammesso lunedì il commissario agli Affari economici Olli Rehn, presentando le sue previsioni di autunno. La Germania corre a ritmi del 3 per cento l'anno, mentre Spagna, Portogallo e Grecia sono ancora in recessione. L'Herald Tribune ieri parlava di una zona euro “a tre velocità”: tra i tedeschi e gli ultimi della classe, c'è “un terzo gruppo di economie che include Francia e Italia, che non ha sofferto molto durante la recessione (…) ma che non si è ripreso bene come altri”.
Tutta concentrata sulla sua crisi interna, l'Europa non registra alcun successo sulla scena internazionale. In maggio, Barack Obama ha annullato il vertice semestrale Stati Uniti-Unione europea perché ritenuto inutile. In novembre, il presidente americano ha concesso a Van Rompuy solo un paio d'ore della sua agenda, in coda al summit della Nato a Lisbona. Cina e Russia perseguono la strategia del “divide et impera”, mettendo in concorrenza i singoli stati membri dell'Ue e snobbando il dialogo complessivo con Van Rompuy. Pechino ha assicurato che aiuterà Grecia e Portogallo in cambio di un accesso privilegiato ai loro mercati. Mosca ha appena firmato un contratto energetico bilaterale con la Polonia, che ha allarmato la Commissione europea perché mina il progetto di una politica comune sull'energia. Il Servizio esterno previsto dal Trattato di Lisbona non è ancora in funzione. L'Alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, ha nominato i vertici della diplomazia Ue, ma la baronessa britannica si ritrova alla testa di un esercito senza soldati. Nel frattempo, Ashton fatica a inserire nella sua agenda i molti appuntamenti internazionali e a far prevalere la sua voce su quella delle diplomazie nazionali. Sintomo che l'Europa conta sempre meno nel mondo, in settembre le Nazioni Unite hanno detto “no” alla richiesta di dare un seggio all'Ue per permettere a Van Rompuy e Ashton di esprimersi durante l'Assemblea generale.
Ad aggravare i problemi europei c'è il carattere bicefalo del vertice Ue, introdotto dal Trattato di Lisbona. Il presidente del Consiglio europeo e il suo omologo alla Commissione, José Manuel Barroso, fanno colazione insieme quasi ogni settimana. Ma appena alzati da tavola, proseguono la battaglia su chi dirige gli affari dell'Ue. Van Rompuy vorrebbe ampliare le sue competenze al di là dei vertici europei e rivendica un diritto di parola sulla Commissione nei settori dell'Economia e degli Affari esteri. Barroso teme il suo dirimpettaio e cerca di non indispettire gli Stati membri. Secondo Thomas Klau, “è troppo presto per un giudizio definitivo”. Ma finora il trio Van Rompuy-Barroso-Ashton “non è riuscito a proiettare un'immagine di leadership europea sufficientemente forte”. Così, con tanti presidenti e nessuna leadership, l'Ue non riesce a discutere di questioni fondamentali per il suo futuro prossimo: il completamento del mercato interno, la fine delle deroghe alle regole sulla concorrenza introdotte con la crisi; le prospettive finanziarie 2013-2020; la riforma della Politica agricola comune. Nelle ultime settimane, stati membri e Europarlamento non sono riusciti nemmeno a trovare un accordo sul bilancio dell'Ue per il 2011, mettendo a rischio la creazione delle nuove autorità di sorveglianza finanziaria e del Servizio di azione esterna di Ashton.
Il quotidiano belga Le Soir ha sottolineato che Van Rompuy “avrebbe potuto esprimersi ad alta voce diverse volte. Sulle stecche europee a Haiti. Sulla nube irlandese che ha immortalato un'Europa del ciascuno per sé. Sulla stigmatizzazione dei rom. Il giorno in cui il premio Nobel è stato attribuito al cinese Liu Xiaobo, il presidente del Consiglio europeo non ha spiccicato una parola”. “Sono il presidente del Consiglio europeo, non il presidente degli europei”, si giustifica Van Rompuy. L'ex premier belga “si sforza di riempire il suo mandato in modo dinamico”, spiega Thomas Klau. “Ma si scontra con la difficoltà di dover definire i contorni e le modalità di funzionamento del suo incarico nel mezzo di una delle crisi più violente e pericolose che ha conosciuto la costruzione europea”. Lo scorso anno, i leader europei avevano giustificato la nomina di Van Rompuy con le sue abilità di mediatore sulla scena politica belga. In un anno con lui come primo ministro, valloni e fiamminghi erano riusciti a restare uniti. Se avessero guardato meglio al suo bilancio, i Ventisette avrebbero scoperto una realtà diversa: per disinnescare il rischio di scissione, da primo ministro Van Rompuy si era accontentato di governare in ordinaria amministrazione, rinviando al futuro le questioni esistenziali che dividono il paese in due. Da sei mesi, il Belgio non ha più un governo: dopo le elezioni dello scorso giugno, le questioni istituzionali, economiche e culturali che dividono valloni e fiamminghi sono detonate. Secondo l'Economist, la crisi politica belga rischia di essere un laboratorio dell'evoluzione dell'Ue. La Germania è come le Fiandre: ricca, con un'economia che corre, un po' egoista, sempre più nazionalista. Grecia, Irlanda e Portogallo sono come la Vallonia: poveri, con un futuro di stagnazione e dipendenti dagli aiuti altrui. Pur avendo avuto Van Rompuy come primo ministro, i fiamminghi continuano a volere la secessione dai valloni. E con Van Rompuy come presidente, i tedeschi potrebbero decidere di abbandonare greci, irlandesi e portoghesi al loro destino.
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