Dove si racconta che per incastrare un Fikri non basta intercettarlo

Marco Pedersini

Il biglietto con cui Mohamed Fikri, un muratore marocchino residente nel trevigiano, era salito sul traghetto Bernake, direzione Tangeri, sarebbe stato comprato più di un mese fa. Prima di partire aveva gettato la scheda del telefono cellulare della sua fidanzata perché, ha detto nell'interrogatorio, qualcuno le telefonava con troppa insistenza e lui voleva troncare la cosa prima di lasciare l'Italia.

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    Il biglietto con cui Mohamed Fikri, un muratore marocchino residente nel trevigiano, era salito sul traghetto Bernake, direzione Tangeri, sarebbe stato comprato più di un mese fa. Prima di partire aveva gettato la scheda del telefono cellulare della sua fidanzata perché, ha detto nell'interrogatorio, qualcuno le telefonava con troppa insistenza e lui voleva troncare la cosa prima di lasciare l'Italia. Erano semplici indizi, che un teorema accusativo a buon mercato ha trasformato in prove incontrovertibili: è lui l'assassino di Yara Gambirasio, sta scappando all'estero. Poco importa che la grande teoria si basasse su un indizio labile, suffragato da una coincidenza sinistra: Mohamed Fikri lavorava in un enorme cantiere a cui avevano puntato i cosiddetti “cani molecolari” (i segugi che memorizzano l'odore di una persona annusando un oggetto o un indumento). 

    Ieri Mohamed Fikri è stato scarcerato,
    perché l'intercettazione in cui avrebbe detto “Allah mi perdoni, non l'ho uccisa io”, era stata tradotta male da tre dei sette periti consultati. Fikri era al telefono con una persona a cui doveva duemila euro, e parlando in tunisino deve aver detto una frase che oscilla tra un ordinario “Allah mi protegga” e “Dio mio, fa che risponda”. I dialetti si differenziano dall'arabo classico per come vocalizzano le consonanti ed è facile inciampare in un errore di traduzione se i verbi in questione hanno almeno due consonanti su tre in comune – è il caso dei verbi “perdonare” e “difendere”.  L'interlocutore della telefonata ha confermato tutti i dettagli e Roberto Benozzo, il datore di lavoro di Mohamed Fikri, ha confermato di aver passato i giorni della scomparsa di Yara Gambirasio sempre a stretto contatto con il potenziale “mostro”, al cantiere.

    “Noi magistrati non dobbiamo commentare un'indagine in corso – dice al Foglio il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio – ma il fatto che la fonte di prova per cui è stata arrestata una persona fosse sbagliata ci conferma la necessità di ripensare la disciplina di quella fonte, altrimenti le indagini collassano a beneficio di chi si occupa di pettegolezzi”. Nordio non è sorpreso dall'errore di traduzione (“a Venezia un processo su un presunto caso di terrorismo islamico si è dissolto per gli esiti diversi delle traduzioni delle intercettazioni”, ricorda), ma dal fatto che si sia data tanta credibilità alle intercettazioni che, “stando all'art. 15 della nostra Costituzione, dovrebbero essere un'eccezione, uno spunto per le attività di indagine, come le spiate o le confidenze. Sono un mezzo di ricerca della prova, non un mezzo di prova”. Alle intercettazioni “manca persino il tono, che è fondamentale per giudicare”, sottolinea Nordio. Ma la “logica del dossier”, secondo la lezione dell'avvocato francese Jacques Vergès, esige un rito sbrigativo, necessariamente superficiale, in cui “alla fine perdiamo tutti”, dice al Foglio il direttore dell'Eco di Bergamo, Ettore Ongis: “In questo momento dobbiamo credere che gli inquirenti facciano bene il loro lavoro, perché se non troviamo Yara non potremo lasciare i nostri figli passeggiare per strada. Ma quello dei magistrati è un errore colossale, che è lo stesso nostro: spettacolarizziamo la vita, in cerca di un'uscita a effetto, e finiamo con giornalisti che sentenziano prima delle prove e giudici che tirano conclusioni su riscontri deboli”.

    Dopo quasi due settimane di indagini secondo il rito sommario dell'era del plastico – in cui, lamenta Ongis, “abbiamo abolito la realtà” – si prosciuga uno stagno artificiale, si setacciano cascine e cave nell'arco di otto chilometri da quella che Repubblica chiama già “la palestra del mistero” e il questore dice che “non seguiamo una pista”. E' la triste conferma di quello che il commissario Matthäi, nella “Promessa” di Dürrenmatt, detestava degli scrittori: “Un fatto non può ‘tornare' come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande. Le nostre leggi si  realizzano soltanto in generale, non in particolare. Il caso singolo resta fuori del coro. I nostri metodi criminalistici sono insufficienti, e quanto più li perfezioniamo tanto più insufficienti diventano alla radice”. Le spiegazioni sbrigative dimostrano che “abbiamo bisogno di  un universo da dominare”, diceva il commissario, per poi notare: “Può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna”.

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