Putin, l'uomo nero
Da ormai dieci anni, da quando cioè venne scelto da Boris Eltsin come proprio successore, Vladimir Putin gode di una pessima reputazione – magari non in patria, dove il gradimento continua ad attestarsi intorno al 70 per cento, ma certo nell'opinione del “mondo libero”. Per questa opinione, Putin è l'uomo nero della nuova Russia, il cui profilo si staglia sinistro dietro a tutto quanto di opaco, di corrotto, di intimidatorio emerge dalla gestione del potere politico. Non è difficile capire le ragioni di un giudizio così negativo.
Da ormai dieci anni, da quando cioè venne scelto da Boris Eltsin come proprio successore, Vladimir Putin gode di una pessima reputazione – magari non in patria, dove il gradimento continua ad attestarsi intorno al 70 per cento, ma certo nell'opinione del “mondo libero”. Per questa opinione, Putin è l'uomo nero della nuova Russia, il cui profilo si staglia sinistro dietro a tutto quanto di opaco, di corrotto, di intimidatorio emerge dalla gestione del potere politico. Non è difficile capire le ragioni di un giudizio così negativo. Il curriculum non ha mai attirato simpatie: il secondo presidente dell'epoca post-sovietica proviene dai ranghi del Kgb.
Quanto alla sua azione da capo dello stato, volta a porre fine all'anarchica sregolatezza che dominava negli anni Novanta, ha fatto ricorso più alle cattive che alle buone maniere. La guerra in Cecenia è stata brutale, al di là di ogni immaginazione. In Russia, la restaurazione dell'autorità sovrana ha spazzato via tutti i centri di potere alternativi: quello dei governatori regionali, che non vengono più eletti ma nominati da Mosca, e quello della televisione, che è passata dalle mani degli oligarchi al controllo del Cremlino. In questo contesto, il processo a Mikhail Khodorkovsky – di cui è imminente una probabile seconda condanna – è apparso più un atto di vendetta che di giustizia. Nella politica estera, infine, quando sono in gioco i suoi interessi di grande potenza, la Russia putiniana ha cessato di essere un' interlocutrice malleabile. E poi c'è lo stile dell'uomo dagli occhi di ghiaccio: quegli occhi che non cambiarono espressione nemmeno quando nel 2000 Larry King, in una ormai storica intervista per la Cnn, gli chiese cosa fosse successo al sommergibile Kursk e Putin rispose soltanto: “E' affondato”. Ecco, ce n'è più che abbastanza per giustificare, da lontano, tutte le diffidenze.
Viste da vicino, però, le cose appaiono in una luce diversa. A cominciare da un fatto apparentemente paradossale: nella sua storia plurisecolare, la Russia non ha mai conosciuto un periodo di libertà e benessere come nel decennio appena trascorso, cioè nel decennio di Putin. Questo è, naturalmente, un giudizio relativo, la cui ratio sta tutta nel confronto con gli anni precedenti, ma non per questo è meno vero. Il benessere oggi è tangibile, almeno in una città come Mosca, dove è venuta formandosi una numerosa classe media (lontana dagli eccessi della miseria e della ricchezza sfacciata) e dove la generazione cresciuta dopo l'epoca comunista, particolarmente intraprendente, occupa ben retribuite posizioni di responsabilità in tutte le professioni. La città pulsa di una non comune vitalità: i ristoranti, i bar, i teatri, le gallerie d'arte sono pieni a ogni ora del giorno e della notte. Certo, la crisi è arrivata pure qui e – tutto il mondo è paese – in tanti si lamentano. Ma un amico che non si lamenta mi invita a osservare il traffico per la strada: “Otto macchine su dieci sono di fabbricazione straniera, particolarmente costose: dunque le tasche non sono vuote”.
Più difficile misurare le libertà, anche per una certa ambiguità del concetto. Nell'epoca eltsiniana, ad esempio, c'era molta libertà, ma questa coincideva con l'estrema debolezza del potere statale, cioè con l'anarchia. I due più importanti canali televisivi erano nelle mani degli oligarchi Boris Berezovskij e Vladimir Gusinskij, che se ne servivano per tenere sotto tutela il potere politico: erano gli anni in cui i due avevano libero accesso al Cremlino e imponevano i loro uomini al governo. La lotta contro Berezovskij e Gusinskij (emigrati poi uno a Londra, l'altro in Israele), vale a dire la lotta contro la “televisione libera”, è stata una delle azioni chiave della presidenza Putin. Oggi la televisione, in quel senso, non è libera, cioè è diretta da uomini che non criticano né il presidente né il primo ministro: l'opposizione ha i suoi spazi in onda, che sono minori di quelli di cui gode il governo, secondo un modello che certo non esiste solo in Russia. E' un modello che incoraggia il conformismo – contro il quale una settimana fa è intervenuto pubblicamente e clamorosamente il più popolare dei giornalisti televisivi, Leonid Parfionov – ma sono una minoranza i russi che rimpiangono la tv partigiana degli anni Novanta. Nella carta stampata, che conta meno della tv, la situazione è un po' diversa. A parte fogli come la Novaya Gazeta, dichiaratamente anti-putiniana, i giornali più autorevoli, dal Kommersant alle Novye Izvestia, non di rado azzardano critiche al governo e ci sono columnist di talento, come Julia Latynina (Radio Echo Moskvy e Moscow Times), che devono la loro popolarità ai continui interventi polemici nei confronti del potere. Insomma, se è un “regime”, è piuttosto imperfetto.
Resta il fatto che la Russia vanta il triste primato dei giornalisti uccisi a causa delle loro denunce della corruzione e dell'illegalità. La Fondazione in difesa della Glasnost ne ha contati, dal 1993, circa trecento, in tutto il territorio dell'ex Urss. Per l'omicidio di Anna Politkovskaja, implacabile avversaria della guerra nel Caucaso, a quattro anni di distanza, killer e mandanti restano impuniti, anche se tutte le tracce conducono al presidente ceceno Ramzan Kadyrov, installato al potere da Mosca. Essere giornalisti investigativi resta un mestiere pericoloso, soprattutto se si pestano i piedi dei ras locali e si cerca di fare luce sugli intrecci tra criminalità, business e poteri politici. Le responsabilità di chi governa il paese sono evidenti. Senza dimenticare, però, che si tratta di un atroce fenomeno iniziato negli anni Novanta (il picco è stato il 1993) e che si è alimentato del clima di violenza e di impunità (la mafia russa) garantito dalla complicità (o dall'inerzia) di organi dei servizi segreti, della polizia, della magistratura. Il fenomeno, finalmente, ha cominciato a preoccupare anche i vertici dello stato.
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