Detroit, la rivoluzione
Fiat o meglio Chrysler-Fiat ha imboccato ieri a New York la strada che la porta fuori da Confindustria e dalla sua tradizione di contratti nazionali concertati. La rivoluzione di Sergio Marchionne è politica, sociale, avrà ripercussioni ben oltre le relazioni sindacali in senso stretto, ben oltre la questione dell'organizzazione del lavoro e dei diritti. Lo smantellamento del vecchio contrattualismo cambia struttura e assetto dei poteri in Italia.
Fiat o meglio Chrysler-Fiat ha imboccato ieri a New York la strada che la porta fuori da Confindustria e dalla sua tradizione di contratti nazionali concertati. La rivoluzione di Sergio Marchionne è politica, sociale, avrà ripercussioni ben oltre le relazioni sindacali in senso stretto, ben oltre la questione dell'organizzazione del lavoro e dei diritti. Lo smantellamento del vecchio contrattualismo cambia struttura e assetto dei poteri in Italia. Marchionne da Detroit importa a Mirafiori e altrove, con sensibile rischio di contagio a macchia d'olio, il modello di business e di lavoro americano. Addio riunioni e concertazioni al terzo piano di Palazzo Chigi. Stato Confindustria e sindacati confederali o di categoria prendono un colpo storico nel loro spazio e nella loro funzione. Lavoratori e impresa faccia a faccia a discutere di salari e produttività e modelli di lavoro e tecnologie e condizioni ambientali: fine presuntiva per la gigantesca intermediazione sociale all'europea, di ceppo storico corporativo.
Ne parliamo con Paolo Mieli, per vent'anni ai vertici del Corriere, storico e conoscitore del mondo Agnelli e della Fiat. “La soluzione a cui lavora Marchionne è il bandolo americano da tirare per disbrogliare la grande crisi europea, per ridefinire occidente e capitalismo liberal-democratico alla luce dei default da debito sovrano e del peso ormai insostenibile del nostro modello di sviluppo. Se alla fine questa linea aziendalista e produttivista di stampo americano passa nell'industria manifatturiera, trasferendosi nel resto del sistema produttivo, si imporranno coerenze ad alto impatto politico anche nell'istruzione, nella sanità, nell'organizzazione dei servizi di welfare, perché tutto si tiene. Da una simile rivoluzione non esce indenne il nostro vecchio stato, con la sua pubblica amministrazione, le sue abitudini”.
Obiezione uno: ma non era in crisi lo sviluppo liberista, l'Europa non era ridiventata un primo della classe, e Obama non è stato eletto anche con un comizio a Berlino? Risponde Mieli: “Le crisi americane sono cicliche, distruggono e ricreano, la crisi della crescita europea è invece strutturale ed è esposta alla delocalizzazione delle produzioni nel mercato mondiale interdipendente, come e più dell'apparato produttivo e tecnologico Usa”. Con l'eccezione della Germania esportatrice, si direbbe, che cresce vigorosamente e compete con gli Stati Uniti. “La Germania è un'eccezione. Già con il secondo governo di Gerhard Schroeder aveva innovato i suoi modelli contrattuali, e in gran parte le sue risposte dinamiche dipendono da una americanizzazione di antiche radici, visibile nei consumi nella tecnologia e nelle esportazioni: i tedeschi sapevano, come il Giappone, di aver perso la guerra, sono stati paesi a sorveglianza speciale e con l'obiettivo speciale del ripristino dell'identità: riunificazione per i tedeschi e modernità costituzionale compiuta per il Giappone tradizionalista. La disciplina del lavoro e la competitività sono incorporate nella loro cultura, quale che sia la curva del ciclo economico, industriale e finanziario”.
Che sia l'Italia, e in particolare la Fiat, a costruire il laboratorio di una compiuta americanizzazione delle relazioni industriali sembra un paradosso, no? “Non tanto. Nel 1985 intervistai Gianni Agnelli a quarant'anni dalla Liberazione, e ne nacque un rapporto duraturo. Capii dalle cose che mi confidò in ore di conversazione, dalle sfumature culturali, dal racconto delle amicizie, Kissinger in testa, delle passioni, dei modelli di riferimento, che l'America, dopo il senatore Giovanni Agnelli, il fondatore, con suo nipote era entrata nelle vene della famiglia e della Fiat. Le manifestazioni di questa contaminazione sono molte e molte sono anche stranote. Con Vittorio Valletta si ebbero primi esperimenti di sincretismo americano-italiano nelle relazioni sindacali, sia pure nel clima della Guerra fredda e nella società politica torinese e nazionale così diverse dal distretto fordista di Detroit; poi la cosa continuò con l'Avvocato, perfino con l'ottocentesco e forte Cesare Romiti e infine con l'americano Paolo Fresco, per non parlare del lungo sodalizio trasversale a tutte le leadership con l'americano Gianluigi Gabetti”.
Oggi però si definisce, con modalità per certi aspetti esplosive, una differenza Marchionne. Roba piuttosto radicale. “Sì, e la differenza radicale sta nel fatto che Chrysler-Fiat è un'industria americana e italiana, la ragione sociale è nuova, le regole del gioco sono strutturalmente nuove, il rapporto con il modello oltre l'Atlantico è ormai diretto, senza mediazioni, non è più solo questione di sfumature culturali, di educazione dei nipoti… gli sms in inglese tra Marchionne e Jaki sono segni dei tempi che più chiari non potrebbero essere”. Il primo passo fu la scelta per la General Motors invece che per la Daimler, poi il famoso put fu vittoriosamente ricontrattato da Marchionne, e infine il colpo spettacolare della presa in carico, con la mediazione della Casa Bianca, di una delle grandi industrie di Detroit. Ma io ricordo un Avvocato a capo di Confindustria che concesse a Lama il massimo di distacco del salario dalla produttività, la mitica e rivoluzionaria ma insostenibile scala mobile dei salari. “Certo – dice Mieli – facevano i conti con la realtà, avevano in casa il più forte Pc dell'occidente, e in crescita alla metà dei Settanta, e Lama era titolare di una linea duttile, di responsabilità nazionale di fronte all'attacco terroristico e alla guerriglia di fabbrica. Ma la stella polare, il grande appuntamento identitario della Fiat degli Agnelli era l'America con il suo modello produttivo, dal lavoro alla qualità tecnologica all'innovazione alle relazioni industriali e sindacali”. E Confindustria? Pare in subbuglio dopo il vertice di New York e l'uscita di Fiat. “Dovrà adattarsi, riformulare il suo ruolo drasticamente, è sovrarappresentata nel sistema, insieme con i sindacati confederali e di categoria. Con le nuove compagnie industriali di Marchionne cambierà un po' tutto nel circuito industria, banche, sindacati, e politica. Dove si produce potere, oggi in Italia, non si produce un corrispondente livello di energia. Salari, consumi, liberalizzazioni, mobilità: la logica aziendalista tende a modificare la foresta corporativa che abbiamo davanti”. Ci risiamo: ciò che è bene per la Fiat è bene per l'Italia. “Con una variante significativa: ciò che è bene per la Chrysler è bene per l'Italia”.
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