Il culto di Elio
C'è un rischio che non bisogna correre se si vuole parlare oggi di Elio e le Storie Tese (EELST), di cosa ci stiano a fare adesso nella scena musicale italiana, ma anche ai margini della nostra informazione, nel corrimano delle notizie che in poche ore si tramutano in pochade. Il pericolo in questione è quello di conformarsi, fare come loro e perciò – senza avere i guizzi di cui loro sono capaci – buttarla in scherzo, in battute, in ammiccamenti.
Ridere per ridere
1. Elio, ma nella vita privata sei così? “No, cambio completamente. Sono biondo”.
2. “Chi l'ha detto che i giovani non hanno ideali? E' falso. Basta salire su un autobus per rendersene conto. C'è un nuovo credo che si tocca con mano: l'assenza di peli. Per la rasatura totale sopportano un dolore bestiale, spendono soldi, investono tempo. Se questi non sono sacrifici!”.
3. Qualcuno di voi ha abitudini insopportabili? Elio: “Io ho un solo neo. Cago in pubblico. E' l'unica cosa. Per il resto credo di essere l'ospite ideale”. Faso: “E' importante che quello tra noi che si trova con Elio, porti con sé un set come quello dei cani”.
C'è un rischio che non bisogna correre se si vuole parlare oggi di Elio e le Storie Tese (EELST), di cosa ci stiano a fare adesso nella scena musicale italiana, ma anche ai margini della nostra informazione, nel corrimano delle notizie che in poche ore si tramutano in pochade. Il pericolo in questione è quello di conformarsi, fare come loro e perciò – senza avere i guizzi di cui loro sono capaci – buttarla in scherzo, in battute, in ammiccamenti. Il modo giusto di ragionare oggi su EELST è in modo serio, ascoltandone le risonanze e in particolare provando a capire perché loro ci siano e prosperino in modo così flagrante di questi tempi – fermo restando che sono in circolazione da trent'anni e nel pop non è dato che dopo trent'anni di carriera si possa arrivare ai picchi della propria popolarità. Ergo, sotto c'è qualcos'altro di grosso, che ha meno a che vedere con la musica e riguarda invece la rappresentatività. Oggi, loro che per vocazione, gusto e dispetto, sono maestri di mascheramento, un po' goliardi e un po' saltimbanchi, oggi scrivono canzoni che sono slogan, a dispetto del fatto che non smettano d'essere poemetti demenziali, che usano le tecniche d'irrisione del Marchese del Grillo, Petrolini e Rascel e di tanti altri che per decenni, nella tv e soprattutto nella radio di stato (Antonella Steni e Elio Pandolfi?) hanno battuto le strade delle parodie e delle prese in giro, magari con la stoccata velenosa nascosta in fondo. Di fatto, adesso, non c'è niente nella scena musicale italiana che sia influente quanto Elio e le Storie Tese. Fanno opinione, tendenza, passaparola. E il bello è che ciò accade non appena Stefano, voce-volto della band, è appena uscito indenne, per non dire trionfante, dall'operazione più ambigua alla quale potesse mai azzardarsi, ovvero passare quattro mesi al tavolo della giuria di “X Factor”, che a prima vista sembrerebbe il posto dove si firma un armistizio, mica una presa di potere. Ma andiamo con ordine
La storia
1. La storia ha inizio con “Live In Borgomanero” che circolava solo su cassetta. Elio: “Era il 1986. All'epoca la musica era un hobby per tutti e il nostro pubblico era formato per il 99 per cento da maschi. Oggi sono solo l'85 per cento. C'è una lenta ma inarrestabile evoluzione”.
2. Elio, che ci dici sulla scena di Milano di quando avete iniziato? Gente come gli Allegri Leprotti… “Non li ricordo bene-bene… la verità è che quando siamo nati noi, sul finire degli anni 70, c'era un fiorire di gruppi del genere… Ricordo Gino e i Maiali, per dire. Come in tutte le mode, c'era un po' di scimmiottamento e tanta gente aveva intrapreso questa strada senza avere i mezzi per farlo”.
3. “Un episodio indimenticabile in senso negativo è stata la morte di Feiez, perché eravamo sul palco insieme, e ci è morto di fronte agli occhi, cosa che non auguro a nessuno. Un'altra cosa negativa, ma molto meno negativa, è stata il film che abbiamo fatto con Rocco Siffredi. Non perché sia stato brutto, ma perché nelle nostre idee c'era una grande avventura, e quando siamo stati lì ci siamo accorti che non era la figata che immaginavamo ed era pure un po' squallido, per certi versi”.
Il bello è che il tema della “lunga gavetta”, praticamente non s'è mai dissociato dai racconti su EELST. Che è anche una vicenda interessante anche nella sua normalità, che ne fa materia facilmente condivisa. Compagni di scuola al liceo Einstein di Milano, dietro viale Umbria, zona tardivamente al centro di una gran mutazione urbana. Siamo alla fine dei Settanta e il collante tra gli Elii originali è l'amore per Frank Zappa – che in quegli anni ha messo in circolazione un paio d'album popolarissimi tra i nostri studenti, “Grand Wazoo” e “Apostrophe” – e la voglia di suonare qualcosa che si mettesse in risonanza con lui, ma contenesse anche i germi che il ‘77 portava a galla, a cominciare dalla dissacrazione come nuova forma di antagonismo, la risata disarmata, insomma il sillabario di Andrea Pazienza. Stefano Belisari (Elio), Luca Mangoni, che adesso fa il Pierrot negli show della band e Marco Conforti (oggi manager del gruppo) esordirono nel 1980 a San Siro, ma mica dentro lo stadio, a una festa popolare. Il gruppo ha i vezzi dell'epoca: identificare i componenti con nomignoli cretini, proseguire una certosina attività sotterranea che nessuno si fila, provare ostinatamente e così intensamente da fare del proprio repertorio una specie di Talmud. Qui nasce appunto il mito dell'eterna gavetta degli Elii, che per tutti gli anni Ottanta suonano ovunque li si chiami e un po' alla volta s'impongono, se non altro nel senso che – batti batti – il nome circola, sebbene non pubblichino niente, perché era complicato, mica come adesso. Ma dal momento che i concerti sono sempre più divertenti e la band ormai ha acquisito notevole padronanza, si crea un seguito di culto, che si alimenta di cassette registrate dal vivo e fedelmente copiate col metodo dei due registratori collegati col filo (molto insoddisfacente). L'altro effetto è che dopo dieci anni di concerti e già vicini alla trentina, gli EELST hanno avuto modo di acquisire un'ottima preparazione musicale, padronanza di palco e quel metodo di lavoro che – come si vede dalla bulimia partecipativa e produttiva nella tv di questi tempi – permette loro di realizzare qualsiasi pezzo, collage, remix, parodia e pantomima in tempi brevissimi, grazie alla competenza e all'intesa assoluta tra i membri del gruppo, che s'intendono con un'occhiata. Quella che segue – attraverso canali di diffusione che sono una prerogativa descrittiva italiana, ovvero certi giri universitari, o di primo impiego, o di trentenni informati sebbene inquadrati, insomma un pubblico della sinistra democratica portata più allo scetticismo che alla militanza – è una diffusione a macchia d'olio del fenomeno-Elio. Dove passano a suonare, o dove qualche dj li programma con costanza, diventano dei prediletti. E il gioco preferito in città, in queste compagnie della pizza al sabato sera, è la citazione dei loro sterminati testi, con coretto e rimpiattino. Zappa c'è sempre, nella concezione della mobilità musicale, che in fondo è la stessa dell'opera lirica. Ovvero loro usano di tutto, alla faccia della gabbia strofa-ritornello del pop: si entra e si esce, a seconda dell'atmosfera richiesta o degli effetti da provocare, da sonorità, ritmi e citazioni estranei gli uni agli altri, con esecuzioni impeccabili e il coordinamento di Elio, che ormai, oltre che il cantante, fa l'MC, il maestro di cerimonie, l'annunciatore, il cantastorie e l'attore. In provincia, prima che nelle grandi città, ma coprendo l'intera penisola, Elio e soci diventano ciò che sappiamo, almeno riguardo alla loro prima vita. Fino al punto di svolta che, a posteriori, va identificato con la partecipazione a Sanremo ‘96, cantando della “Terra dei Cachi”.
La peculiarità (sono bravi)
1. “Sarebbe come dire di Zappa che è ‘grande artista peccato che non faccia delle robe serie'. Secondo me Zappa fa robe super-serie, il limite è che, non parlando inglese, nessuno capisce cosa dica”.
2. “Mi sono ispirato in larga misura a Zappa più che agli Skiantos. E' facile per i critici etichettare il gruppo come demenziale. Ma in realtà gli unici demenziali veri in Italia sono gli Skiantos”.
3. “Per esempio i White Stripes era gente non in grado di suonare la batteria con indipendenza tra piedi e mani. Eppure considerati geni assoluti. Ma quando si parla di Elio e le Storie Tese, c'è sempre l'aria di sufficienza”.
Il dilemma che perseguita EELST è la loro asserita parentela con il genere demenziale, che in Italia ha avuto pochissima fortuna commerciale, ma un'attenzione perfino immeritata da parte della stampa, fermo restando la lucentezza degli Skiantos, limitatamente agli inizi. La prerogativa di EELST, ovvero l'utilizzo del pop in una chiave irregolare e imprevedibile, viene sbrigativamente incasellata come “musica satirica”, filiazione buffonesca degli sketch da cabaret, e perciò sprovvista della patente emotiva accordata, ad esempio, ai rocchettari purosangue. Il progetto, in realtà, è più serio e strutturato di così. Anche se forse non è così serio come adesso, d'improvviso, nel procedimento di santificazione che sta investendo gli Elii in coincidenza col loro trentennale, tutti gli editorialisti si affrettano a sancire, una questione di maieutica a tempo di marcetta. Nella lunga e piuttosto commovente storia degli Elii – commovente perché visti da vicino sono un gruppo di ragazzi italiani cresciuti ma non del tutto, tratto distintivo e caratteristico che ne fa dei prototipi nazionali riconoscibilissimi – la cosa davvero interessante è la dignità della loro longevità. Basata sulla capacità di rinnovarsi. E non tanto in base a un'idea folgorante, ma a un lavoro serio e quantitativamente rispettabile. Che è un po' la loro silenziosa caratteristica. Che non ne fa dei romantici bohémien, ma neanche dei fashion victims. Quanto della gente piuttosto perbene.
Un nuovo posto
1. “Noi siamo testimoni del nostro tempo, non mi stanco di dirlo sempre. E le nostre canzoni sono testimonianze del nostro tempo. Come quella che parla di un tossico che va dal farmacista e pretende di comperare siringa e acqua con un pezzo da cinquantamila lire e il farmacista, con la scusa che non ha il resto, non gliela dà. Allora il tossico s'incazza. Una storia vera, parola di Rocco Tanica”.
2. “La crisi culturale di Milano è un dato di fatto. Credo che a Milano non esistano neppure più i giovani: la città è in mano ai vecchi. Per cui nascono le crociate anti graffiti, che sembrano la più grave emergenza di Milano”.
Dunque il passo azzeccato che EELST hanno prodotto, qualche stagione orsono, e che di questi tempi cavalcano a tutta birra, è il salto di qualità contenutistica delle loro canzoni. Dalle storie dell'assurdo italiano, ridanciano e surreale, insomma da ambientazioni tra Tati, Steve Martin e Philip Dick (o tra Tognazzi, Walter Chiari e il post Fantozzi), si sono trasferiti, col loro armamentario di cultura e accessi musicali pop-rock, alla cronaca, e perfino alla politica – in accezione pop, naturalmente. Adesso sono diventati – e l'incarico sta assumendo permanenza – la voce della satira in musica, o perfino, vista la popolarità dei motivetti che mettono in circolo a raffica, la voce della satira tout court. Per questo motivo “La terra dei cachi” è lo snodo del loro percorso: da lì a oggi, hanno parlato sempre meno di Pilipino Rock, Ignudi fra i nudisti e Tapparella e sempre più dei fuori onda di Fini (coretto: Fuori-O, Fuori-O, Fuori-O), del 150enario dell'Unità (con Garibaldi che unisce qualsiasi cosa incontri), fino al deprecabile “Bunga Bunga” banalmente spalmato su “Waka Waka”, in un parossistico prontuario delle porcherie da sfottere nell'Italia del presente. Successo? Parecchio. Problemi? Una perdita di qualità, pur comprensibile col fatto di stare sempre sul pezzo. Non si ride sempre quanto si vorrebbe, certe volte le cose sono fatte in fretta, un po' rimediate, nonostante i guizzi non manchino. Fa specie, in un gruppo di ossessivi perfezionisti come loro, che adesso sembrino più attenti a far ridere coi costumi che cambiano tutte le sere, che con lo humour zappiano. Ma il fatto è che ormai per Elio e soci il mondo dello spettacolo italiano non ha più segreti. E loro, dal momento che hanno deciso di abitarci stabilmente, scovano modi sempre più acuti di starci dentro. Come, ad esempio, fare il gioco duro. Ovvero, spedire Elio niente meno che a fare il giurato a “X Factor”.
Gente col talent
1. Elio, voi avete fatto una gavetta lunghissima: qual è la vostra posizione riguardo al meccanismo del “successo subito”, creato nei talent show? “Il problema più che il successo improvviso, è il motivo che ti spinge a andare a un talent show. Cioè la ricerca del successo e non la voglia d'inventarti qualcosa di interessante”.
2. “Se un giovane va a fare ‘Amici' o ‘X Factor', il suo obiettivo non è intraprendere una carriera artistica, ma vincere il programma; si arriva all'assurdità che sono più importanti le fotografie che fai, rispetto a cosa canti… Ci sono ragazzi di 20 anni che invece di arrivare e spaccare tutto, cantano roba vecchissima e nessuno che trovi niente da ridire”.
3. “Artisti che sono stati determinanti per la cultura musicale italiana, se si presentassero oggi a un talent show verrebbero automaticamente buttati fuori alla prima serata. La discografia è in mano a gente che non capisce nulla di musica e i talent show sono perfetti, perché in un colpo solo creano l'artista e il personaggio televisivo, ossia un investimento sicuro”.
4. Forte del successo arrivato grazie al talent show, Elio ipotizza un impegno più diretto in tv: “Mi piacerebbe sfruttare la popolarità ottenuta da ‘X Factor' per condurre uno spettacolo musicale dove si possano rivedere tutti quegli artisti che in tv non ci vanno più. Ho le idee chiare su come si potrebbe fare un Sanremo di qualità, ma l'interrogativo è: alla Rai avranno voglia?”.
5. Elio direttore artistico di Sanremo. Cosa ci dovremmo aspettare? “Un Festival che metta in primo piano la musica e nello stesso tempo un programma televisivo di qualità: sbaglio, o abbiamo dimostrato di esserne capaci?”.
Da mettere in conto è che una certa percentuale di fan della prima ora si sarebbe incazzata. Insomma, cosa sia “X Factor”, al di là della buona volontà e in certi casi della qualità (e della mancanza di alternative) dei concorrenti di questo talent show in particolare (nel senso che è meglio degli altri), lo si sa: con l'impatto che ha, sta modificando i consumi musicali in Italia. E se da un lato era indispensabile farlo, per non morire d'inedia, dall'altro finiscono piallati una serie di presupposti della scena musicale del secondo Novecento su cui diversa gente ha costruito un bel pezzo del suo stile di vita. Finita la discografia, la televisione ha preso le redini del gioco musicale. E veder seduto al tavolo dei giurati, uno che sull'argomento non era mai stato tenero come Elio, e che incarnava un approccio veramente indipendente, artigianale e perfino artistico al mestiere musicale, ha fatto effetto. Ma qui lui ha prodotto il capolavoro. Ovvero ha occupato la poltrona di Morgan portando con sé autorevolezza, ironia, dissacrazione, senso del ridicolo, spiazzamento all'interno dello stesso meccanismo del programma. E alla fine ne è uscito non solo come il vero dominatore, ma come l'influente decodificatore. In un certo senso ha rigenerato il vecchio principio del combattere il sistema dall'interno, intrufolandosi nelle sue pieghe e sfruttandone la potenza. Con lui seduto lì, una certa Italia ha accettato di guardare un talent show, per il gusto di condividere o disapprovare le sue sentenze. Elio ha tradotto in un'opportunità quello che nel contempo era un formidabile veicolo di popolarità per il suo personaggio. Mentre argomentava nel ruolo bizzarro di giudice di un talent – puntando sul suo pallino originale del saper fare bene le cose – si è reso sempre più celebre e apprezzato che mai (perché chi non lo conosceva è restato meravigliato dalla sua qualità) e ha posto le basi per un rilancio produttivo, che collocheremmo in sintonia, chessò, con quello di un Jon Stewart, di un uomo di spettacolo che ha tale dimestichezza coi meccanismi dell'intrattenimento e con il rigenerante potere di una loro sorridente sovversione, da potere dare progetti in grande. La direzione musicale di Sanremo, appunto, e poi magari, un carrozzone tutto loro, sul genere di quello appena condotto trionfalmente da Fabio Fazio. E che magari si ritrasforma in uno spettacolo itinerante, che traversa il paese, sfotte e raccoglie consensi. Perché questa banda di cinquantenni è nel momento magico e, se fa qualche compromesso con la vecchia disciplina artistica, è perché il gioco vale la candela. Ma soprattutto perché, scrutando con attenzione, Elio e i suoi si sono accorti che nella nostra scena di oggi c'è un vero, enorme buco di credibilità, un baratro di attendibilità, di popolarità musicale del quale si poteva approfittare e che può essere riempito. Da chi, come, loro, sappia perfettamente come si fa.
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