Caccia grossa alla 'ndrangheta
Nel giorno in cui la procura di Milano ha formulato la richiesta di giudizio immediato per 174 persone arrestate nell'operazione del luglio scorso che ha falcidiato i vertici della 'ndrangheta in Lombardia, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini ha trasformato d'un colpo in tema mediatico da prima pagina l'amara verità che gli investigatori denunciano inascoltati da tempo, come abbiamo raccontato nella prima puntata.
Nel giorno in cui la procura di Milano ha formulato la richiesta di giudizio immediato per 174 persone arrestate nell'operazione del luglio scorso che ha falcidiato i vertici della 'ndrangheta in Lombardia, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini ha trasformato d'un colpo in tema mediatico da prima pagina l'amara verità che gli investigatori denunciano inascoltati da tempo, come abbiamo raccontato nella prima puntata: gli imprenditori lombardi e le vittime del racket non denunciano a sufficienza i loro aguzzini. Due salti di qualità in un solo giorno lasciano intuire che anche al nord stia per iniziare in grande stile la stagione delle grandi inchieste e dei grandi processi, fino ad oggi prerogativa delle regioni del sud. Non è difficile prevedere che prima o poi salirà anche la temperatura politica. Al di là della forzatura di Roberto Saviano sui presunti rapporti tra le mafie e la Lega, le cronache e le indagini confermano infatti che una “zona grigia”, per quanto limitata e di livello locale, esiste. Capirne genesi e sviluppo è operazione complessa. Anche a causa della particolare natura della criminalità calabrese.
“La 'ndrangheta ci sarà finché ci sarà un uomo sulla terra”, ha detto e ribadito il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, per spiegare l'impenetrabile intreccio familiare e criminale nato per combattere lo stato e costruito su una gerarchia dal sapore letterario e biblico. I loro gradi, che i calabresi chiamano doti, hanno nomi così: infinito, vangelo, stella, mammasantissima mentre la più alta si chiama conte Ugolone che, secondo la leggenda a cui si ispira la 'ndrangheta, fu uno dei tre cavalieri che avrebbero fondato l'Onorata società nel 1771 (alcuni affiliati la chiamano anche luce, santa, e società degli uomini). E oggi ha una struttura a suo modo federalista, basata su una gerarchia orizzontale costituita da una serie di 'ndrine che formano una “locale”, che a sua volta forma una “provincia”. Con un'inclinazione al lavoro territoriale da fare invidia, o quasi, a qualsiasi partito che ambisca al radicamento capillare. In un'intervista video realizzata da Frediano Manzi dell'associazione Sos Antiusura e dall'attore Giulio Cavalli – una specie di Saviano lombardo, un giovane attore eletto in consiglio regionale nelle file dell'Idv, che vive anche lui protetto dalla scorta – a un geometra di Paderno Dugnano “assunto” dalla 'ndrangheta per fare perizie sui cantieri, prima di essere esautorato e minacciato, dice: “Non esiste un comune della Brianza che non sia comandato da loro”. Probabilmente esagera, e per ora i politici lombardi sfiorati dalle inchieste o che sono indagati e finiti in carcere si contano sulle dita di una sola mano. Ma nel Tribunale di Milano si vocifera di un possibile seguito della grande operazione giudiziaria denominata Infinito, che l'estate scorsa ha portato a 300 arresti, di cui 150 in Lombardia, e 50 in Brianza, e che sta scavando proprio sui rapporti fra le 'ndrine calabresi – che ormai in Lombardia puntano sulla terza generazione – ed esponenti politici locali, i cui nomi sono comparsi in intercettazioni. Questione, dunque, da prendere come sempre con le molle. Il che non toglie che a Desio la Lega abbia recentemente affondato la giunta di cui faceva parte, alleandosi con il Pd, dopo che alcuni esponenti della giunta stessa sono stati coinvolti nell'operazione Infinito. “Volevamo azzerare la giunta e dare un segnale di discontinuità”, spiega al Foglio l'ex vicesindaco leghista Ettore Motta. Praticamente si è trattato di uno scioglimento informale di un governo comunale per infiltrazioni mafiose. Ma con la peculiarità non trascurabile che, al momento, i politici coinvolti non risultano essere indagati.
Ci sono però fatti che fanno ben capire come la presenza della malavita organizzata sia ormai un dato strutturale in un contesto economicamente sviluppato come quello della Brianza. In pochi sanno che il boss Natale Iamonte venne mandato, tra il settembre 1988 e il marzo 1991, in regime di sorveglianza a Desio, dove oggi la comunità calabrese è formata da 3.000 residenti su 20 mila abitanti, tutti provenienti dallo stesso paese: Melito Porto Salvo, governato dalla cosca Iamonte. Iamonte è lo zio materno di Natale Moscato, classe 1944, imprenditore edile di Desio. Lui era l'ex assessore comunale all'Urbanistica, mentre il fratello Annunziato nel 1990 venne eletto consigliere comunale. Così come pochi sanno che nella storica residenza di Villa Tittoni, dove recentemente gli esponenti comunali di una giunta apparentemente infiltrata dalla 'ndrangheta organizza serate molto buoniste dedicate alla contaminazione della mafia in Brianza, nel 1992 ci fu un incendio doloso e mafioso, perché lì si trova la sede dell'ufficio tecnico del comune. Sul quale per 40 anni ha regnato un direttore che i desiani hanno soprannominato il “cardinale nero”, Rosario Perri (ora ex assessore e per anni dirigente dell'ufficio tecnico comunale) che nelle intercettazioni fatte dai magistrati parla di molti soldi nascosti nei tubi della sua abitazione. Sia come sia, per i leghisti, era arrivato il momento di tirarsi indietro. “Ci hanno accusato di cedere al gossip, di fare demagogia, di essere irresponsabili”, spiega il capogruppo della Lega in comune, Andrea Villa “ma le indagini hanno rivelato ciò che era vox populi da anni. E cioè che Desio è una cittadina contaminata dalla mafia calabrese. Se si dà retta alla tesi dell'accusa, qui c'è stata una connivenza tra centri di potere affiliati alla 'ndrangheta e personaggi vicini alla macchina comunale". Ma anche per gli inquirenti il rapporto fra 'ndrangheta e politica resta per ora un nodo controverso anche perché, a parte qualche caso minore, nessun esponente politico risulta indagato. Anche se il sindaco di Borgarello, Giovanni Valdes, è stato recentemente arrestato, in ottobre, in seguito al maxiblitz dell'estate scorsa, per turbativa d'asta che riguarda l'assegnazione di un lotto, mentre l'ex sindaco del Pd di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini è stato arrestato per corruzione all'interno di un'altra operazione antimafia, Parco Sud.
Il filone più corposo e mediaticamente rilevante, sotto il profilo politico, è per ora quello che riguarda Pavia, dove il più noto dei 174 rinviati a giudizio di ieri, Carlo Chiriaco, nato a Reggio Calabria, si era trasferito per laurearsi in Medicina e diventare nel 2008 direttore sanitario dell'Asl di Pavia, che ha gestito fra i vari poli sanitari anche la clinica Maugeri, dove viene rintracciato un latitante, Francesco Pelle, accusato di essere il mandante della strage di Natale a Duisburg. Chiriaco è un calabrese vicino a Pino Neri (l'altro nome eccellente dei 174) che, dopo l'omicidio di Nunzio Novella nel 2008, voleva fare una “rivoluzione federalista” ed emancipare le 'ndrine lombarde da quelle calabresi, ed era capo pro tempore della 'ndrangheta lombarda. Prima di essere sostituito da un ottantenne, Pasquale Zappia: nominato con il famoso brindisi registrato dai carabinieri nel 2009 in un circolo Arci dedicato a Falcone e Borsellino a Paderno Dugnano.
Un summit mafioso in un circolo Arci dedicato alle vittime delle stragi del '92 non è l'unica beffa, forse casuale, della 'ndrangheta in Lombardia. Beffardo è anche il caso di Pino Neri, arrestato l'estate scorsa, laureatosi a Pavia in Giurisprudenza con una tesi molto dettagliata sulla 'ndrangheta. Forse non lo fanno per deridere lo stato nelle sue regioni del nord formalmente libere delle mafie. Forse lo fanno semplicemente perché gli 'ndranghetisti lombardi di seconda o terza generazione sono cresciuti alla periferia di Milano, e la considerano casa loro. O roba loro, al punto che nel comune di Lonate Pozzolo, quello della Malpensa per intenderci, progettavano di ottenere gli appalti per costruire una struttura sulla pista di atterraggio e, per convincere la commissione edilizia a concedere il nulla osta a una delle loro aziende, hanno bruciato la macchina di un architetto, membro della commissione edilizia stessa. Mandando un balordo a compiere l'opera direttamente nel parcheggio del comune.
Ma è a Pavia che le ombre della zona grigia, per ora più che altro mediatica, si fanno più fitte. Indagini e intercettazioni hanno lambito soprattutto il parlamentare Giancarlo Abelli, ex uomo forte della sanità lombarda, vicino a Formigoni, sul quale Carlo Chiriaco avrebbe cercato di far convogliare molti voti alle ultime elezioni regionali, almeno stando alla ormai nota intercettazione al telefono: “Farei la campagna elettorale con la pistola in bocca, perché chi non lo vota gli sparo”. Anche se poi ai magistrati ha detto che stava giocando a fare il mafioso. In ogni caso è stato accertato che Chiriaco ha sborsato duemila euro per far eleggere un avvocato, Pietro Trivi, nominato assessore al Commercio e poi dimessosi dopo l'avviso di garanzia, mentre Abelli, che non risulta indagato, ha smentito qualsiasi accordo con le cosche, ed è attualmente parlamentare del Pdl. E non ha preso dodicimila preferenze, come si auguravano i calabresi, ma la metà dei voti presi invece da un giovane consigliere regionale della Lega, Angelo Ciocca, fotografato proprio con Pino Neri durante una trattativa per un immobile. Anche Angelo Ciocca non risulta indagato (“L'ho incontrato per la prima volta nella piazza del mercato di Pavia e di lui sapevo solo che era un avvocato”, precisa al Foglio) anche se nessuno riesce a spiegarsi come mai abbia preso 18 mila preferenze, più di quelle ottenute dal figlio di Bossi. In ogni caso non esistono riscontri che lui abbia dato qualcosa in cambio ai calabresi né li abbia più incontrati (anche se Bossi lo ha chiamato in via Bellerio per chiedergli come ha fatto a prendere tanti voti, pare). Della Lega parla anche un geometra colluso e poi pentito intervistato da Frediano Manzi di Sos Antiusura e Giulio Cavalli, che ha lavorato in un altro comune di forte penetrazione calabrese: Paderno Dugnano. L'uomo, indirettamente, risponde alle accuse di Saviano sulla 'ndrangheta che “interloquisce con la Lega”. “Con loro non si può – ha dichiarato – Ecco perché i calabresi spingono e mandano avanti altre persone”.
Secondo indiscrezioni giudiziarie, i magistrati milanesi stanno scavando sul rapporto fra i politici locali e la 'ndrangheta, ma per ora, sembra più che altro che i malavitosi calabresi convoglino voti su chi pensano sia più incline a un sodalizio. A leggere le intercettazioni, pare per ora l'ipotesi più plausibile, anche se esistono molte evidenze di una certa frequentazione fra calabresi affiliati alla 'ndrangheta ed esponenti politici locali. Per il momento, girando per i comuni monitorati dalle procure, si sente dire sempre la stessa cosa: “Arriveranno nuovi avvisi di garanzia”.
Sul fenomeno della 'ndrangheta padana stanno uscendo contemporaneamente diversi libri e inchieste giornalistiche. E siccome estorsioni, rapine, faide, sequestri di persona sono avvenuti proprio negli anni in cui i primi autonomisti varesotti si affacciavano alla politica, ora molti di questi saggisti sostengono più o meno esplicitamente una tesi provocatoria. E cioè che la Lega non dovrebbe aspirare alla secessione di un territorio contaminato dalla 'ndrangheta, perché non può fare a meno dello stato in un momento così cruciale e delicato, in cui le procure stanno monitorando la sua infiltrazione. Lo sostiene per esempio il docente di Storia della criminalità organizzata dell'Università di Roma Tre, Enzo Ciconte nel suo saggio “'Ndrangheta Padana” (Rubbettino) ispirato agli ultimi blitz avvenuti in Lombardia, dal quale trapela anche una certa ansia di riscossa culturale. Anche se ritenere che l'Italia sia unita perché siamo tutti sotto scacco della mafia, e che paesi calabresi di 500-1.000 abitanti possano condizionare il tessuto politico e imprenditoriale della Lombardia e dell'intero settentrione, è un argomento un po' debole da sostenere (oltre che una triste consolazione) per avversare le tesi federaliste del Carroccio. Nel libro “O mia bella Madu 'ndrina” (Aliberti) Felice Manti e Antonino Monteleone puntano invece a dimostrare un collegamento fra 'ndranghetisti e uomini dei servizi segreti, mentre in quello del giornalista di Libero Gianluigi Nuzzi, “Metastasi” (Chiarelettere), scritto con Claudio Antonelli, si racconta la storia di un 'ndranghetista pentito, Giuseppe Di Belli (considerato però non molto attendibile da molte procure) in cui fra le altre cose si sostiene la tesi del rapporto fra i calabresi e un giovane dirigente leghista di Lecco scelto da un boss locale, Coco Trovato, che chiede ai suoi di votare Lega già nel 1990. Tutti hanno pensato a Roberto Castelli, che è andato da Santoro per difendere il suo nome e il suo impegno contro i mafiosi trasferiti in modo coatto dallo stato fra Lecco, Varese e Pavia negli anni 80. Infine, l'attore Giulio Cavalli, che vive sotto scorta da due anni, ha scritto il diario di una tournée teatrale fatta per fare nomi e cognomi dei mafiosi al nord. Si chiama, appunto, “Nomi, cognomi e infami” (Edizioni Ambiente).
Non bisogna però pensare che la terza generazione dei 'ndranghetisti, i rampolli delle dinastie dei Barbaro, dei Papalia, dei Pesce, dei Pelle, dei Novelli, dei Morabito che oggi hanno trent'anni e hanno apparentemente assorbito i codici culturali della loro patria adottiva, siano giovani che fanno un master alla Bocconi o vadano a studiare negli Stati Uniti. “Hanno facce pulite, sono molto affabili e rispettosi, legatissimi alle famiglie, parlano con accento lombardo, ma nascondono ancora i soldi sotto il materasso e vogliono stare immersi nelle loro immense ricchezze”, spiega Carmine Gallo, che è stato vicedirettore del team antimafia della squadra mobile di Milano. “Non quotano le loro aziende in Borsa (anche se ci hanno provato senza riuscirci) perché non perdono tempo a costruire una loro classe dirigente: usano geometri, commercialisti, avvocati, imprenditori esterni”, aggiunge. Qualcuno di loro invece va all'università. Diventano medici, ingegneri, economisti. Scelgono altre strade, pur rimanendo legati alla loro famiglia senza tradirla, ma non fanno la vita degli 'ndranghetisti. Ma anche questa dei rampolli che le famiglie malavitose destinano a una vita regolare, è in fondo una storia classica, antica. “Però sono più pericolosi degli integralisti musulmani, perché per uno arrestato ce ne sono dieci pronti a rimpiazzarlo”, spiega al Foglio il pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Milano, Mario Venditti. E allora non dovrebbe stupire che ci siano imprenditori lombardi che partecipano a matrimoni combinati per stringere alleanze fra le varie cosche e chiudere la stagione delle faide, così come non (dovrebbe) stupire che fra gli affiliati ci siano anche dei milanesi. E quindi non ci si dovrebbe impressionare se la figlia del boss dei boss Antonio Papalia, in carcere da 17 anni, moglie di un altro 'ndranghetista appena arrestato ha trent'anni, è bella, parla con accento milanese ed è una donna e una madre normale. Tranne che per un dettaglio: non ha potuto sposare l'uomo che amava perché dal carcere suo padre le ha imposto un matrimonio combinato per stringere un'alleanza. Ecco perché gli investigatori che li hanno spiati per vent'anni, e che hanno visto Sara crescere, seppur da lontano, raccontano che i legami familiari della 'ndrangheta sono così forti e impenetrabili da farli sembrare una comunità simile a quelle musulmane. E infatti nella storia romanzata della 'ndrangheta a Reggio Emilia, filiale settentrionale della cosca di Cutro, scritta da Sara Di Antonio, si capisce bene la filosofia del 'ndranghetista del terzo millennio. In “Mafia, le mani sul Nord” (Aliberti) il protagonista racconta: “Noi compriamo armi, spacciamo droga, compriamo ristoranti alla moda e possiamo contare sugli imprenditori che ci aiutano a riciclare il denaro. Non c'è bisogno di minacciare: basta far capire chi sei e loro pagano. Noi non siamo venuti al nord per sparare, ma per fare affari”.
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