Infiltrazioni in Padania
Roberto Saviano va all'attacco del nord e accusa la Lega di connivenze malavitose, il ministro Roberto Maroni snocciola la sua replica in diretta tv, le librerie sono prese d'assalto da saggi di ogni genere e tendenza politica sull'emergenza della 'ndrangheta padana e gli investigatori milanesi del pool antimafia – che negli ultimi mesi hanno arrestato e continuano ad arrestare mafiosi calabresi ben radicati in Lombardia (l'ultimo blitz è di venerdì scorso, 150 arresti solo a luglio) – reagiscono con indignato stupore.
Roberto Saviano va all'attacco del nord e accusa la Lega di connivenze malavitose, il ministro Roberto Maroni snocciola la sua replica in diretta tv, le librerie sono prese d'assalto da saggi di ogni genere e tendenza politica sull'emergenza della 'ndrangheta padana e gli investigatori milanesi del pool antimafia – che negli ultimi mesi hanno arrestato e continuano ad arrestare mafiosi calabresi ben radicati in Lombardia (l'ultimo blitz è di venerdì scorso, 150 arresti solo a luglio) – reagiscono con indignato stupore: perché per loro l'emergenza 'ndrangheta nel nord non è una novità, e non capiscono per quale motivo se ne parli solo ora.
Ha ragione Saviano quando insiste sul fatto che la 'ndrangheta interloquisce con la Lega perché è presente nei territori dove il Carroccio è più forte? O ha più ragione il ministro Maroni quando in diretta tv fa l'elenco del lavoro di indagine e di contrasto delle procure contro il radicamento della mafia calabrese al nord? Dopo le polemiche televisive, il ministro dell'Interno ha deciso di rispondere con i fatti: la scorsa settimana nelle regioni del nord è scattata l'ennesima azione in grande stile contro la 'ndrangheta, mentre lunedì in Sicilia le forze dell'ordine hanno messo a segno un colpo decisivo contro il clan Lo Piccolo. Il suo partito di appartenenza ha invece deciso di rispondere con uno scatto d'orgoglio. E sabato scorso al Pirellone ha organizzato un convegno contro la mafia al nord con un ospite d'onore che come risposta politica (e mediatica) vale mille punti: don Luigi Ciotti, che, davanti a una sala gremita di leghisti, racconta senza esitazioni la sua alleanza strategica con il ministro Maroni nella lotta alla mafia. “La Lega ha fatto approvare la legge sull'uso sociale dei beni confiscati alla mafia per la quale avevamo raccolto un milione di firme e le norme antimafia contenute nel pacchetto sicurezza voluto da Maroni hanno avuto il consenso di tutti. Non ho esitato a venire qui, perché la lotta alla criminalità organizzata riguarda tutti. Io vado ovunque si innalzi la bandiera della legalità”. E poi nella giornata dell'orgoglio padano si sono elencati intimidazioni, minacce, tentativi di infilitrazioni senza alcun imbarazzo, pare, mentre il ministro Maroni, assente, ha inviato i suoi dati: 6.754 mafiosi arrestati, beni confiscati per un valore di 18 miliardi di euro, e un fondo di somme sequestrate destinato alla sicurezza pubblica di 2 miliardi e 259 milioni di euro.
La risposta vera ai quesiti sulla presenza della criminalità organizzata al nord e sul lavoro di contrasto da parte delle istituzioni sta però scritta nelle ordinanze di custodia cautelare, esito di complesse inchieste giudiziarie concluse in Lombardia fra il 2008 e il 2010: nomi in codice Cerberus, Parco Sud, Isola-appalti Tav, Tenacia-Scavi Perego, Clan Valle, Infinito. Ordinanze che hanno dimostrato una cosa precisa, di cui è bene tenere conto all'inizio di ogni discorso attorno alla malavita organizzata nelle regioni del nord: la 'ndrangheta oggi è radicata in modo diffuso e capillare nel settentrione semplicemente perché c'era anche prima, nei decenni passati, e non se ne è mai andata. Arrivata negli anni 50 e 60 insieme agli emigranti, che hanno trasferito intere comunità provenienti dai paesi calabresi dove regnavano le 'ndrine familiari; successivamente radicatasi quando lo stato trasferì diversi mafiosi al nord con il sistema del domicilio coatto. Illudendosi che, confinandoli in un territorio (abbastanza) sano, sarebbero stati isolati e depotenziati dagli antivirus di quella parte del paese più sana e robusta, che credeva nella presenza dello stato e nella legalità. Il che ovviamente non è accaduto, perché la malavita attecchisce dove ci sono i soldi, che sono il suo terreno fertile, e la Lombardia degli anni 60 e 70 era terra di conquista. Infine, negli anni più recenti, la criminalità calabrese ha approfittato della distrazione delle procure, troppo concentrate a inseguire gli intrecci di Cosa nostra dopo le stragi del '92, e si è gradualmente inserita nei circuiti dell'economia legale. In Lombardia, ma anche in Liguria, in Piemonte, in Emilia. E, seppur in forma minore, in Veneto (soprattutto a Verona, dove Ciancimino junior si sarebbe recato due settimane fa per parlare di riciclaggio di denaro con un boss mafioso) e dove il governatore Luca Zaia qualche giorno fa ha dichiarato: “Le infiltrazioni ci sono, amministratori collusi no, la Lega vigilerà”.
Conclusa l'epoca dei sequestri di persona, negli anni 70-80, la 'ndrangheta ha accumulato enormi riserve di denaro grazie al traffico internazionale di droga e poi, negli anni 90, si è dedicata a un lavoro certosino di radicamento territoriale. Contaminando interi territori dell'hinterland milanese e trasformando la Lombardia in una filiale cruciale della mafia calabrese, che da anni tenta di infiltrarsi anche nelle file dei partiti per ottenere appalti e fare affari. Basta leggere attentamente l'ultima relazione semestrale della Dia inviata al Parlamento qualche settimana fa, dove è riassunta bene la penetrazione della 'ndrangheta (che secondo l'Eurispes avrebbe un volume di affari complessivo di 144 miliardi annui) nell'economia legale della Lombardia.
Secondo la Dia, la 'ndrangheta conta complessivamente su 136 'ndrine familiari per un totale di 1.500 affiliati: di queste 20 si trovano nella provincia di Milano, dove ci sarebbero 500 affiliati, che hanno stretto molteplici alleanze con settori economici e anche con esponenti politici locali. “In Lombardia le emergenze info-investigative hanno confermato la progressiva e costante evoluzione della 'ndrangheta, che interagisce con gli imprenditori lombardi attraverso due strategie: il consenso e l'assoggettamento, collegandosi con settori della Pubblica amministrazione che possano favorirne i disegni economici, che puntano soprattutto sugli appalti nei trasporti, nella gestione delle cave, nel settore immobiliare, nel sistema sanitario, nello smaltimento dei rifiuti e anche delle grandi opere dell'Expo 2015”, si legge nella relazione della Dia, che però definisce i settori della pubblica amministrazione “ignari”. Anche se nelle ultime operazioni giudiziarie sono stati evidenziati alcuni contatti con esponenti politici.
Una presenza invadente soprattutto nel movimento terra che, nonostante il nome suggestivo che sembra preso da un'associazione ecologista, riguarda tutte quelle ditte che scavano, sbancano, rimuovono tonnellate di terra per rendere i terreni edificabili, grazie a una serie infinita di subappalti ceduti da imprese edili lombarde ai calabresi. Un settore che, secondo i magistrati, è stato monopolizzato dalla mafia calabrese. Una tesi confermata anche da un geometra assunto dalla 'ndrangheta a Paderno Dugnano che, dopo essersi nascosto, in un'intervista video realizzata dall'associazione Sos racket e usura (vista dal Foglio) afferma: “Il 95 per cento del movimento terra in Lombardia è gestito dalla malavita calabrese. Sulle ruspe lavorano pregiudicati usciti dal carcere per 100-200 euro alla settimana”. Secondo la Dia “le loro tecniche di infiltrazione sono dovute al massimo ribasso delle gare di appalto e alla brevità temporale delle loro prestazioni. In Lombardia esiste una consolidata presenza di storiche famiglie della 'ndrangheta, che hanno influenzato la vita sociale economica e politica di alcune aree provinciali”. Alcune? Ecco l'elenco dei principali comuni coinvolti tratti dagli atti dei processi: Milano, Cormano, Bollate, Bresso, Corsico, Legnano, Limbiate, Solaro, Pioltello, Rho, Pavia, Canzo, Mariano Comense, Erba, Desio e Seregno, Lonate Pozzolo, solo per citarne alcuni. Vincenzo Mandalari per esempio (ora latitante) a Bollate si sentiva così potente da cercare di far cadere la giunta comunale, senza riuscirci, per poi costituire una lista civica e fare eleggere un suo sindaco. “Dopo gli arresti fatti in seguito ai sequestri negli anni 80, abbiamo bonificato intere zone dell'hinterland milanese e le abbiamo restituite allo stato”, spiega Carmine Gallo, un poliziotto che ha inseguito per vent'anni i malavitosi calabresi ed è stato fra quelli che nei primi anni 90 ha mandato alle procure milanesi relazioni dettagliate, prevedendo ciò che avrebbe fatto la 'ndrangheta in Lombardia se nessuno l'avesse fermata. “Purtroppo, dopo le stragi siciliane del '92, le procure erano troppo concentrate a indagare su Cosa nostra per capire che l'organizzazione mafiosa più potente e pericolosa era la 'ndrangheta”. Chissà se è vero che “il capoluogo lombardo e l'intera regione sembrano diventate la sesta provincia della Calabria. O la quattordicesima circoscrizione di Reggio Calabria”, come scrivono Felice Manti e Antonino Monteleone nel saggio molto documentato “O Mia bella Madu'ndrina” (Aliberti editore) uscito il 9 dicembre in libreria. A leggere infatti le diverse ordinanze di custodia cautelare scritte dai magistrati, che agli inizi del Terzo millennio hanno (ri)cominciato a fare la radiografia di un fenomeno conosciuto solo dagli addetti ai lavori, si prova questa gamma di sentimenti: imbarazzo, incertezza, stupore. Sì, perché la penetrazione della criminalità organizzata nel nord d'Italia pare molto estesa, diffusa e capillare. Ed è entrata (quasi) in punta di piedi nei circuiti economici dell'edilizia. E si prova anche un po' di irritazione, perché quando si legge per esempio l'episodio di alcuni membri del clan della famiglia Valle (di cui 15 arrestati nel luglio scorso), che hanno inseguito l'auto di un poliziotto in borghese fino al centro di Milano, per chiedergli il motivo per cui fosse passato più volte sotto la loro masseria a Cisliano, viene da scuotere la testa ed esclamare: “Ma non siamo mica a Locri!”. E infatti si fa fatica a credere che nella campagna brianzola i Valle avessero costruito un bunker con sito web, piscina e palme. Protetto da decine di telecamere, sensori e allarmi, cani da guardia e una stanza di controllo monitorata 24 ore su 24 dai luogotenenti del boss Francesco Valle. Un posto dove avvenivano i pestaggi agli imprenditori taglieggiati che non pagavano. “C'ho ancora i segni addosso”, dice un imprenditore registrato durante un'intercettazione ambientale. “Ho lasciato 250 mila euro di debiti, pensa un po' te! 250 mila euro di debiti e non so neanche se mi fanno fare Natale! Perché adesso sai quant'è passato? Un anno e tre mesi che io devo i soldi! […] Mi prenderanno la casa, tutto! Hanno il compromesso in mano! Capito? Tutto regolare, eh!”.
Forse, ora che tutti hanno scoperto l'emergenza 'ndrangheta si tende a esagerare un po', d'accordo. E a pensare che i calabresi siano acquattati in qualsiasi anfratto delle istituzioni lombarde, in attesa delle loro prede. Come succede spesso quando si scoprono le emergenze sociali, chi ne viene ossessionato non riesce a guardare in altre direzioni. Invece ci sono anche alcuni sindaci brianzoli che hanno denunciato il tentativo di infiltrazione e sono ancora al loro posto. Vivi e vegeti. Anche perché in Lombardia la 'ndrangheta lavora in silenzio, o quasi. Ma sicuramente colpisce la frase di uno dei rampolli dell'aristocrazia mafiosa calabrese trapiantata in Lombardia, Alfredo Iorio, che non ha ancora trent'anni e fino a qualche mese fa era socio della Kreiamo spa di Trezzano sul Naviglio (che aveva inglobato una società della cosca calabrese più potente, la Barbaro-Papalia) e al telefono diceva: “Facciamo affari, abbiamo rapporti, alcuni comuni sono tutti nostri, siamo ovunque, ma ormai non c'è più bisogno di fare male”. Anche se non è proprio così, visto che durante gli interrogatori agli imprenditori fatti negli ultimi anni, loro dicono sempre la stessa cosa: “Dotto' tengo famiglia”. E raccontano di incendi dolosi, attentati dinamitardi ai macchinari delle loro imprese, intimidazioni. Sempre secondo la Dia, i numeri delle intimidazioni sono questi: fra il 2009 e il 2010 ci sono stati 625 casi di estorsione, il doppio di quelle fatte in Calabria e altrettante centinaia di atti vandalici: 130 incendi dolosi per lo più ai danni di strutture imprenditoriali e oltre settanta episodi intimidatori commessi con armi, munizioni e in alcuni casi esplosivi (che raramente vengono denunciati). Anche le segnalazioni su operazioni irregolari da parte degli enti creditizi e delle amministrazioni pubbliche lombarde alle autorità giudiziarie rappresentano oltre un terzo di quelle complessive. Cifre che possono essere interpretate in due modi: o in Lombardia esistono ancora gli anticorpi al virus dell'illegalità mafiosa, oppure siamo al centro di un attacco senza precedenti.
Probabilmente entrambe le cose: se apriamo il capitolo dell'imprenditoria lombarda che ha aperto le porte alla malavita calabrese, sembra che molti imprenditori non siano culturalmente (né psicologicamente) attrezzati a issare una diga contro la 'ndrangheta e non sappiano come combattere l'omertà, perché non ne conoscono ancora bene implicazioni e conseguenze. Al punto che gli inquirenti non sanno stabilire, tranne per alcune eccezioni, se gli imprenditori lombardi siano collusi o vittime. Se ci sono 150 vittime di estorsioni, di cui solo uno è collaboratore di giustizia, e si contano sulle dita della mano quelli che hanno ammesso di aver ceduto alle pressioni degli imprenditori malavitosi “ma solo perché li abbiamo arrestati”, fanno notare gli inquirenti, allora il dubbio è lecito. Sono stati minacciati o sono consenzienti per convenienza? Se si leggono le intercettazioni sull'indagine dedicata alla Tav Milano-Venezia, nella quale è stata coinvolta un'azienda bergamasca, pare che fossero consenzienti. “Al punto che era l'azienda bergamasca a spiegare ai calabresi della cosca più potente, i Barbaro, come fare i contratti falsi per i subappalti a ditte che solitamente frammentano il loro lavoro in tanti cantieri per evitare i controlli”, spiega al Foglio il pubblico ministero della direzione distrettuale Antimafia di Milano, Mario Venditti, “e davano indicazioni ai calabresi su come fare per evitare la galera”. Emerge inoltre da un rapporto della Dia alla prefettura milanese, su 22 imprese subappaltatrici per lavori di movimento terra ricevuti da una florida impresa di Segrate, la Lucchini Artoni, un colosso nel campo delle costruzioni, 17 hanno sede legale in Calabria (anche se poi all'impresa lombarda è stato restituito il certificato antimafia).
Secondo gli inquirenti alcuni imprenditori lombardi hanno un doppio volto. Da una parte sono costretti a lavorare con i calabresi, dall'altra, protetti dai malavitosi, riescono ad affondare qualsiasi concorrente. “Insomma la verità è che il sodalizio fra malavita imprenditoriale calabrese e imprese lombarde ha annullato le leggi del libero mercato in alcuni settori dell'edilizia”, dicono gli investigatori.
Diversamente, se si legge cosa diceva il presidente della ditta lecchese Perego Strade, che aveva fatto entrare nella sua azienda molto indebitata la famiglia mafiosa di Salvatore Strangio e pensava di estromettere gli esponenti della cosca dalle quote societarie come se si trattasse di un gioco a Risiko, verrebbe da pensare che alcuni imprenditori siano vittime di un malinteso senso di superiorità culturale. Infatti il titolare della Perego, Ivano, pensava di poter giocare con il fuoco senza bruciarsi perché un lombardo può liberarsi facilmente di un calabrese che non sa nulla di economia. Una società lombarda molto grossa, quella dei Perego, che secondo Strangio dava da mangiare a 150 famiglie calabresi. Per Frediano Manzi, presidente dell'Associazione Sos Racket e Usura, che sta facendo uno sciopero della fame per cambiare la legge antiusura che secondo lui non protegge chi vorrebbe denunciare le intimidazioni, oggi ci sono due tipi di imprenditori: “Quelli deboli, che non riescono a ottenere fidi o prestiti e allora vanno dagli usurai mafiosi e quelli che invece sono collusi perché vogliono una cosa sola: tanti soldi, maledetti e subito. Senza pensare alle conseguenze. Sia come sia, secondo gli inquirenti il risultato, almeno in certi settori dell'edilizia, è quasi un ossimoro: oggi paradossalmente ci sono più imprenditori meridionali, stanchi di essere vessati, che si rivolgono alle autorità giudiziarie, di quanti ce ne siano al nord”, spiega un altro magistrato.
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