Ascoltate l'urlo di Sergio - Intervista a Giorgio La Malfa

Stefano Cingolani

“Sono davvero stupito dalle reazioni degli imprenditori. Un giorno dovranno pur spiegare perché lasciano solo Sergio Marchionne”. Giorgio La Malfa, ex ministro del Bilancio, deputato torinese, come suo padre Ugo per il quale l'avvocato Agnelli diceva sempre di votare, conosce bene la Fiat ed è convinto che, ancora una volta, venga da lì una scossa importante (e salutare) all'intero sistema.

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    “Sono davvero stupito dalle reazioni degli imprenditori. Un giorno dovranno pur spiegare perché lasciano solo Sergio Marchionne”. Giorgio La Malfa, ex ministro del Bilancio, deputato torinese, come suo padre Ugo per il quale l'avvocato Agnelli diceva sempre di votare, conosce bene la Fiat ed è convinto che, ancora una volta, venga da lì una scossa importante (e salutare) all'intero sistema. “Il punto di partenza – spiega al Foglio – è che l'Italia non si muove, la poca crescita è limitata alla manifattura piccola e media che certo è vitale, ma ha bisogno essa stessa di grandi imprese, dove si concentra la ricerca, l'innovazione. Abbiamo sempre avuto una grande industria – aggiunge La Malfa – con una leadership in settori importanti. Pirelli, Falck, Italsider, Electrolux, Montecatini, Edison. E' rimasta solo Fiat. Può l'Italia permettersi di perderla? Se l'amministratore delegato pone condizioni difficili, ma non impossibili, che titolo abbiamo per dire non si può fare? In fondo, Marchionne dice: datemi la flessibilità e vi darò alti salari. E' uno scambio assolutamente ragionevole, una scommessa possibile”.

    “Perché la Confindustria è così preoccupata?”, si chiede La Malfa. Che l'impresa automobilistica voglia un contratto più aderente alle proprie condizioni, è del tutto naturale. “Capisco il sindacato, data la debolezza attuale dei rapporti di forza: teme che, scegliendo la sede aziendale, gli sfugga di mano il potere contrattuale nei grandi gruppi, cioè là dove ancora esiste. Comprendo lo spauracchio della fabbrica senza sindacati come nelle aree di nuova industrializzazione nel sud ovest degli Stati Uniti. Anche se la fuga dal nord est è conseguenza delle eccessive rigidità sindacali e dei costi troppo elevati, in termini di paga oraria e contributi sociali. Ma la Confindustria? Teme di perdere rappresentatività, potere, influenza? Eppure non può essere solo sindacato degli imprenditori. Nel passato è stata un partner sociale. Ha sempre cercato di dare un contributo alle grandi questioni di politica economica. Oggi la sua posizione non può essere meramente difensiva”.

    Incoerente, per la verità, appare anche la Cisl. “Perché dice no al contratto aziendale? In fondo la contrattazione articolata è stata, storicamente, la strategia con la quale ha sfidato e messo in difficoltà la Cgil, più legata allo scambio politico, bloccata dal suo essere cinghia di trasmissione”. Non sarà perché alla Fiat non conta molto, tanto meno a Mirafiori? O forse perché è troppo condizionata dalla riforma contrattuale firmata con la Marcegaglia. Marchionne ha detto non mi basta e ha buttato a mare anche quella. “E' una questione di puntiglio? E su questo trascina con sé Maurizio Sacconi che pure in altre fasi s'è dichiarato favorevole a un diverso sistema di relazioni industriali?”, si chiede La Malfa al quale sta a cuore una questione più generale, cioè che “venga sottovalutato da tutti, a cominciare dalla politica, il rischio di marginalizzazione del paese”.

    E' lecito domandarsi se  Marchionne sia credibile, ma l'ex ministro stenta a credere che, dopo aver presentato un piano da 20 miliardi, possa tirarsi indietro. “In fondo, non vuole quattrini dai contribuenti italiani, vuole cambiare le relazioni sindacali”. Può diventare un paravento per coprire la ritirata. “In ogni caso, meglio non fornire alibi. Marchionne sicuramente è una figura diversa, non solo perché è un manager apolide, ma perché può lasciare la Fiat, intascare le sue stock option che sembra ammontino al due per cento del capitale e andare a lavorare in qualsiasi parte del mondo”. Certo, dà un colpo duro al modello del patto sociale alla Ciampi. “Ma quel patto – sottolinea La Malfa – è servito per entrare nell'euro, non per lo sviluppo. Oggi la situazione è diversa, non c'è da controllare l'inflazione da costi, ma da ricreare le condizioni per la crescita. Quindi è meglio abbandonare un vecchio feticcio, aprirsi e diversificare, non rimanere dentro uno schema troppo rigido che ha imbrigliato i sindacati quando essi erano forti e oggi rischia di imbrigliare le imprese”.

    A La Malfa non piace quella che egli definisce “la teoria dello stazzo. Olof Palme, il leader socialista svedese, diceva che il capitalismo va tosato non ucciso.  Ma oggi le pecore hanno a disposizione immensi prati dove pascolare, non vengono a farsi tagliare il pelo, a meno di non essere invitate, attratte, incoraggiate. Abbiamo bisogno non di un tosatore, ma di un pifferaio magico”. Affinché lo seguano, tuttavia, deve davvero incantare. “Proprio così. Non mi sembra il caso del governo italiano. Basti pensare alle tasse. L'imposizione fiscale sulle imprese e sul lavoro in Germania è al 25 per cento, ben venti punti meno dell'Italia. Se poi si aggiungono relazioni sindacali ferme a vent'anni fa, non capisco quale impresa straniera possa venire a investire da noi”. La Malfa è convinto che siamo “all'ultima spiaggia”. Forse è troppo pessimista, come gli capita spesso. Ma si può essere d'accordo con lui quando ammonisce: “Guai a perdere anche questa occasione”.

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